Il rabbinato in Italia fra il 700 e l’800 e la reazione della Halakhà verso la vita moderna
1. Il capovolgimento socio-culturale di fine 700 e le sue conseguenze
Nel secolo che va dalla metà del ‘700 fino alla metà dell’800, sia nel mondo occidentale come più in particolare in quello ebraico, si susseguirono eventi enormi che capovolsero completamente il sistema di vita ed il modo di pensare delle persone. Le nuove idee diffuse dalla rivoluzione francese e le conquiste napoleoniche, che proclamavano l’uguaglianza ed eguali diritti fra tutti i cittadini, accelerarono lo sviluppo di un nuovo atteggiamento della società europea verso gli ebrei, che portò all’emancipazione e quindi alla liberazione dai ghetti[1]. L’ebreo, che prima faceva parte di una “Nazione” separata sia fisicamente che culturalmente dalla società cristiana, divenne in seguito un cittadino di religione mosaica. Le barriere, sia materiali che culturali, che separavano fra gli ebrei ed i gentili caddero, per questi si aprirono nuove prospettive e nuove aspirazioni, e all’ebreo venne offerto di partecipare alla vita della società civile anche se in cambio dell’abbandono della vita tradizionale[2].
Iniziò allora il processo di sgretolamento di quella che è stata poi definita da Jacob Katz, come la “società tradizionale”[3]. La comunità ebraica che fino a quel momento era un centro di coesione, a cui il singolo ebreo era associato obbligatoriamente, perse la sua forza attrattiva ed anche il potere di imposizione che aveva avuto precedentemente. E la Halakhà, che era stata fino ad allora il sistema giuridico e la cornice di vita accettata dagli ebrei, perse anche lei il suo potere vincolante.
Come conseguenza di questo fenomeno, vale a dire lo sgretolamento del veccho sistema e la nascita di quello nuovo, tutto il sistema su cui era basata la vita pubblica e privata degli ebrei, si trovò di fronte ad una crisi, e nell’ambito della società ebraica nacque uno scontro. Uno scontro assai acceso, sia ideologico e sociale che culturale e religioso, fra due concezioni che in questa sede definiremo brevemente appunto come la concezione tradizionale e quella moderna. Queste due concezioni comprendevano naturalmente diversi aspetti che in una maniera o nell’altra si vennero a scontrare. Come fra la mistica ed il razionalismo, tra la fede istituzionalizzata e l’anticlericalismo, fra l’osservanza delle mizvot e la laicità, tra l’elusione di contatti con non-ebrei e l’inserimento sociale, fra l’etnocentrismo ed il cosmopolitismo[4].
2. La figura dell’ebreo moderno
Come conseguenza di questo conflitto si crearono nell’ambito del mondo ebraico, tutta una serie di reazioni, che andarono dal totale rigetto di tutto ciò che è nuovo, fino alla totale accettazione del nuovo e abbandono della tradizione. In questo contesto si vennero a formare quelle figure di ebreo moderno che noi conosciamo oggi. Prima di tutto i due modelli contrapposti, cioè quello del haredì (ultraortodosso)[5], che rifiuta ciò che è moderno, e poi quello del hillonì, il non-osservante, che abbraccia la modernità rigettando la tradizione, e poi, il hassid est-europeo e l’ebreo razionale piuttosto assimilato. Infatti sia la haridiut (corrente ultraortodossa) sia la hilloniut (corrente della non-osservanza) non sono che le due reazioni opposte allo stesso fenomeno, lo scontro appunto fra il sistema di vita tradizionale e quello moderno. Da questi capovolgimenti e dalla nascita del cosiddetto ebreo “moderno”, si vennero a formare diversi fenomeni le cui conseguenze sono risentite ancora adesso. Come ad esempio: a) il lassismo nell’osservanza rituale; b) l’indifferenza religiosa; c) la diminuzione delle conoscienze nel campo ebraico tradizionale; d) la valutazione positiva degli studi secolari; e) la preferenza per la lingua locale[6].
