L’aspro scambio di lettere fra Shadal e Benamozegh sul significato del suono dello shofar. Dalla derashà tenuta il 1° giorno di Rosh Hashana all’Oratorio Di Castro di via Balbo, Roma
A Rosh Hashana in genere si fa il consuntivo dell’anno appena trascorso. Una delle caratteristiche di quest’anno è stata il dibattito che ha animato la comunità ebraica italiana riguardo al ruolo dei rabbini, con accese discussioni sui rabbini e fra i rabbini stessi. Ricordiamone qualcuna: la visita del papa alla sinagoga di Roma, con rabbini che hanno partecipato e altri che si sono astenuti dal farlo; la vicenda delle ciambellette nella comunità di Roma, che è finita addirittura sulle pagine della stampa nazionale; la revoca del rabbino capo di Torino; lo stato della kashrut a Roma. (La lista non è affatto esaustiva). Qualcuno si stupisce delle discussioni fra i rabbini. In realtà, non si capisce perché le divergenze di opinioni fra il presidente (a livello locale o nazionale) e il capo dell’opposizione siano viste come normali e, anzi, ci si meraviglierebbe se non fosse così, mentre quando i rabbini discutono fra di loro ciò è visto come qualcosa di inusuale. Invece, è proprio vero il contrario: fra i rabbini ci sono sempre state diverse opinioni.
Senza risalire troppo in là nel passato, limitiamoci all’Ottocento. In quel secolo, solo due rabbini italiani sono tuttora conosciuti a livello internazionale: Shadal (Shemuel David Luzzatto; Trieste 1800 – Padova 1865) ed Elia Benamozegh (Livorno 1823-1900). Su di loro si organizzano convegni, si scrivono articoli e libri, si fanno tesi di laurea. I loro lavori sono pubblicati o ripubblicati e sono tradotti in diverse lingue. Ebbene, questi due grandi rabbini se ne dicevano di tutti i colori l’uno all’altro.
Uno dei maggiori punti in discussione fra Shadal e Benamozegh era il valore da attribuire alla Kabbalà: Benamozegh ne era un appassionato sostenitore, Shadal d’altro canto vedeva in essa solo “vaneggiamenti metafisici… [e] i nostri Maestri ne conobbero la futilità e le ree conseguenze”. Connessa con la polemica sulla Kabbalà era quella sul valore da attribuire al cristianesimo e ai rapporti interreligiosi (suona familiare? – gds). Guardate cosa scrisse Shadal a Benamozegh sui cabbalisti l’8.9.1863: “… i nuovi Cabbalisti, novelli gesucristi, tendono ad abbattere la Sinagoga…”. E in una lettera del mese precedente Shadal così scriveva a Benamozegh: “Recentemente ho veduto il Suo opuscolo sui Missionarii, e v’osservai una pagina, scagliata contro di me senz’alcun bisogno, e con insinuazioni calunniose, quasi io mi fossi un ipocrita. Qui io avrei dovuto rispondere. Ma Dio mi fe’ forte, e dissi, e scrissi in lettera confidenziale: Penso lasciarlo ragliare – non mai pensando che queste mie parole potessero venire usate quali armi contro di Lei”. (Suona familiare questa diffusione impropria di messaggi confidenziali? – gds). Shadal proseguiva: “Né mai ho pensato d’attribuire a Lei la natura del quadrupede ragghiante, animale da me sempre più stimato di quanto comunemente si suole… Ad ogni modo, Ella non ha bisogno ch’io Le dichiari ch’Ella non fu mai un miccio agli occhi miei, ma che usato ho il verbo ragliare per similitudine… E, ciò facendo, non fu Ella l’offeso, ma lo fu il povero miccio. Perocché i ragli asinini sono sempre sinceri… Al contrario le parole, da Lei pubblicate contro di me nel suaccennato opuscolo, esprimono falsità e calunnie…”.
Rav Benamozegh rispose immediatamente a Shadal, il 12 settembre 1863, con una lunga lettera (pubblicata anche in “Scritti scelti”, Rassegna Mensile d’Israel, 1955, pp. 262-272) in cui usava espressioni meno pungenti, forse anche per la notevole differenza di età (era di 23 anni più giovane). Sull’asino replicò: “Io credo che possiamo ancora intenderci, che ci possiamo far delle reciproche concessioni, ed il giorno in cui uniti insieme ci presenteremo al mondo… mi parrà di sentire in lontananza un raglio diverso da quello che ella udì nel mio opuscolo; il raglio del miccio di Mélech à Masciach [il Re Messia]”. Sulla Kabbalà, Benamozegh cita a Shadal gli antici cabbalisti, come R. Hai Gaon, Ra’avad, Ramban [Nachmanide], Rashbà, Cordovero, R. Yosef Caro, Abrabanel e altri, e infine gli chiede: “Dirà che anche questi sono Misticisti e Gesucristi? Padrone di dirlo e di pensarlo. Per me tengo i nominati, non le dispiaccia, più autorevoli maestri di ciò che sia Mosaismo, che non altri per quanto dottrina e fama si abbiano al mondo”. In altre parole, fra il Nachmanide e Shadal, Benamozegh non ha dubbi su chi preferire.
