Silvia Berti – Facoltà di Scienze Umanistiche – “La Sapienza” – Roma
C’è forse ancora qualcosa da dire sul recente e fortunatissimo libro di Alberto Asor Rosa, La guerra. Miriam Mafai ha da poco descritto lo sconcerto e lo smarrimento che si avvertono da qualche giorno nei discorsi di ebrei e non ebrei nella sinistra italiana. Doveva succedere anche questo: che un intellettuale come Asor Rosa, che ha insegnato a molti (e certamente a me) di letteratura e di politica, e che per decenni ha usato la sua intelligenza critica per animare il dibattito interno alla sinistra, fosse pubblicamente accusato di antisemitismo. Mi dico, insieme a molti, che ci deve essere un errore o un travisamento in queste accuse. Ma, come ogni ermeneuta sa bene, la parola finale spetta ai testi. Specialmente quando biografia e pagina scritta si trovino a confliggere.
Confesso che a suo tempo non lessi (forse per un istintivo senso di autoprotezione) Fuori dall’Occidente, qui rifuso con altri scritti successivi. Ma ora debbo constatare che il libro contiene vari, terribili passi antisemiti.
Il tutto si inscrive in una visione autodefinitasi profetica che è anche una filosofia della storia. Vediamo come è costruita la sezione dedicata alla storia ebraica. Si comincia con l’affermare che “l’ebraismo, nella sua essenza, è puro Oriente” (p.97), mentre il cristianesimo, contaminandosi con la forma/Stato, è diventato Occidente. E nella Diaspora, nei lunghi secoli delle persecuzioni loro inflitte, gli ebrei, resistendo all’assimilazione, hanno rappresentato l’elemento critico che “non ha mai accettato l’Impero”. Dopo lo sterminio nazista, lo Stato di Israele sarebbe stato creato dall’Occidente per risarcire gli ebrei, con la conseguenza che l’ebraismo, “ha…fatta propria, per la prima volta nella sua storia, la grande eredità dell’Occidente” (p.100). Fondato lo Stato, gli israeliani “non hanno conservato nulla del carattere di vittime che li ha contraddistinti nella storia: per non essere più vittime, sono entrati direttamente nel novero dei carnefici”(p.101). E via continuando, in un crescendo che culmina nell’identificazione dell’ebraismo (sic) con una “razza guerriera e persecutrice” (p.191).
Cominciamo dall’inizio: già nell’età ellenistica fecondi furono gli scambi fra ebrei, greci, iranici, romani. L’identificazione fra ebrei e il “puro Oriente” non so che cosa significhi da un punto di vista storico. E’ parimenti falso che gli ebrei non abbiano mai conosciuto un’organizzazione statuale: essa durò fino alla distruzione del Secondo Tempio operata da Roma nel 70 d.c. Venendo ad epoche a noi più vicine, è evidente a tutti che gli ebrei non hanno dovuto aspettare il 1948 per “diventare Occidente”. Nella storia della Diaspora, gli ebrei non sono stati soltanto le “vittime” delle persecuzioni, ma una forza viva operante all’interno della cultura occidentale. Cito soltanto tre macroscopici esempi: l’illuminismo radicale europeo fecondato da Spinoza; il socialismo trasformato, e in parte inventato da Marx, e la psicanalisi freudiana. Se lo Stato di Israele è Occidente, non è a causa di un rivolgimento dialettico, o di un tradimento etico, ma perché gli ebrei, nel corso dei secoli, sono già stati quintessenzialmente Occidente, il cuore stesso dell’Europa. Anche il sionismo, il movimento di emancipazione nazionale ebraico, nacque fra Budapest, Vienna e Odessa verso il 1890, e spinse in diverse ondate migratorie gli ebrei d’Europa verso la Palestina, ben prima della Shoah.
Ma a che cosa serve lo schema interpretativo introdotto da Asor Rosa? E’ presto detto: prima si ipostatizza un idealtipo di ebreo orientale inesistente; poi si ammira la sua cultura e si solidarizza con la sua vicenda di vittima dell’Occidente antisemita; infine, quando finalmente l’ebreo si emancipa e combatte per l’indipendenza nazionale, gli si dice che baratta la sua storia senza macchia con la creazione più funesta dell’Occidente, lo Stato. Come non vedere in questo un rinnovato pregiudizio antiebraico? Forse inconsapevole (l’autore ha chiesto il beneficio della buona fede, cosa su cui, immagino, tutti consentiranno); tuttavia il testo è esplicito. Ancora una volta, gli ebrei sono “buoni” solo da vittime.
Posizioni analoghe affiorano spesso nei discorsi che si ascoltano in alcuni settori della sinistra, come slogan irriflessi, come cose date per ovvie. Come mai è stato così lento e stentato il lavoro di “autocoscienza” della sinistra sul tema dell’antisemitismo? L’assenza di indagine sulle proprie magagne ha per background un pericoloso discorso autoassolutorio: siccome l’antisemitismo è fascismo, e noi siamo democratici e antifascisti, noi non possiamo essere antisemiti. Possibile che non si sia ancora riusciti ad affrontare il tema della criminalizzazione staliniana del sionismo? Da questo terreno nasce l’idea degli israeliani come “persecutori”: gli ebrei hanno solo affermato il loro diritto, come quello di ogni popolo, all’autodeterminazione, sancito nel 1948 attraverso la legittimazione da parte dell’ONU dello Stato di Israele. E non è forse per questo stesso principio che tutti auspichiamo che uno Stato palestinese affianchi Israele?
Tornando ad Asor Rosa, si potrebbe dire che le sue parole nello stesso tempo seguono e concettualizzano questo clima. Forse, però, ciò che più profondamente le spiega, è l’affinità inaspettata con quell’orientalismo decadente nostrano, arcaizzante e antimoderno, di cui, sospettiamo, Edward Said non vorrà scrivere la storia. E poi: abbiamo davvero bisogno di questa ubriacante profezia d’Oriente? Siamo sicuri, come diceva il verso brechtiano, che “ci lasci sobri al mattino”? Nella stretta presente, non possono aiutarci i fumoirs di Delacroix. La sinistra ha bisogno, come non mai, di idee chiare, distinte e, possibilmente, oneste.