Il giovedì grasso a Venezia è già Carnevale pieno, anche se ci sono un po’ meno maschere e un po’ meno turisti rispetto ai giorni successivi che vedono un crescendo fino all’ultimo martedì, quando non si riesce proprio a camminare per la città. Giorno giusto il giovedì grasso per andare a Venezia, così avevano convenuto i due ragazzi.
Flavio e Giusy s’erano messi d’accordo di uscire a mezzogiorno da scuola, prendere il primo treno e tornare a casa la sera. Panini in borsa, due bottiglie d’acqua minerale e via. A Venezia li aspettava un loro amico che trascorreva ogni estate un mese di vacanza vicino alla casa di Flavio, in un paese non lontano da Belluno. Quel giorno il cielo era terso, non tirava un soffio di vento e la temperatura era mite. La vecchia littorina scese da Belluno verso la pianura con una lentezza esasperante: Vittorio Veneto, Conegliano, Treviso, Mestre e, finalmente, Venezia, ma in mezzo c’erano state tante altre fermate in piccole stazioni di paese. Davanti alla stazione di Venezia la folla occupava ogni spazio, dalle scalinate e fino al canale lì davanti. Flavio cercò l’amico al cellulare, si trovarono subito e per la Lista di Spagna si diressero verso San Marco. Altro che poca gente, esclamò Giusy, faticando con i due amici a camminare per la calle. Carlo, l’amico veneziano, indicava ogni tanto i luoghi e i palazzi più interessanti.
“Questo è Palazzo Labia, la sede della Rai e quella lì, a destra, è la chiesa di San Geremia, dove c’è il corpo di Santa Lucia, che protegge chi ha male agli occhi.
“Questo è il Ponte delle Guglie e lì a sinistra, per una piccola calle si entra nel Ghetto, dove vivono gli Ebrei e ci sono le Sinagoghe e il Museo, sono molto interessanti. Appena dentro c’è anche un forno che lavora per gli Ebrei, con i loro dolci di Carnevale.”
“È anche per gli Ebrei il Carnevale?” chiese Giusy, curiosa di tutto.
“Non c’è nella loro tradizione, ma hanno una festa che assomiglia molto al nostro Carnevale e la celebrano in coincidenza con questo. La chiamano la Festa di Purim, che cade il 14 di adar, cioè tra marzo e aprile, e ricorda la salvezza ottenuta dal popolo ebraico, circa 2500 anni fa, ai tempi dell’imperatore persiano Serse, che la Bibbia chiama Assuero. La parola Purim significa sorte, perché il crudele Hamman, ministro del re, che odiava gli Ebrei, aveva deciso di distruggere il popolo ebraico e, tanto per cominciare, voleva tirare a sorte gli ebrei da uccidere, ma fu smascherato dalla moglie del re, la bella regina Ester, che era ebrea, che così salvò il suo popolo che da allora celebra la ricorrenza con feste, balli, mascherate e dolci fatti per l’occasione. Qui a Venezia, ma credo in ogni città dove vivono, gli Ebrei hanno fatte proprie anche le tradizioni che hanno trovato sul posto. Perché quelli che abitano nel ghetto o in altre sestieri di Venezia sono sì ebrei, ma sono anche e soprattutto veneziani, sono come noi. Credi che abbiamo dei segni particolari?”
“E sì, replicò Giusy, hanno un berrettino particolare sulla testa, come quello del papa, ma nero, e ho visto in un posto che gli uomini si vestono tutti di nero, hanno la barba lunga, basette lunghissime e portano in testa un grande cappello nero.”
“Sì, ci sono anche questi, ma gli ebrei veneziani sono veneziani come noi, si vestono secondo le loro tradizioni solo alcuni, soprattutto quando vanno nella sinagoga, il venerdì sera o il sabato. Per il resto non li distingui proprio da noi. Io ho dei compagni di scuola ebrei e un professore ebreo, ma se non lo sai non li distingui proprio.”
“Hai detto che anche gli ebrei hanno dei propri dolci per il Carnevale”, disse Giusy.
“Sì, rispose Carlo, anche loro come noi hanno le frittelle, sono le frittelle di Purim, che loro preparano per la festa di Purim, come ti ho detto prima. E per la stessa occasione hanno dei dolci simili ai nostri galani, quelli che voi chiamate crostoli e loro chiamano orecchie di Hamman, a scorno perpetuo del crudele ministro.”
La strada era davvero intasata, i tre amici procedevano con difficoltà.