E` ovvio quindi, che per comprendere questo genere di conflitti socio-culturali, del tutto attuali oggi, sia necessario analizzare le loro origini e le loro radici.
3. Il problema delle fonti
Tuttavia, quando ci si accinge ad analizzare la questione dell’atteggiamento tenuto dai rappresentanti in Italia del diritto tradizionale ebraico (la Halakhà) verso l’apparente conflitto fra tradizione e modernità, immediatamente emerge un problema: quello delle fonti. Infatti, non solo anche in Italia si ebbero delle reazioni a quei dibattiti, ma forse furono proprio queste le più interessanti ed originali. Vale a dire che la maggior parte dei testi halakhici prodotti in Italia nel periodo sono rimasti manoscritti e mai pubblicati. Così ad esempio i volumi di responsa composti dal rabbino Graziadio Neppi di Ferrara, membro del Sinedrio di Parigi, o il diario personale del rabbino livornese Sabato Morais[7]. Difatti, sono poche le figure del periodo i cui scritti sono stati pubblicati, i più importanti e conosciuti sono quelli di Rabbì Ishmael HaCoen di Modena, chiamato anche Laudadio Sacerdoti (1723-1811), e Rabbì Moshè Israel Hazan di Roma ma nativo di Izmir (1808-1863).
4. Le reazioni al conflitto fra il vecchio e il nuovo
Il sistema halakhico si trovò dunque di fronte ad una crisi, dovendosi confrontare appunto con una concezione di vita del tutto nuova. Come reagirono allora a questi fenomeni proprio gli esponenti dell’Halakhà? Avrebbero potuto irrigidirsi sostenendo che questo nuovo modo di comportamento era proibito[8]. Oppure avrebbero potuto cercare espedienti per far conciliare le due tendenze. E` famosa la reazione attribuita al Hatam Sofer (il rabbino Moshè Schreiber di Bratislava), secondo cui “tutto ciò che è nuovo è proibito dalla Torà”[9]. Un’altra reazione estrema, come risposta all’uso dei Riformati di pregare o anche andare a testa scoperta, fu l’uso di due copricapi contemporaneamente, kippà e cappello[10]. Nel mezzo ci furono diversi tentativi di confrontarsi positivamente con i problemi che emersero, e fin’anche tentativi di conciliare le due diverse maniere di vita. Uno fra i tentativi più famosi fu la corrente della neo-ortodossia guidata dal rabbino di Francoforte Shimshon Refael Hirsch[11].
È chiaro che a seconda di quale strada avessero preso a questo bivio la leadership comunitaria, ne sarebbe poi dipeso il destino della comunità, cioè in pratica se la comunità ebraica sarebbe rimasta unita oppure avrebbe subito una spaccatura[12]. Infatti, questa conflittualità portò in diversi paesi europei, proprio ad una spaccatura della società ebraica, ad esempio in Germania e Ungheria, ed alla formazione di correnti diverse. In Italia invece, nonostante vi siano state aspri discussioni, non si è mai arrivati ad una spaccatura della comunità[13]. E forse proprio in questo frangente si è rivelata la grandezza dei rabbini italiani.
Il pericolo di scissione della comunità era quindi ben apparente a chiunque fosse conscio della situazione. Ma non solo, perchè come sottolineava argutamente il rabbino Hazan, se le guide delle comunità non fossero state in grado di destreggiarsi, allora il rischio sarebbe stato la perdita della fede. In questa maniera descrive Moshè Israel Hazan la situazione, sostenendo come il fanatismo sia il male d’Europa, poiché condurrebbe ad una ottusità spirituale, all’ipocrisia e quindi all’eresia: “In Europa vi sono quattro opinioni diffuse fra i figli di Israele, che portano a tradire il Signore e la Sua Torà, tant’è che siamo giunti fino al gradino più ignobile durante questa nostra generazione. E queste sono: il fanatismo, l’ipocrisia, l’indifferenza religiosa e l’eresia, e queste ci bruciano il cuore, e per causa loro ci troviamo nel pericolo di far allontanare subito dalla religione ogni credente di ogni nazione e linguaggio”[14].
