Emanuele Calò*
“Ho ripristinato il vecchio cognome di famiglia. Mi sono aggiunto una enne alla fine: ora sul passaporto sono Alessandro Gassmann. Non per recidere il legame con mio padre, che è sempre stato fortissimo. Ma per recuperare la storia familiare. Noi siamo ebrei. Io a metà, mio padre per intero. Nel ’34 la nonna, che era rimasta vedova con due figli e intuiva la bufera che incombeva, tolse la “enne” al cognome dei figli e cambiò il suo da Ambroon ad Ambrosi. Mio padre Vittorio aveva tutte le caratteristiche che si attribuiscono agli ebrei, compresa la parsimonia: uomo generosissimo – non gli ho mai visto lasciar pagare un pranzo o una cena al suo commensale -, in casa spegneva di continuo le luci, staccava l’interruttore centrale, svitava le lampadine. Era ossessionato dal consumo elettrico. Aveva il senso della provvisorietà delle cose, della caducità della vita. Anche l’ultima cosa che mi disse fu: “Spengi la luce”». Così, Alessando Gassmann ad Aldo Cazzullo (L’intervista. I 70 italiani che resteranno, Mondadori, 2017).
Sennonché, su La Lettura del Corriere della Sera del 14 giugno 2020, a pagina 3, trovo una lettera dell’8 febbraio 1998, intestata così: “Vittorio Gassmann, Via Angelo Brunetti, 33 00186 Roma”. Quindi, la doppia enne era già stata usata dall’augusto genitore due anni prima di morire.
La figlia ebrea del grandissimo Vittorio, nata da Shelley Winters (il cui nome vero era Shirley Schrift), si chiama Vittoria Gassman, di cui si apprende sul web che “Dr. Vittoria Gassman is a geriatrician” ed è Direttrice della “Jewish Home”. Del padre si apprende in un articolo in inglese che “is perhaps the most (and, for some, the only) truly noteworthy Italian Jewish actor of the 20th century.”(P. Balma, Hiding in plain sight: Jews in the Italian film industry from Mussolini to the present.” [Invited talk at the Center for Judaic & Middle Eastern Studies at the University of Connecticut, 10-23 2014).
Quando alla Winters dopo la guerra fece un tour di tre mesi per raccogliere fondi per l’United Jewish Appeal; in seguito si rifiutò di girare delle scene in Germania (dovettero ricorrere ad una controfigura) per via delle immani sofferenze dello zio Yaekel, superstite della Shoah. Non solo; nella sua autobiografia, la Winters dice che “giunta in Israele io, movie star, mi inginocchiai e baciai la terra d’Israele” (Shelley (Also known as Shirley) Shelley Winters, N.Y., 1981, p. 337). Nel libro della Winters, Gassmann le racconta una storia sorprendente: “Era sopravvissuto agli orrori del nazismo e disse ai miei genitori delle traversie subite da lui e dalla madre (che era stata nascosta in Vaticano) per via del sangue ebraico (Winters, cit., p. 368).
L’autobiografia di Vittorio Gassmann (Un grande avvenire dietro le spalle, Longanesi, 1981) non reca traccia di tutto ciò; possiamo rilevare, soltanto, che a pagina 52 appaiono le due enne nel cognome. Eppure, aveva ben sedici anni al tempo delle leggi razziali e ventuno al tempo dell’occupazione tedesca. Se si va sul sito di Yad Vashem, fra le vittime della Shoah ci sono sia Gassman che Gasmann: i nazisti non si formalizzavano. C’è addirittura nel sito di Yad Vashem un omonimo del papà di Vittorio (Heinrich).
Incrociai Gassmann al Liceo Visconti, dove diventammo coetanei virtuali, in quanto entrambi andammo al rituale colloquio coi professori della nostra prole, una sorta di rito pagano dove nell’esorcistico “è bravo ma non s’impegna” confluiscono le preghiere di tutte le fedi. Ebbi la netta sensazione che la nostra fosse una recita, ed il pensiero di dividere con lui la sede della commedia mi parve tanto irreale quanto lusinghiero.
Che importanza ha sapere se Vittorio Gassmann fosse ebreo o meno? L’ha, se non altro perché l’immagine dell’attore italiano più bello, talentuoso, colto e carismatico, anche nazionale di pallacanestro, scrittore premiato, poeta, che sovrastava di una testa il grande Alberto Sordi, cozza violentemente con la caricatura dell’ebreo piccolo, goffo, ciccione, brutto, torvo, col naso adunco e ingobbito, che il buon Giorgio Almirante avrà adocchiato nelle immagini ricorrenti ne “La difesa della razza”. Dei cinque geni del cinema italiano (Alberto Sordi, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassmann) il più bello era lui. Così come nel film “I Vichinghi” (puri ariani) giganteggiavano Bernard Schwarz e Issur Danielovich, noti come Tony Curtis e Kirk Douglas.
Non credo che agli energumeni che le trovano tutte per infangare gli ebrei piacerebbe issare dei cartelli antisemiti con le facce, per dire, di Paul Newman e Vittorio Gassmann. Se è per quello, nemmeno con quella di Alessandro Gassmann.
Non ci sto a passare per inferiore e, costretto a scegliere, meglio essere più belli e più intelligenti, alla faccia di chi ti detesta. Ringrazio Alessandro Gassmann, che quando dice “noi siamo ebrei”, dopo una vita a sentirmi dire le peggiori cose degli ebrei in generale e di Israele in particolare, mi fa sentire bello e intelligente.
*giurista