“Fritole, bone fritole!! gridava in un angolo, davanti a un forno, un uomo con un camice bianco. Aveva davanti un banco con un catino dove metteva le frittelle appena tolte da una padella dove una donna, probabilmente sua moglie, anche lei con un camice bianco e un berrettino dello stesso colore in testa, le andava friggendo. Poi l’uomo vi cospargeva sopra dello zucchero e aspettava che s’avvicinassero i compratori. Ma non aveva proprio da aspettare, perché le vendeva all’istante.
“Ecco lì un banchetto con un venditore di fritole, disse Carlo. Ne prendiamo un po’?”
“Sì, dissero insieme Giusy e Flavio.” Si avvicinarono e Carlo ordinò un cartoccetto di frittelle, una decina. “Tanto per gustarle, disse, ma ne troveremo altre lungo la strada.”
Mentre le metteva in un cartoccio di carta paglia, quel “fritolin” continuava a far pubblicità al suo prodotto.
“Fritole, bone feritole! Sono le fritole di Zamaria, le più buone di Venezia!”
“È lei Zamaria?” gli chiese Flavio.
“No, ma sono come lui le faceva, ho la sua ricetta. Zamaria vendeva le fritole ai tempi dell’Austria, oltre centocinquant’anni fa. Erano le migliori di Venezia e io ho la sua ricetta.”
Carlo s’incuriosì. “E qual è la ricetta di Zamaria?” gli chiese.
“Eccola, la dico a tutti”, continuava a gridare per farsi pubblicità: “Si scioglie il lievito la sera e si prepara la pasta con farina e acqua e il giorno dopo la pasta è già levata. Si versa dentro un bicchiere di grappa e dell’uva passa di Smirne, poi si lavora con molta forza e la si mette in un catino ben coperta. Eccola qui, la vedete la pasta di Zamaria? Poi ne prendi un pezzetto alla volta
con un cucchiaio e la versi nell’olio bollente, come faccio io adesso. Un olio buono, come voleva Zamaria, caldissimo. Una spruzzata di zucchero ed ecco le frittelle più buone di Venezia, che vuol dire del mondo!”
“Tutto qui?” chiese Carlo
“Assaggiale e dimmi se non ho ragione. Sono le fritole di Zamaria, le più buone di Venezia. Non perdete l’occasione di gustare le autentiche fritole veneziane!”
Continuava a gridare, mentre i tre amici avevano ripreso la strada, mangiando le frittelle che avevano acquistato.
“Buone, disse Giusy, proprio buone. Chissà se quella era proprio la ricetta di Zamaria.”
“Non lo so, ma credo proprio di sì, non avrebbe motivo di imbrogliare, anche perché non so quanti conoscano quel tale Zamaria. Vedi, disse Carlo sempre rivolgendosi a Giusy, qui a Venezia c’è una bella tradizione. Le frittelle, che noi chiamiamo fritole, sono il dolce storico di Venezia e in questo periodo sono in ogni casa, e si cominciano a fare dal giorno dopo l’Epifania, perché è da quel giorno che inizia il Carnevale.”
Finite le frittelle bevvero un sorso d’acqua e continuarono a camminare.
“Quella è la chiesa dei Santi Apostoli, disse Carlo indicando una grande chiesa alla loro sinistra. Noi adesso andiamo a destra verso Rialto e troveremo delle calli molto strette. Facciamo attenzione a non perderci.”
C’erano nello slargo verso la chiesa dei bellissimi gruppi mascherati, con vestiti eleganti, ricchi di pizzi.
“E cos’è quella mascherina nera che hanno sul viso?”
Giusy era curiosa, era la prima volta che s’immergeva nel Carnevale di Venezia. L’aveva visto più volte, negli anni precedenti, in televisione, ma non era mai stata a Venezia durante il Carnevale.
“È la baùta, disse Carlo. È un’antica usanza veneziana, un tempo molto più usata, soprattutto dai patrizi che la indossavano spesse volte nel corso dell’anno. Quando i signori entravano in posti popolari, nelle osterie e nelle sale da gioco, chiamate casini e non volevano farsi riconoscere mettevano sul viso la bauta e così passavano indisturbati.”
Anche in quella piazza c’erano dei venditori di frittelle. Flavio ne aveva visti altri lungo la strada.
“A Belluno non si vedono venditori di frittelle lungo le strade, disse In quest’ultima settimana di Carnevale le puoi trovare dai fornai e nelle pasticcerie e anche in qualche bar le offrono ai clienti, ma per le strade niente.”