5. I diversi dibattiti che si svilupparono in Italia
Anche in Italia, come nel resto d’Europa, si accesero diversi dibattiti riguardo alcune possibilità di innovazioni religiose. Tuttavia, la leadership rabbinica italiana fu evidentemente abbastanza accorta: in alcuni casi elastica ed in altri intransigente. Infatti da un lato, ci furono proposte che non vennero accettate, come l’accorciamento dei 7 giorni di lutto, o l’abolizione del secondo giorno di festa imposto nella Diaspora, il cosiddetto Yom Tov shenì dei Galuyot[15]. D’altro lato, diversi aspetti che proprio in altri luoghi furono causa di scontri e di spaccature, in Italia invece vennero introdotti senza nemmeno troppe polemiche.
Diverse questioni concernenti la vita moderna, emersero già alla fine del 700, e molte di queste furono trattate dai rabbini italiani. Ad esempio, al rabbino Ishmael Ha-Coen nel 1798 venne rivolto dagli ebrei di Mantova un quesito riguardo alla loro partecipazione di sabato a manifestazioni pubbliche che venivano adesso imposte loro come cittadini, e se fosse permesso ad alcuni ebrei eletti nei consigli cittadini viaggiare di sabato in una carrozza guidata da un non ebreo[16], e quindi se fosse possibile sempre durante il sabato portare armi e fucili che sparano[17]. Ma le questioni riguardavano anche i nuovi rapporti instaurati con i vicini non ebrei, perché in un altro quesito gli venne chiesto se fosse permesso bere il caffè nel bar di proprietà di un non-ebreo, in quanto questo sarebbe stato contrario alla regola di non consumare cibi preparati dai goyym[18]. Mentre il rabbino Hazan, che si trovava a Roma proprio durante i moti del 1848, si interessò invece di questioni riguardanti il sistema politico da preferire, e quale fosse il senso ebraico della democrazia[19].
Una delle questioni più famose discusse in quel periodo, riguardava l’ammissione o meno della musica e dell’organo nella liturgia sinagogale, e non dimentichiamo che proprio in Germania una delle cause di scissione delle comunità fu proprio l’uso dell’organo durante la Tefillà. Senonché in Italia l’uso della musica e di strumenti era già diffuso fin dai tempi del tardo Rinascimento, quando il compositore Salomone Rossi componeva a Mantova musiche polifoniche per i salmi e per i brani della preghiera[20]. E non per niente, il pesaq (sentenza halakhica) di approvazione dei Canti di Salomone Rossi venne composto dal famoso rabbino di Venezia Leon da Modena[21]. Anzi i rabbini italiani, molto prima della Riforma, sostenevano che il pregare in musica fa diventare la Tefillà più bella. Difatti, gia` il rabbino Avraham Yosef Shelomò Graziani di Modena (Ish Gher), contemporaneo di Izhak Lampronti, nella prima metà del ‘700, trattò il tema dell’organo[22]. Di conseguenza quando nell’800 emerse di nuovo questa questione, l’introduzione dell’organo nel Bet ha-Keneseth trovò un terreno già preparato. R. Shem Tov Samun di Livorno, ancora alla fine del 700, sosteneva invece che suonare l’organo al Tempio era permesso, in quanto il lutto per la distruzione del Tempio di Gerusalemme riguardava soltanto i casi di “kallut rosh”, cioè di insensatezza o di scherzo, e non invece la musica collegata al compimento di una mizvà[23]. Altri invece, come Yaakov Recanati di Verona, Shelomò Yona di Modena, Moshè Israel Hazan di Roma, permisero l’uso dell’organo soltanto nei giorni feriali, mentre di sabato o Moed soltanto se suonato da un non ebreo, ed in ogni caso non si espressero contro l’introduzione della musica e dell’organo[24].
