Le persone nobili parlano di idee, le persone mediocri parlano di cose; le persone basse parlano di altre persone
Roberto Della Rocca
Dalla presentazione al nuovo libro di Morashà: “Le leggi della maldicenza”
Lashòn harà’ – letteralmente la lingua del male, o mala lingua – è, per traduzione corrente, la maldicenza, un tema che la tradizione ebraica ha trattato e sviluppato con particolare attenzione. L’uso della parola è infatti, per l’ebraismo, un aspetto fondamentale della condotta etica, che deve essere curato quanto ogni altro.
Con attenzione e puntualità costanti, l’etica ebraica si applica con grande impegno nell’insegnare a contrastare la tentazione proposta dal vivere quotidiano di dare alla conversazione quel sapore pungente che insinuazioni, osservazioni maliziose e malignità di ogni sorta spesso le conferiscono. E insegna, in tal modo, a evitare di mettere in cattiva luce o in ridicolo il prossimo, rifuggendo altresì da chiacchiere, pettegolezzi, malignità e calunnie.
Rabbì Israèl Meìr Hakohèn Kagan di Radin (1839-1934), è l’autore del Mishnà Berurà, famoso commento all’Òrach Chaìm, che è la prima parte dello Shulchàn ‘Arùkh, il classico codice di leggi della tradizione ebraica composto da rabbì Yosèf Caro. Ma rabbì Kagan è anche il Maestro che più di ogni altro si è dedicato al tema della maldicenza, compilando un’opera in due volumi dal titolo, rispettivamente, Chafètz Chaìm (Ricerca/Desiderio di Vita), nel 1873, e Shemiràt Halashòn (Il Freno della Lingua) nel 1876. Il titolo del primo volume è un richiamo al salmo 34, 13-14 in cui si legge: «Chi è l’uomo che desidera la vita [hechafètz chaìm] e che ama i giorni, per vedere ciò che è bene? Frena la tua lingua dal male e le tue labbra dai discorsi fraudolenti!». Tutto il libro tratta di questo argomento e spiega le vaste implicazioni che la lingua del male porta con sé.
Di tale importanza è stato considerato il contributo di quest’opera all’etica dell’ebraismo che il suo autore è giustamente e universalmente conosciuto come il Chafètz Chaìm. Il lavoro fu seguito da altri cinque libri in cui l’Autore tratta diversi aspetti del problema e del pericolo di incorrere, talora anche inconsapevolmente, nell’errore della maldicenza. Alla base di tutti questi scritti vi sono altre opere rabbiniche, tra le quali naturalmente il Talmùd, e tutte segnalano che il divieto della maldicenza non si riferisce soltanto alla calunnia e alla diffamazione, ma anche al riferire cose che possono essere vere, ma che rischiano di mettere in cattiva luce il prossimo. Questa è considerata una forma di trasgressione, e di una tale gravità che i Maestri l’hanno paragonata all’omicidio, poiché chi sparla reiteratamente torna a uccidere ogni volta il destinatario della maldicenza.
Pur condannandola con decisione, i Maestri sono sempre stati consapevoli di quanto fosse difficile impedire la maldicenza: «È difficile che passi giorno in cui ne siamo risparmiati…» (Talmud Bavlì, Bavà Batrà 164b). Già nel primo secolo, i capi della Grande Assemblea, la Kenèset Haghedolà, si erano posti il problema dei danni dei delatori e della maldicenza (Talmud Bavlì, Berakhòt 28b), al punto di introdurre nella tefillà una benedizione supplementare che recita: «Per i maldicenti non vi sia speranza…». A stabilirla fu Shemuèl Hakatàn, giacché, dopo sofferte meditazioni, fu considerato dai Maestri l’unico che non era coinvolto personalmente con i maldicenti. In tal modo, non si sarebbe potuto sospettare che in questa decisione ci fosse mancanza di obiettività e, magari, un desiderio di rivendicazione personale.