“Vi ho detto che è una tradizione tutta veneziana, anche se le frittelle si fanno pure, come vi ho detto, in ogni casa. Mia madre ne ha fatte una bella terrina ieri sera, l’ho vista come le faceva. Lei dice che le fa come sua madre e sua nonna e che la sua ricetta è molto vecchia. In questa settimana le fa diverse volte, perché a casa arrivano sempre delle persone e sulla tavola trovano le frittelle pronte e una bottiglia di Moscato Fior d’Arancio dei Colli Euganei, che piace tanto a casa mia con i dolci. Vediamo più avanti se ne troviamo ancora.”
“Sono un po’ stanca, disse Giusy. Ci possiamo fermare un po’?” Erano in mezzo a una confusione impressionante. Entrarono in una calle secondaria, completamente vuota.
“Qui siamo nei luoghi dove c’erano le case dei Polo, sai, la famiglia cui apparteneva Marco Polo. Vedi la scritta? «Sottoportego del Milion», sì il libro scritto da Marco Polo quando era in carcere a Genova. Possiamo fermarci un po’ qui.”
“Mi basta essere fuori della ressa, disse Giusy, camminiamo pure, ma adagio.”
Passarono sotto un palazzo e sbucarono in uno slargo.
“Ecco il teatro, disse Carlo, proprio qui, dove ora c’è questo teatro, c’era la casa della famiglia Polo, dove è nato quel celebre viaggiatore che divenne amico del grande imperatore della Cina. E grazie a Marco Polo c’è un bel rapporto fra la Cina e Venezia e molti gruppi di Cinesi vengono qui ad ammirare la casa d’un personaggio molto famoso nel loro paese.
“Questa è la chiesa di San Lio, disse Carlo, e per calle della Bissa arriveremo in due minuti al centro ideale di Venezia.”
Un altro passaggio buio sotto i palazzi e sbucarono alle spalle di una grande statua.
“Quello è Carlo Goldoni, il nostro grande commediografo.”
Il campo era intasato, era quasi impossibile procedere e con grande fatica arrivarono ai piedi del ponte di Rialto. Giusy volle salire sul ponte per vedere il Canalgrande e le tante maschere che si facevano ammirare salendo e scendendo quella stupenda scalinata.
“Bellissime, esclamò e stupendo il panorama che si vede da quassù.” Giusy non voleva spostarsi, le pareva di vivere un sogno, il sogno che offre Venezia ai suoi visitatori.
“Oggi c’è tanta gente, troppa, commentò Carlo. Per vedere e godere Venezia è meglio venire più avanti, in Quaresima, magari all’inizio settimana, quando c’è poco turismo, meglio ancora se c’è un po’ di foschia. La città è stupenda, con le sue trasparenze, i palazzi che compaiono all’improvviso, la parlata veneziana così musicale che senti vicino ma non sai da dove arriva. Io sono veneziano, dovrei essere abituato, anzi, dovrei vedere più i difetti che i pregi, ma io m’incanto sempre, specie la sera, quando cammino da solo e i miei passi mandano un’eco che si sente lontano.”
I tre amici trovarono uno minuscolo spiraglio libero sul parapetto del ponte che guarda verso San Marco. Pian piano trovarono spazio tutti e tre e si fermarono ad ammirare il passaggio delle gondole che trasportavano maschere stupende e vaporetti gremiti all’inverosimile.
Dopo un po’ decisero d’incamminarsi verso San Marco. Per le Mercerie era impossibile e presero la direzione del teatro Goldoni e per calli meno frequentate s’avvicinarono a quella che era l’unica piazza di Venezia. Anche in quelle stradine secondarie c’erano maschere. Personaggi a volte strani, solitari, vestiti esattamente come nei libri di storia che mostrano patrizi d’altri tempi, dame col seguito di cicisbei, tutti vestiti alla perfezione, dal cappello alle scarpe.
“Straordinario, esclamò Giusy. Ma come fanno ad avere questi vestiti completi, elegantissimi, ben conservati. E guarda come li indossano, con fierezza, come fossero dei principi. Non ho mai visto un Carnevale così, né l’avrei mai immaginato se non fossi arrivata a Venezia.”
“Qui, in un appartamento nella calle a destra, c’è casa mia, disse Carlo. Andiamo a mangiare due fritole da mia madre?”
“Almeno mi siedo un po’, sospirò Giusy, ho i piedi bollenti. Sì, andiamo.”