6. L’educazione e la cultura
Un altro quesito che emerse in quei giorni riguardava l’atteggiamento verso gli studi laici. Tema anche questo che in alcuni paesi era già diventato proprio il pomo della discordia. Ma d’altro canto gli studi laici, in una misura o nell’altra, erano sempre stati ammessi e studiati nei Talmudè Torà e nelle altre istituzioni scolastiche ebraiche in Italia. Inoltre, non dimentichiamo che proprio a Mantova già nel ‘500, i rabbini Provenzalo proposero di fondare una università dove si studiasse materie ebraiche contemporaneamente alle materie scientifiche[25]. Quindi quando si accese di nuovo il dibattito, in Italia gli studi laici furono invece ammessi nei curricula scolastici senza troppi scossoni.
Uno dei primi a trattare la questione dell’introduzione delle materie laiche nei programmi di studio, fu ancora Rabbì Ishmael haCoen, il rabbino di Modena Laudadio Sacerdoti, nei suoi Responsa “Zer’a Emet“[26]. Rabbi Ishamel controbattè le famose proposte del Wessely sostenendo che non era possibile anticipare le materie laiche a quelle ebraiche. Soltanto parallelamente allo studio del Talmud, quindi in una fase successiva dopo cioè aver studiato la Bibbia e la tradizione orale riportata nella Mishnà, sarebbe stato possibile a suo avviso apprendere la geografia e le lingue. Non escludendo per nulla quindi le materie laiche, ma anzi polemizzando contemporaneamente con chi si impegnava esclusivamente nello studio della Ghemarà (metodo ashkenazita), sostenendo che lo studio del Talmud è adatto solo per gli adulti. Tuttavia, sosteneva il rabbino Sacerdoti, l’apprendimento della lingua locale è necessario per il sostentamento, come fosse un mestiere.
Anche Moshè Hazan, mezzo secolo più tardi, trattò la questione dell’introduzione delle materie laiche, ed anche lui prese una posizione positiva verso questi studi, stabilendo che fosse appunto necessario studiare la lingua del paese[27]. Ma in un suo scritto composto proprio per controbattere il movimento riformista, pubblicato in seguito a Londra nel 1845, scrisse poi che non solo è necessario conoscere la lingua del paese ma anche le loro usanze e la loro politica[28].
7. Il dibattito sull’uso della lingua locale
Difatti un particolare aspetto della questione sviluppatasi intorno all’atteggiamento da tenere verso la cultura non ebraica, riguardava l’opportunità o meno dell’apprendimento della lingua locale, e poi gli scopi di questo studio, e gli usi che era possibile farne. La problematica più accesa riguardava l’uso o meno della lingua locale sia nelle derashot (sermoni), sia soprattutto nelle Tefillot (le preghiere). Ed ecco che per quanto riguarda le Tefillot l’uso dell’italiano non venne per niente accolto[29]. Invece per quanto riguarda le derashot, così come si è visto anche per la musica, l’uso dell’italiano era diffuso già da tempo. Era ancora Leon da Modena che già nella prima metà del ‘600 raccontava di come il pubblico veneziano non ebraico venisse ad ascoltare i suoi sermoni, detti quindi in italiano[30].
Comunque, va qui notato lo sviluppo, fors’anche temporale, avvenuto anche in Italia di questo atteggiamento dei rappresentanti ufficiali del sistema giuridico tradizionale ebraico nei riguardi della lingua locale e degli studi laici più in generale. All’inizio, questo atteggiamento era puramente utilitaristico e funzionale, ed in questa direzione si espresse ad esempio il rabbino Ishmael haCoen[31], vale a dire la conoscenza dell’italiano è necessaria per poter lavorare a contatto della società non ebraica. In una fase successiva, la conoscenza della lingua prende l’aspetto dell’educazione alle buone maniere, vale a dire che la conoscenza della lingua locale è segno di buon comportamento “civile” e di buone maniere, la cosiddetta “derekh eretz“. In questa direzione si espressero ad esempio i rabbini di Venezia, Simhà Calimani, Avraham Cracovia e Avraham Pacifico, nella loro risposta alle proposte del Wessely, ed in seguito anche il rabbino livornese Avraham Baruch Piperno nel suo “Kol ‘Uggav” [32].