La tradizione rabbinica individua nella maldicenza la causa della tzarà’at, conosciuta comunemente come la malattia della lebbra. Ed è questo un caso eccezionale, in quanto raramente i Maestri stabiliscono un legame diretto tra colpa e castigo. La Torà in Numeri (12, 1) racconta come Miriàm venga colpita dalla lebbra per aver sparlato del fratello Moshè in sua assenza. L’episodio è emblematico: colui che fa atto di maldicenza in segreto, presumendo che le sue parole non possano essere scoperte da altri, viene colpito da una malattia che, al contrario, non può essere nascosta e per la quale è necessario un isolamento dagli altri.
Anche l’episodio degli esploratori (Numeri, capp. 13 e 14) mostra il pericolo della maldicenza, che, in questo caso, è causa stessa dell’esilio per il popolo ebraico. Gli esploratori riferiscono a Moshè ciò che hanno visto, non limitandosi tuttavia a un resoconto dettagliato, ma travalicando il loro compito e attardandosi in un’interpretazione negativa, distruttiva, che intende influenzare la scelta del popolo. Hanno fatto precedere la bocca agli occhi: hanno pensato di far maldicenza ancor prima di aver visto (Talmùd Bavlì, Sotà 35a).
I Maestri sottolineano che la prossimità dell’episodio degli esploratori con l’atto di maldicenza di Miriàm, indica la radice del peccato degli esploratori, di non aver saputo riflettere e apprendere dall’errore di Miriàm. Rashì, infatti, afferma che il motivo della vicinanza dei due avvenimenti sta nel fatto che i principi che esplorarono la Terra d’Israele avrebbero potuto essere più sensibili al rischio e alla gravità della maldicenza, se solo avessero ricordato quanto accaduto a Miriàm, la quale, dopo aver parlato male del fratello, era stata punita. L’aggravante degli esploratori sarebbe quindi quella di aver parlato male della Terra, malgrado avessero ricevuto come monito la storia stessa di Miriàm. L’insegnamento che se ne trae è che l’esempio personale è d’importanza fondamentale, e ha valore di insegnamento a sua volta.
Il Maharàl, rabbì Yehudà Loew di Praga (1525-1609), nota che il libro di Ekhà che si legge a Tishà Beàv ha le stesse lettere di aièka (dove sei)?, la domanda che Dio rivolge ad Adamo, e ciò insegna che l’esilio non è una questione esclusivamente geografica, ma è uno spazio dell’interiorità. Ma c’è di più. Il libro di Ekhà è scritto in forma di acrostico; e tuttavia, l’ordine alfabetico che caratterizza le lettere iniziali di ciascun verso presenta un’eccezione al verso che inizia con la lettera pe, il quale precede, anziché seguire, quello che inizia con lettera ‘àin. Ma pe, si sa, in ebraico significa bocca, e ‘àin significa occhio. Dunque la bocca ha preceduto l’occhio, esattamente come hanno evidentemente fatto gli esploratori che hanno fatto precedere la bocca (il loro giudizio) agli occhi (il racconto di ciò che avrebbero visto); essi hanno fatto maldicenza, affermano i rabbini, nei riguardi di Èretz Israèl ancor prima di aver visto il paese. L’episodio rimane nella cultura ebraica il paradigma di ogni pregiudizio, di ogni posizione preconcetta. Tutta l’esegesi rabbinica sulla storia degli esploratori tende a evidenziare come gli esploratori fossero andati in Israele con una idea precostituita, come se l’accettazione di recarsi in Èretz Israèl, anziché essere un obiettivo predestinato, potesse essere una possibilità di scelta, subordinata al gradimento della terra stessa da parte del popolo. Quale è la vera colpa dei meraghelìm? In fondo, essi hanno riportato la verità dei fatti e di ciò che hanno visto. E, tuttavia, alla loro relazione oggettiva essi hanno aggiunto una limitazione, un giudizio soggettivo che condiziona e indirizza verso conclusioni ben precise il giudizio degli altri.