Un aspetto su cui Benamozegh e Shadal dibatterono in questo scambio di lettere, inviate in prossimità di Rosh Hashanà, fu il significato da attribuire alla mitzwà del suono dello shofar, che si presta in effetti a diverse interpretazioni, visto che la Torah non dice molto a suo riguardo. Così scrisse Rav Benamozegh a Shadal alla fine della succitata lettera: “Domani ella udrà il Sciofar ed io lo udirò. A lei cosa dirà quel suono? Il suo Mosaismo materiale che cosa le dirà? Certo nient’altro che una di quelle mille graziose ma puerili ragioni che ne furono date fuori della Cabbalà; e per sentirlo con devozione, per dare importanza a tekià, scebarim, teruà [i diversi suoni dello shofar], le ci vorrà uno sforzo di fede non ordinario. Per me, lei lo sa, la cosa è diversa. Ogni nota ha la sua importanza, come ogni atomo della materia è un mistero – come ogni corpo ha il suo posto e il suo valore nella creazione. Per me la Torà è il tipo del mondo, è il mondo nella mente di Dio, è il verbo incarnato [sic! – gds] nelle Mizvot ammasiyoth [mitzwòt pratiche]. E quando udirò dimani il Sciofar dirò anch’io: viva S. D. L. molti e molti anni felici, Dio gli risparmi altri dolori perché la sua mente si conservi serena e forte nella cultura delle lettere sacre ed affinché se un giorno vorrà essere gesucristo anche lui come R. Akiba e Aramban, egli possa rivolgere la sua scienza potente al trionfo del Vero…”.
Shadal rispondeva il 18.9.1863. Dopo un appunto un po’ sprezzante su un errore di sintassi commesso da Benamozegh, “uno di quegli sbagli, in cui facilmente incappa chiunque non ha studiato la lingua latina”, scriveva: “Le dirò che i trilli del Sciofar furono (a mio credere) da Dio comandati per porre a pubblica notizia (quando non si stampavano calendari) il principio dell’anno; nella stessa guisa che nel decimo giorno dell’anno si portava ad universale conoscenza, col medesimo Sciofar, l’arrivo dell’anno del Giubileo. Se in oggi tali sonate hanno perduto il loro scopo, conservano sempre, come tante cerimonie, l’immenso valore di ricordarci l’antica nostra esistenza politica, e ravvivano in noi il sentimento di nazionalità, il quale, senza tanti e tanti piccoli, ma ripetuti, ricordi, forse sarebbesi estinto in noi, come lo fu in tutte le altre antiche nazioni… Quella buccina è per me il tamburo della nazionalità, dell’esistenza d’un popolo, che fu nazione, e che in oggi non vive che in Dio, e che cesserà di esistere allora soltanto che cesserà di credere in Dio”. Shadal prosegue scrivendo: “… la mia avversione alla Cabbalà non è incredulità, non è eterodossia, ma è profondo sentimento religioso… Aggiungerò, a scanso d’equivoci, che per semplice e materiale Mosaismo intendo p. es. suonare il Sciofar, o udirne le sonate, senza Cavanot [meditazioni] misteriose, ma colla sola cavanà d’eseguire un divino precetto, il quale è per noi sacro, per la semplice ragione che ci fu imposto da Dio… Chi difende le Cavanot, difende dottrine, di cui non incontrasi vestigio nella Misnà e nel Talmud; e chi, ciò facendo, si crede ortodosso, è un fanatico, che può essere tollerato; ma chi osa dichiarare eterodosso chi in ciò non la pensa come lui, è un impertinente…”.
Shadal, in questa lettera, affermava anche che “il misticismo [è] già da sé troppo contrario allo spirito del secolo, ed ogni giorno in più scarso di partigiani”. Su questo punto Benamozegh gli dà ragione. Così infatti aveva scritto: “la Cabbalà … è la più maltrattata; ed io ho un segreto inchinamento [inclinamento?] alle cause infelici ma vere. Mi chiami pure se vuole avvocato delle cause perdute. È questo il mio carattere e basta. Io ho considerato la cabbalà come Meth mizvà sceén lo koberim [un morto che non ha chi si occupi della sua sepoltura], che antecede ad ogni dovere”. C’è da dire che Rav Benamozegh ha curato bene il suo “morto”: infatti, oggi la Kabbalà è più che mai popolare, a volte persino con modalità eccessive, e sono moltissimi coloro che se ne interessano a livello storico-scientifico. Se Scholem e successori hanno “resuscitato” gli studi sulla Kabbalà, si deve grazie a persone come Benamozegh e nonostante quelli come Shadal.