Nella fase successiva del dibattito si giunse invece ad elaborare perfino un aspetto ideologico. Cioè: se anche ammettiamo di inserire gli studi laici nel curriculum di studi, per quale motivo? Soltanto per uno scopo funzionale e poter lavorare e sopravvivere a contatto con la società circostante, come si diceva inizialmente, oppure perché la conoscienza della cultura generale è ormai diventato un ideale (ebraico)? Su questa nuova concezione era basato fra l’altro il motto della neo-ortodossia tedesca “Torà ‘im derekh eretz”, cioè la Torà insieme alla buona educazione vista come cultura generale, che poneva come ideale l’abbinamento armonioso dell’ebreo con l’ “uomo”, e quindi la realizzazione del cosiddetto “Mensch-Jssroel“[33].
Questo sviluppo si rifletteva nel programma di formazione dei rabbini italiani. Da un lato, quando nel 1829 verrà fondato a Padova l’Istituto Convitto Rabbinico, nel suo curriculum si richiederà prima di tutto la padronanza della lingua tedesca ed il conseguimento di un titolo di studio universitario, se non altro allo scopo di “procacciarsi la sussistenza fino a che saranno impiegati come rabbini, o per assicurarsi anche allora una miglior sussistenza con accessori proventi”[34]. Ma dall’altro lato questi studi, diventavano conditio-sine-qua-non per poter ottenere titoli di studio rabbinici, tanto che a Livorno gli studi liceali “civili” saranno interni al Collegio rabbinico stesso, e a Firenze invce la laurea sarà richiesta “per regola”[35]. L’ ideale da raggiungere per l’ebreo studioso era diventato il Doktor-Rabbiner, sia rabbino sia dottore. Ma quale doveva essere allora la figura del rabbino? Un talmudista che si occupa esclusivamente di Halakhà, oppure un letterato colto? La conseguenza fu che la maggior parte dei rabbini italiani da quel periodo in poi, non si occuperanno più tanto di interpretare il Talmud e la Halakhà, quanto piuttosto di materie letterarie, di storia e di filologia. La produzione culturale di queste figure non comprenderà trattative halakhiche, bensì trattati di Bibbia e di archeologia.
Conclusione
Sono stati qui analizzati soltanto alcuni aspetti degli atteggiamenti tenuti da esponenti dell’Halakhà in Italia riguardo a questioni legate al sistema di vita moderno. Come si è detto, non è possibile tracciare un quadro completo della reazione della leadership ebraica italiana allo scontro in atto fra tradizione e modernità, perché le fonti sono limitate. Tuttavia, ciò che emerge anche se solo parzialmente appare abbastanza rappresentativo della tendenza maggiormente diffusa in Italia, basata abbastanza apparentemente su due principi: da una parte una recezione selettiva della modernità all’interno del contesto halakhico[36], e d’altra parte sulla centralità del principio del “kelal Israel“, vale a dire la necessità di prendere in considerazione le necessità di tutta la collettività del popolo di Israele, da cui deriva l’imposizione di mantenere unita la comunità.
[1] La letteratura sugli ebrei all’epoca dell’emancipazione e sul loro conseguente allontanamento dalla tradizione ebraica è ovviamente assai vasta. Per un quadro generale cf. A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino 1963, pp. 338-419; per il punto della questione oggi e per un’ampia bibliografia cf. G. Luzzatto Voghera, Il prezzo dell’eguaglianza, Milano 1996, pp. 113-185.
[2] Sul fenomeno dell’allontanamento dalla vita tradizionale ebraica e le sue successive conseguenze, vedi: A. Y. Lattes, Sull’assimilazione in Italia ed i metodi per affrontarla, Ramat Gan 2005.
