Marco Mangiarotti
LA CANTANTE Amy Winehouse è stata trovata morta nella sua casa di Londra. Uccisa, secondo i primi accertamenti, da un’overdose, forse un cocktail di alcol e altre sostanze stupefacenti. Quando i paramedici sono arrivati «era al di la’ di ogni possibile aiuto». La notizia è corsa in tutto il mondo, e folle di fan hanno cominciato a radunarsi sotto la casa di Camden Square. Era nata il 14 settembre 1983 a Enfield, Middlesex. Aveva 27 anni, come altri talenti del rock stroncati da una fine improvvisa: Jimi Hendrix, Brian Jones, Janis Joplin, Jim Morrison e Kurt Kobain.
UN MITO chiuso come i pugni in tasca. Due album a loro modo memorabili, una manciata di premi e centinaia di articoli, foto e video che testimoniavano un disagio nudo e indifeso. Alcol e droga, si è scritto, stati maniaco-depressivi hanno sentenziato gli psicologi dei tabloid. Di certo Amy Jade Winehouse, famiglia ebraica di origini russe, papà tassista e mamma infermiera, aveva la follia totale degli artisti d’altri tempi. Quelli che corrono dritti fino alla morte. Con un distacco assoluto dal business e dalle sue stesse canzoni. Come quando disse che non riusciva a riascoltare “Frank” (Island-Universal, 2003) perché non condivideva alcune delle scelte produttive. Era il suo lavoro d’esordio, virava dal blues post moderno ma carnale di Macy Gray a Sarah Vaughan (con la pancia di Billie). Una delle cose più belle e intense di questo inizio di millennio. Rinnegava la vena gonfia di blues jazz, si strapazzava dal vivo, rispondeva a monosillabi nelle interviste, alzandosi all’improvviso. Trucco da pin up anni Cinquanta, che faceva pendant con le bad girl dei B-Movies americani tatuate sulla sua pelle, capigliatura in stile shampista di provincia di quegli anni. Mise improbabili, rotondità e magrezza mostrate come il timbro postale dei periodi di bulimia e anoressia.
LA VOCE, quella era davvero speciale, bianca e nera, viscerale e ineducata ma sempre dentro il sentimento e il senso della musica e delle parole, spesso dolorose, del suo canto. I titoli dei suoi singoli sono un rosario in nero. “You Know I’m No Good”, “Love Is a Losing Game”, “Tears Dry on Their Own”…”Rehab” è il tormentone, con una poderosa brass band dietro la schiena, che fa del suo secondo album “Back to Black” (2006) un successo mondiale e la proietta nella leggenda della cattiva ragazza di enorme e dissipato talento. Da ragazzina cantava nelle Sweet ’n’ Sopur, as Sour, la versione bianca ed ebraica, a suo dire, delle Salt-n-Pepa. Una specie di rap. A dodici anni frequenta la Sylvia Young Theatre School, ma a tredici viene espulsa perché non è una studentessa modello. Con l’aggravante del piercing al naso.
Salaam Remi produce “Frank” con influenze jazz e il suo debutto da autrice. Pioggia di Brit Awards, un milione e mezzo di copie, l’Ivor Novello Award per “Stronger Than Me”. “Rehab” è il manifesto della scelta di non disintossicarsi dall’alcol e dalla droga. Il 10 febbraio 2008 vince cinque Grammy Award per “Rehab” e “Back to Black”. da due anni si parlava del suo nuovo lavoro, il tour 2011 è stato interrotto per le condizioni dell’artista: non era in grado di stare sul palco.
QUESTO è quel che mi piace ricordare di lei. La ragazza pienotta, infelice, disturbata ma non ancora completamente distrutta dagli eccessi. Come perdere quattro taglie e poi rifarsi il seno. Psicosi e disordini alimentari, esibizioni fuori controllo negli show tv e ai premi della rivista “Q”, dove interrompe Bono degli U2. Non mente: «Mi diverto molto certe notti, ma poi esagero e rovino la serata col mio ragazzo. Sono veramente un’ubriacona». Coerente, vomita durante un concerto al londinese G-A-Y. Mostra tagli e cicatrici al braccio agli Elle Style Awards, viene arrestata in Norvegia per possesso di marijuana. Si presenta in stato confusionale agli MTV Europe Music Awards 2007, mettendo in imbarazzo Michael Stipe dei R.E.M.. Fuma crack in un video, lo scoop sospetto è di “The Sun”, entra in clinica per un enfisema polmonare. Per i 90 anni di Nelson Mandela, ad Hyde Park, ci regala un coriandolo magico di quel che avrebbe potuto essere. Un’autrice e interprete amata per la sua musica, per testi che vengono proposti negli esami di Cambridge, correlati ai poemi di Sir Walter Raleigh. Ma quando il mito distruttivo è più forte dell’arte, a differenza di Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison (Billie Holiday, Charlie Parker, Chet Baker), vuol dire che hai buttato la tua vita e un grande dono. Preferisco ricordarla nell’irriverente ma vitale “Fuck Me Pumps”. Sorridente. Ironica, come quando diceva delle sue donne nude tatuate: «Mi sento più uomo che donna. Però non sono lesbica. Non prima di una sambuca comunque».
http://qn.quotidiano.net/primo_piano/2011/07/24/549731-winehouse_unamorte_maledetta.shtml