Vorrei concludere riportando quanto ha scritto sullo shofar Rav Sergio Sierra z.l., scomparso da meno di un anno. Rav Sierra era romano e quando stava a Roma pregava sui banchi di questo tempio. È stato rabbino capo a Bologna e poi per molti anni rabbino capo di Torino, prima di fare la aliyà a Gerusalemme. È stato anche presidente dell’Assemblea dei rabbini italiani, professore all’Università di Genova e autore di numerose opere fondamentali. Fra queste, la più importante per la mia formazione è stata “Il valore etico delle mitzvot”, forse il primo libro su questi argomenti che lessi da ragazzo. Il capitolo sul significato dello shofar è stato riportato su Kolot la settimana scorsa (7.9.10).
Così scrive, fra l’altro, Rav Sierra: “Diverse sono le spiegazioni scientifiche o pseudoscientifiche che gli studiosi di storia delle religioni hanno dato ricercando l’origine e il valore dello Shofar. Prescindendo da queste teorie, più o meno accettabili per noi ebrei, qui descriveremo qual è il valore simbolico di questo caratteristico strumento di manifestazione religiosa nella tradizione d’Israele, la quale sola riesce a dare un vivo contenuto etico alle forme rituali ebraiche. […] Lo Shofar, quindi, è considerato per il suo originario valore storico e per il suono caratteristico che esso emette, come un coefficiente valido ad influire notevolmente sull’animo del credente, affinché questi sia stimolato a compiere quella indispensabile opera di introspezione e di valutazione sincera ed obiettiva della sua condotta morale onde ritrovare in contrizione quella forza morale necessaria a riportarlo sulla strada dell’onestà e quindi della redenzione. Lo Shofar viene suonato pure a conclusione della giornata del Kippur quale auspicio di conseguita redenzione da parte della Comunità… Nella Toràh poi il sinonimo di Shofar, cioè la parola Iovèl, diede il nome ad una delle più geniali istituzioni sociali dell’Ebraismo: l’anno giubilare, per cui ogni cinquantesimo anno, al suono dello Shofar, veniva ristabilito l’infranto equilibrio economico e sociale tra le classi del popolo e veniva proclamata la liberazione degli schiavi. Secondo la tradizione ebraica, inoltre, lo Shofar farà risuonare le sue note gravi e solenni nel giorno della completa resurrezione nazionale ebraica e, nei giorni a venire, saluterà il sorgere dell’alba messianica per l’umanità travagliata, il giorno cioè, in cui questa avrà ritrovato la via della fratellanza umana ed avrà riconosciuto Dio, come è venerato da Israele, quale l’unico Signore dell’Universo… Una voce antica dunque destinata all’introspezione per il rinnovamento della nostra vita spirituale, un ammonimento all’osservanza dei nostri doveri ebraici ed umani per servire un nobile passato e un futuro sublime”.
Rav Sierra ha quindi una posizione in parte simile a quella di Shadal, perché attribuisce alla mitzwà dello shofar un significato storico, rivolto però non solo al passato ma anche al futuro. D’altro canto, Rav Sierra è anche in sintonia con Rav Benamozegh, perché capisce bene quanto lo shofar faccia risuonare le nostre corde interiori. (Come mi ha poi detto un’amica che si autodefinisce laica, “lo shofar mi fa bene, fa parte della mia infanzia e adolescenza in famiglia”.)
Alla fine della derashà, alcuni frequentatori del tempio di via Balbo mi si sono avvicinati. Alessandro Venezia mi ha detto che lo shofar è l’unico che riesce a fare stare zitto il pubblico. E se è detto da lui, che di corde vocali si intende anche professionalmente, c’è proprio da crederci! Alessandro ha ben colto la potenza materiale e spirituale della voce dello shofar, in grado di ammutolire tutto e tutti. Duccio Levi Mortera, che invece è un intenditore di parole, mi ha recitato “su un piede solo” la seguente poesia da lui composta in occasione della faccenda delle ciambellette. È così bella che la propongo qua sotto ai lettori.
Le ciambellette
Da ‘na vita noi famo ciambellette
co’ farina cascerre naturalmente.
Cotte bbene so’ bbone so’ perfette
poi, fatte a casa è più che conveniente.
St’anno uno, e nun dico barzellette,
chissà che je’ passato pe’ la mente
dice: “ ‘n se ponno fa’ pena er karette”
e la farina? “via immediatamente”.
Nun doveva succede sto’ bavelle
la keillà de roma è storia a sé.
Semo finiti in bocca a lo ngharelle.
Speramo che, in futuro, nun ce sia
chi, ricordanno ‘na legge de Moscè,
ce negherà i carciofi alla giudia
Leonardo Levi Mortera (Duccio)