[3] J. Katz, Massoret u-mashber (Tradizione e crisi), in ebr., Jerusalem 1986, p. 11
[4] Dell’esistenza di questo conflitto ne era assai conscio Moshè Israel Hazan che funse da rabbino di Roma fra il 1847 ed il 1852. Vedi il suo volume di responsa Kerach shel Romi (La città di Roma), responso n. 8, p. 14b. Su questa importante figura vedi fra l’altro: J. Faur, Rabbi Ysrael Moshe Hazzan: the man and his works, in ebraico, Jerusalem 1978; D. G. Di Segni, “Innovazioni nel culto religioso ebraico a Roma nella seconda metà dell’800”, Zakhor, VIII (2005), p. 43-75; R. Bonfil, “Il memoriale dell’Università israelitica di Roma sopra il soggiorno romano di Rabbi Israel Moshe Hazan”, in Annuario di studi ebraici, 10 (1980), p. 29-64.
[5] Vedi appunto l’atteggiamento del rabbino Hazan verso i colleghi del suo tempo: “Ed ecco noi vediamo i rabbini di questa generazione, che da un lato fanno di tutto per osservare tutto ciò che è scritto nella Ghemarà e nei glossatori, sia una cosa piccola che una grande, ed il loro scopo è che non venga annullato niente di quello che hanno detto, neanche una virgola. E d’altro lato, la popolazione si trova sull’opposto, rigettano ogni obbligo del culto del Signore, tant’è che fra un pò non rimarrà niente di Israele”, in Kerach shel Romi (La città di Roma), cit., responso n 8, p. 15a
[6] Di questi fenomeni ne discusse ampiamente il rabbino Moshè Israel Hazan. Vedi il suo Kuntras Kedushat Yom Tov (Fascicolo sulla santità della festa), Vienna 1855, 29a. Cfr. poi Faur, Rabbi Ysrael Moshe Hazzan, cit., p. 62-82; Lattes, Sull’assimilazione in Italia, cit., p. 26-33
[7] Il rabbino Graziadio Hananel Neppi lasciò diversi volumi di responsa denominati “Levyyat Hen”, che si trovano attualmente sparsi un pò per il mondo, di cui uno alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme (Ms. Heb. 8°3017), altri a Londra (Valmadonna Trust 43, 158, 206, 208, 209). Il diario del rabbino Morais invece è conservato a Philadelphia negli Stati Uniti, ed anche se non è mai stato pubblicato una riproduzione del manoscritto è perfino leggibile in internet al sito: http://sceti.library.upenn.edu/morais/
[8] Vedi la descrizione di questo tipo di reazione fattane dal rabbino Hazan, supra alla nota n. 4; ed anche Faur, Rabbi Ysrael Moshe Hazzan, cit., p. 62-80.
[9] Sull’atteggiamento dell’ebraismo dell’Europa centro-orientale verso i dibattiti sulla riforma esiste un’ampia bibliografia. Vedi il sunto in Michael A. Meyer, Response to Modernity. A History of the Reform Movement in Judaism, in ebraico, Jerusalem 1989, p. 169-209
[10] Cfr. E. Zimmer, ‘Olam ke-minhagò noheg (Society and Its Customs), Jerusalem 1996, p. 32. Vedi anche l’atteggiamento del rabbino di Modena nella metà dell’800 Shelomò Jona, nativo però di Ivrea, quando sosteneva a riguardo dell’introduzione dell’organo nelle sinagoghe: “In questa generazione sono aumentate le breccie, e allora i tementi del Signore hanno paura della Riforma, e quando non capiscono il motivo di qualche cosa, dicono: ecco questa è una cosa nuova, è stata appresa dalle usanze straniere, e quindi la disprezzano”. Il testo di questa risposta rituale fu stampata su foglio singolo ed è riportato da M. Benayahu, “Daat Hakhmè Italia ‘al ha-neghinà be-‘uggav ba-tefillà” (L’opinione dei rabbini italiani sul suono dell’organo durante la liturgia), Asufot, 1 (1987), p. 311.
