A 76 anni Philip Roth dice di avvertire sempre più il peso dell’età che avanza.
Michael Naumann
Philip Roth ha 76 anni – è nato intatti a Newark nel New Jersey nel marzo del 1933 -scrive da ormai 50 anni. Dai suoi libri sono stati tratti vari film, da “La macchia umana” con Nicole Kidman e “Elegy” con Penelope Cruz. Nel corso del tempo i temi dei suoi 23 romanzi e degli innumerevoli racconti si sono però modificati.
Una volta i suoi protagonisti erano animati da una visione ottimistico-satirica della vita con tanta enfasi sul sesso (basti pensare a “Il lamento di Portnoy”). Oggi invece convogliano paure, rimorsi e presentimenti di morte. L’ultimo romanzo dello scrittore americano. “Indignation” (in uscita in Italia tra qualche mese con Einaudi), considerato dalla critica Usa uno dei suoi migliori, ambientato ai tempi della guerra di Corea, ha per protagonista un uomo, caduto in quel conflitto e che si rivolge ai lettori dalla sua tomba.
Signor Roth, questo romanzo segna una svolta che rispecchia il suo rapporto con la vecchiaia?
Temo proprio di sì.
Cosa vuoi dire “teme”? Non è stata una scelta consapevole?
Diciamo che a guidarmi sono i miei interessi del momento. E quando scelgo un tema, lo faccio consapevolmente. Ma oggi sarei incapace di scrivere cose allegre o solo divertenti. Dietro questa mia scelta non c’e niente che assomigli a un’ideologia; e neppure c’è una pianificazione del mio lavoro. Ripeto, quello che scrivo è sempre e solo il riflesso spontaneo dei miei interessi e nient’altro.
La vecchiaia si avvicina…
Non si avvicina, è arrivata. Eppure ho moltissimi lettori giovani.
Il suo ultimo libro ricorda l’atmosfera dei collegi descritti in vari romanzi dell’epoca asburgica, per esempio “I turbamenti del giovane Torless” di Robert Musil. Un ragazzo si sente oppresso, spezzato nel suo animo, nel tentativo di forzarlo al conformismo. Il direttore del collegio descritto nel libro è l’incarnazione del male, ammantato di buone intenzioni. O in altri termini: è malvagità travestita da impegno pedagogico.
Il termine “malvagità” è eccessivo. Il linguaggio, il tono di voce di quel personaggio sono rappresentativi del periodo in cui si svolge la vicenda. Allora non ci rendevamo conto di quanto lo Stato tosse repressivo. Poi vennero gli anni ’60.
La vicenda si svolge nel periodo dei governi Truman e Eisenhower. I sogni dei giovani erano popolati da trionfi sportivi, cheerleader e fellatio in una Chevrolet…
Alla fellatio si è arrivati più tardi, dopo l’assassinio di Kennedy.
E allora perché ne parla in “Indignation”?
La ragazza nel libro anticipa i tempi: è uno spirito libero.
Generalmente i suoi protagonisti sono maschi; Nathan Zuckerman, David Kepesh. Persone che in un certo senso sono i suoi alter ego.
Quei due ormai sono fuori servizio. Mi sono stati utili per meglio organizzare il mio materiale. Zuckerman mi ha offerto una prospettiva, aiutandomi a selezionare le mie idee. Kepesh è uno che ha attraversato diverse fasi nella sua vita sessuale; si e trasformato in tre Kepesh distinti, ciascuno dei quali ha tatto esperienze sessuali diverse. Zuckerman e più vivace e poliedrico, ovviamente.
Zuckerman è una presenza silenziosa, anche quando lei è lontano dal tavolo di lavoro?
No, questi personaggi hanno sempre vissuto solo nel racconto. So inscindibilmente legati alle vicende dei miei romanzi.
Lei scrive rapidamente. Mentre per esempio Thomas Pynchon, che sta per pubblicare un suo nuovo romanzo, è lentissimo, perché non riesce a separarsi dai personaggi che ha creato. Li fa rivivere nei suoi libri con gli stessi nomi?
No, ma alcuni hanno le stesse paranoie.
Pensa che Pynchon sia paranoico?
Niente affatto. È un realista.
E lei? Nelle sue opere ha scritto in realtà varie autobiografie alternative. C’è poi un suo tema antico; la vita nelle famiglie ebraiche. Come vede il futuro degli ebrei americani? Assimilazione? Secolarizzazione?
Il futuro è qui: negli Stati Uniti moltissimi ebrei sono totalmente secolarizzati.
E lei?
Io non sono religioso, ma neppure particolarmente anticlericale. Negli anni ’60, un rabbino di New York disse di lei: «Chi chiuderà la bocca a quell’uomo?». È morto poco tempo fa. Si chiamava Emanuel Rackman.