Ad approfondire il collegamento fra lebbra e maldicenza è il Chatàm Sofèr (Rabbì Moshè ben Shemuèl Sofèr o Schreiber, 1762-1839), che, nel commentare la parashà di Tazrìa (Levitico, 13, 2), collega i tre sintomi comuni della tzarà’at con i tre motivi che inducono le persone a parlare contro altre persone:
Seèt (protuberanza): chi fa maldicenza la fa per innalzarsi e gonfiarsi rispetto agli altri;
Sappàchat (scaglia): nel fare maldicenza ci si associa (sippùach) e ci si uniforma a un gruppo per essere accettato dal gruppo stesso;
Bahèret (macchia lucida): si fa maldicenza per discolparsi da qualcosa. Si tenta di chiarire (levaèr) le ragioni del proprio atteggiamento per discolparsene e quindi si proiettano sugli altri alcune proprie responsabilità.
Nella Bibbia (Geremia 9, 7; Salmi 120, 4) la lingua del male è assimilata a una freccia mortale, perché uccidere con la freccia è proditorio e infido; e, inoltre, uccidere con la freccia è peggio che uccidere con la spada, perché mentre, sguainata la spada, c’è ancora spazio per un ripensamento, la freccia, una volta scagliata, non la si può più trattenere. Allo stesso modo, la parola, una volta pronunciata, raggiunge immancabilmente il suo obiettivo, arrecando danno non riparabili all’immagine o alla reputazione di una persona. Per questo motivo, molti esegeti affermano che la tzarà’at è una malattia di carattere soprannaturale, per la quale la persona è tenuta a stare fuori dall’accampamento in cui vive, lontana da resto del popolo, in quanto le parole distruggono la reputazione, l’amicizia, e tutti i rapporti fondamentali del nostro vivere quotidiano. Il Talmùd (‘Arachìn, 16b) sostiene, infatti, che colui che separa le persone con la maldicenza deve essere a sua volta separato dagli altri, poiché l’isolamento gli permetterà di riflettere sul suo operato ed egli potrà fare, così, teshuvà. Non sono davvero mai stati teneri i rabbanìm con chi è dedito alla maldicenza: «Chi pratica la calunnia non ha parte nel mondo futuro» (Pirkè Derabbì Eli’èzer, cap. 53). E, infatti, l’Avòt Derabbì Natàn afferma che «Ci sono quattro cose per le quali l’uomo sarà punito sia in questo mondo, sia in quello futuro: l’idolatria, la lascivia, lo spargimento di sangue, e la maldicenza, che le supera tutte» (40, 1)
Il pettegolezzo e la maldicenza iniziano dalle cose piccole. Si racconta che «Quando rabbì Yosè ben Chalaftà era un ragazzo, era solito giocare con gli altri ragazzi. Un uomo lo vide e gli gridò: Lo dovrebbe sapere tuo padre che invece di studiare, tu sprechi il tuo tempo a giocare coi ragazzi. E rabbì Yosè rispose: E a te questo che importa? Se lo racconti a mio padre lui si limiterà a sculacciarmi, mentre tu abituerai la tua lingua alla calunnia».
Il pettegolezzo e la maldicenza sono oramai, purtroppo, un vezzo incorreggibile della nostra società. Usare un linguaggio aggressivo, fare rivelazioni scandalistiche sembra rispondere a un’esigenza del costume sociale e spesso politico. La maldicenza deliberata e meditata sembra essere divenuta un’arma con cui combattere il prossimo e le sue idee. Eppure, la tradizione ebraica ha già dato sull’argomento un chiaro giudizio. Ha detto, infatti, rabbì Naftalì Braunfield nel suo Divrè Naftalì che «Le persone nobili parlano di idee, le persone mediocri parlano di cose; le persone basse parlano di altre persone…”
Questo prezioso testo Le leggi della maldicenza del Chafètz Chaìm, tradotto con grande competenza e puntualità da Ralph Anzarouth e Raphael Barki, potrà essere di grande utilità al pubblico ebraico italiano affinché ci si possa confrontare sempre e soltanto sulle idee nel percorso verso una società fondata sulla Torà.
Rav Roberto Della Rocca