[11]Riguardo la figura del rabbino Hirsch vedi Meyer, Response to Modernity, cit., p. 97-105 e la bibliografia riportata nelle note.
[12] E` ovvio, nonostante la sua importanza, che l’aspetto giuridico-halakhico non fu l’unico elemento esclusivo che contribuì a questi sviluppi, ed il quadro che viene qui descritto è alquanto semplificato .
[13] Sui dibattiti riguardo le possibilità di riforma in Italia, vedi: D. Malkiel, “Yetzirà we-sughyyà be-sifrut ha-Halakhà be-Italia ba-‘et ha-hadashà” (La produzione ed i caratteri della letteratura rabbinica in Italia nel periodo moderno), Peamim, 86-87 (2001), pp. 258-296; M. E. Artom, “‘Al tenu’at ha-reforma be-Italia” (Riguardo il movimento di riforma in Italia), Scritti in memoria di Sally Mayer, Gerusalemme 1956, p. 110-114; M. E. Artom, “Tentativi di riforma in Italia e analisi del fenomeno nel presente”, Rassegna Mensile di Israel, 42 (1976), p. 355-366; R. Bonfil, “Mutamenti nelle usanze religiose degli ebrei di Roma durante il ministero del rabbino Israel Moshè Hazan (1847-1852)”, in Scritti in memoria di Enzo Sereni – Saggi sull’ebraismo italiano, a cura di D. Carpi, A. Milano. U. Nahon, Milano-Gerusalemme 1970, (in ebraico), pp. 228-251; M. Benayahu, “Daat Hakhmè Italia ‘al ha-neghinà be-‘uggav ba-tefillà” (L’opinione dei rabbini italiani sul suono dell’organo durante la liturgia), Asufot, 1 (1987), p. 265-318; M. Benayahu, Yom tov shenì shel Galuyyot (Il secondo giorno festivo della Diaspora),Gerusalemme 1987, p. 40-41; Di Segni, “Innovazioni nel culto religioso ebraico a Roma nella seconda metà dell’800”, cit., p. 43-75; G. Luzzatto Voghera, “Cenni storici per una ricostruzione del dibattito sulla riforma religiosa nell’Italia ebraica”, Rassegna Mensile di Israel, 60 (1993), p. 47-70; S. Simonsohn, “Some reactions of Italian Jewry to the First Emancipation and the Enlightenment”, Italia Judaica, 3 (1989), in ebraico, p. 47-68.
[14] Kuntras Kedushat Yom Tov (Fascicolo sulla santità della festa), cit., 29a; vedi anche Faur, Rabbi Ysrael Moshe Hazzan, cit., p. 78
[15] Cfr Malkiel, “Yetzira we-sughyyà”, cit. p. 280-285; Benayahu, Yom tov shenì shel Galuyyot, cit. P. 55-60; Artom, “‘Al tenu’at ha-reforma be-Italia”, cit., p. 110-114; Luzzatto Voghera, “Cenni storici sulla riforma”, cit., p. 62. Riguardo queste questioni sviluppatesi in Germania, cfr. Meyer, Response to Modernity, cit., p. 164
[16] Responsa Zer’a Emet, terza parte, Reggio 1823, n. 33. Vedi anche Simonsohn, “Some reactions”, cit., p.55-56
[17] Responsa Zer’a Emet, terza parte, ivi, n. 32. Cfr. anche Simonsohn, ibidem.
[18] Responsa Zer’a Emet, prima parte, Livorno 1786, responso n. 41. Cfr. Anche Malkiel, “Yetzira we-sughyyà”, cit., p. 264
[19] Kerach shel Romi (La città di Roma), responso n. 26, p. 116a; vedi anche Faur, Rabbi Ysrael Moshe Hazzan, cit., p. 83 ss.