Si è tenuto al corrente della sua carriera?
Beh, “quell’uomo”, che ero io, all’epoca aveva 26 anni appena compiuti. Il suo fu un attacco molto pesante. Ero furibondo.
Che idea aveva allora di se stesso in quanto ebreo?
Prima della seconda guerra mondiale ero un bambino. A quei tempi gli ebrei erano molto consapevoli di esserlo. Erano autoreferenziali, e anche violentemente discriminati. Negli anni ’30, l’antisemitismo era per certi versi autorizzato, non era proibito né tantomeno era un tabù. È stata la Seconda guerra mondiale a cambiare tutto. I college che non ammettevano studenti ebrei hanno spalancato le loro porte a quei giovani dall’intelletto straordinariamente vivace. E i giovani ebrei sapevano di dover guadagnare molto per poter uscire dai ghetti e andare a vivere nei sobborghi delle città. Ma non credo che il termine “assimilazione” sia giusto per gli ebrei americani: dà un’idea di passività, e presuppone un clima autoritario. un’imposizione. E non è il caso i degli ebrei negli Usa, che sono invece diventati americani per volontà propria, investendo molta energia un questo processo. Ormai nessun cristiano si chiede se la persona che ha davanti sia o meno di origine ebraica: e nessuno e più costretto a cambiarsi il cognome. È un fatto positivo. A meno di qualche catastrofe imprevedibile, in America l’antisemitismo è morto davvero.
Mentre non si può dire la stessa cosa dell’anti-americanismo nel resto del mondo.
In Europa c’è sempre stata una torma di anti-americanismo di bassa lega: demenziale, ignorante. Ridicolo, ma in seguito agli sviluppi di questi ultimi otto anni si è fatto strada un nuovo anti-americanismo, suscitato dal bellicismo del governo Bush, dal suo provincialismo, dalla sua ignoranza storica, dalla sua avidità, dalla sua scarsa capacita di giudizio. Roosevelt disse che la sola cosa di cui aver paura e la paura stessa. Ora Bush ha fatto della paura la base, il fondamento del suo potere; ed è da qui che nasce il nuovo anti-americanismo. Quando Barack Obama, ancora in campagna elettorale, ha tenuto il suo discorso a Berlino, sono venuti in tanti ad ascoltarlo, probabilmente perché erano felici di poter ritrovare la stima, il rispetto per l’America.
Ce la farà?
Dopo Thomas Jefferson è probabilmente il presidente più intelligente che l’America abbia ma avuto. Ma cosa potrà fare nella situazione di oggi? I problemi che gravano sulle spalle di Obama sono giganteschi.
Si direbbe che una forma particolare di anti-americanismo si sia insinuata nella giuria svedese che assegna il Premio Nobel per la letteratura. Lo scorso ottobre Horace Engdahl, potente segretario del comitato per il premio Nobel, ha dichiarato che gli autori americani sono troppo influenzati dalle tendenze della cultura di massa del loro paese, a tutto danno della qualità delle loro opere; secondo lui, oggi il centro del mondo letterario è l’Europa. Le probabilità che il Nobel vada a lei o a un altro scrittore americano come Pynchon, DeLillo, Auster, sembrano quindi ridotte a zero.
Ma no, non può aver detto questo.
Lo ha detto.
Chiunque possieda un minimo di conoscenza del mondo delle lettere non può ignorare che dal 1945 la letteratura americana ha dato prova di una forza straordinaria e durevole. Potrei citarle almeno una dozzina, anzi una quindicina di autori americani… No, non può aver detto una cosa del genere.
Un’ultima domanda: nei suoi romanzi, lei ha creato un’immagine speculare di se stesso o dei diversi aspetti della sua personalità. Ma di tutti questi personaggi nessuno era realmente felice. Lei è felice Mister Roth?
Non mi chiedo mai chi sono o cosa sono. Sono uno che scrive, che vive con i suoi libri. Il processo della scrittura non è identico a quello della ricerca di se. Assomiglia piuttosto al lavoro che si fa per costruire un oggetto, fatto di personaggi, di vicende, di parole. lo dedico tutto il mio tempo al lavoro.
Ma è felice?
Non me lo chiedo mai
Perché?
Perche non mi interessa. Mi chiedo soltanto se il mio lavoro va avanti. E scrivere un libro per me è vivere. Al mattino, appena mi sveglio, ho voglia di mettermi al lavoro. Il periodo peggiore per me è sempre l’intervallo tra due libri. In quei momenti non so come passare le mie giornate. Vado due o tre volte in qualche museo, tutto qui. Poi non so più come passare il tempo. Sono semplicemente nato per scrivere. E quando non scrivo. mi sento come una macchina con le ruote che girano a vuoto nella neve.
Copyright Die Zeit, L’Espresso
Traduzione di Elisabetta Horvat