[20] Vedi per tutte: S. Simonsohn, Toledoth ha-yehudim be-dukhassut Mantova (Storia degli ebrei nel ducato di Mantova), Jerusalem 1964, vol. 2, p. 490-494
[21] Vedi la sua raccolta di responsa, Sheelot u-teshuvot Ziknè Yehudà, a cura di S. Simonsohn, Jerusalem 1957, responso n. 6, p. 15-20
[22] Cfr. Benayahu, “Daat Hakhmè Italia”, cit,, p. 269
[23] Citato dal Benayahu, ” Daat Hakhmè Italia ‘al ha-neghinà”, p. 276, e più in generale alle pagg. 265-318 dove riporta le opinioni di diversi rabbini italiani fra cui Avraham Shelomò Graziani di Modena e Sabato Morais di Livorno. Cfr. inoltre: Malkiel, “Yetzira we-sughyyà”; p. 272-275; Di Segni, “Innovazioni nel culto religioso”, cit., p. 54.
[24] Il rabbino Recanati di Verona sosteneva che il suono dell’organo fosse permesso durante i giorni feriali, mentre di Shabbat e Moed soltanto da parte di un non ebreo; cfr. Benayahu,”Daat hakhmè Italia”, p. 278-280. Per quanto concerne invece l’atteggiamento tenuto dal rabbino Moshè Israel Hazan vedi nei suoi responsa Kerach shel Romi, in particolare il responso n. 1, p. 2a, ed il responso n. 8, p. 18b.
[25] Il testo del manifesto dei Provenzalo di Mantova è riportato in S. Asaf, Mekorot le-toledoth ha-khinnukh be-Israel (Fonti per la storia dell’educazione in Israele), vol.2, Tel Aviv 1931, p. 115-119
[26] Responsa Zer’a Emet, seconda parte, Livorno 1796, responso n. 107. Il testo in questione è riportato anche da Simha Asaf nel suo Mekorot le-toledoth ha-khinnukh be-Israel, cit., p. 219-221. Vedi anche Simonsohn, “Some reactions”, cit., p. 48, e poi p. 67
[27] Confronta quanto scrive Hazan nel suo Kuntras Kedushat Yom Tov, cit., p. 28b
[28] Moshè Israel Hazan, Divrè shalom ve-emet (Parole di pace e di verità), Londra 1845, p. 5; Faur, Rabbi Ysrael Moshe Hazzan, cit., p. 90-94.
[29] Cfr. Artom, “Tentativi di riforma”, cit., p. 359
[30] Nella sua autobiografia Leon da Modena racconta appunto che sia i frati ed i preti che diversi nobili venivano ad ascoltare i suoi discorsi. Cfr. Yehudà Ariè mi-Modena, Chayyè Yehuda, edited by D. Carpi (in ebraico), Tel Aviv 1985, p. 50
[31] Vedi la citazione già riportata alla nota 26.
[32] Il testo composto dai rabbini veneziani è riportato da Asaf, Mekorot le-toledoth ha-khinnukh be-Israel, cit., p. 216-218. Il rabbino Piperno di Livorno scriveva nel 1846, che al fine di dimostrare la verità della Torà ai non ebrei è necessario comportarsi secondo le usanze della società (Asaf, op. cit., p. 236)
[33] Meyer, Response to Modernity, cit., p. 98-99
[34] Citato in R. Di Segni, “I programmi di studio della scuola rabbinica italiana”, in Studi in memoria di Rav Alfredo Ravenna (a cura di A. Y. Lattes), Rassegna Mensile di Israel, LXV (1999), p. 22- 23
[35] Di Segni, ibidem
[36] Sul fenomeno della ricezione culturale in maniera selettiva da parte degli ebrei, al fine di poter mantenere una propria identità distinta, e sugli sviluppi cronologici di questo fenomeno, vedi K. Stow, Theater of Acculturation.The Roman Ghetto in the 16th Century, Northampton, Mass., 2001; ed alla sua recensione: A. Y. Lattes, “K. Stow, Theater of Acculturation”, Zakhor, VIII (2005), p. 232-235