La madre di Carlo sembrava aspettarli. Era un bell’appartamento, ben tenuto, con una sala da pranzo ariosa e in un angolo un divano con due poltrone e la televisione. Sulla tavola una terrina di frittelle che sembravano aspettare chi le voleva mangiare. Carlo invitò i due amici a sedersi sul divano e mise sul tavolinetto davanti la terrina di frittelle.
“Buone, proprio buone, disse Flavio. Le ha fatte lei, signora?”
“Sì, sì, mia madre è una bravissima cuoca”, s’affrettò a dire Carlo.
“E la ricetta è quella di Zamaria?” chiese ancora.
“Queste frittelle, disse la madre di Carlo, sono fatte come le faceva mia madre. Verso mezzo chilo di farina bianca sulla spianatoia e poi vi incorporo mezzo etto di lievito di birra, quattro uova intere, poco meno di un etto di zucchero, sì tra mezzo etto e un etto, un pizzico di sale, bagno con mezzo bicchiere di vino bianco, aggiungo la rapatura di mezza arancia e un po’ di latte per rendere morbido l’impasto. Lo copro con un tovagliolo e lo lascio lievitare bene. Alla fine irroro l’impasto con mezzo bicchierino di grappa. Mia madre, ricordo, usava il mistrà, ma io la grappa, poi aggiungo all’impasto un etto di pinoli e un etto di uvetta che avevo fatto rinvenire nel vino che ho usato prima.
“In verità non sappiamo quando i veneziani cominciarono a preparare le frittelle, disse allora la mamma di Carlo, ma conosciamo abbastanza bene la storia di questo dolcetto. Per il mio lavoro ho dovuto studiare molti libri e documenti del passato e scorrendo i ricettari e i libri di agricoltura dell’antichità, si viene a sapere che nella Roma delle origini facevano un dolce che può assomigliare alle nostre moderne frittelle di Carnevale. Probabilmente la ricetta più antica l’ha scritta uno dei più illustri personaggi dell’antichità, quel Marco Porcio Catone, nato a Tusculum verso il 234 prima di Cristo, raffinato uomo politico, quello della frase continuamente ripetuta “Delenda Cartago” (“Cartagine deve essere distrutta!”). Fra le opere che ha scritto un posto importante è occupato dal volume intitolato “Liber de Agricoltura”, dove c’è una gran quantità di ricette del tempo. Fra queste ce n’è una intitolata “Globulos sic facto” (“I globi si fanno così”) che ora vi leggo da questo libro che ho qui nello scaffale e la traduco in italiano. Essa recita: Per fare i “globi”, mescola insieme cacio e “alica” in quantità uguali; poi fa i “globi” della grossezza che vuoi: Tuffali nel grasso bollente in una padella di rame. Cuocili uno o due per volta e rigirali spesso con due palette; quando sono cotti, toglili, spalmali di miele, spolverali di [semi di] papavero e servili così.” Il “globus” può essere considerato l’antenato delle moderne frittelle, ma la strada per arrivare al nostro dolce carnevalesco è ancora molto lunga e passa per il mondo arabo.
Nella seconda metà dell’XI secolo visse a Bagdad un personaggio, nato cristiano e convertitosi all’Islam, dal nome molto lungo ma conosciuto in Europa con il nome di Jazla, autore di diversi trattati, uno dei quali tradotto nel 1280 in latino dal medico ebreo siciliano Faraj ibn Sālim, si intitola “Tacuinum aegritudinum et morborum”. Jazla scrisse poi un trattato enorme, una vera enciclopedia, il cui titolo in italiano suona così: “Cammino della spiegazione di tutto ciò che l’uomo utilizza”. Fra le ricette, molte di origine persiana, contenute nelle sue opere ci sono anche due specialità che ci interessano: la Zelabia e la Zelabia alia (cioè “un’altra zelabia”).
Che cosa fossero queste Zelabia ce lo spiega Giambonino da Cremona, vissuto nel 1200, del quale si sa che era medico e buongustaio, forse attivo all’Università di Padova, il quale scrisse qui a Venezia un trattatello intitolato “Liber de ferculis et condimentis” (“Libro di cucina e condimenti” o anche “Libro di piatti conditi”), traducendo in latino dall’arabo una serie di ricette del già ricordato Jazla, con anche delle modifiche e aggiunte secondo la sua cultura veneziana.
In questo trattatello, da poco pubblicato, eccolo, ce l’ho qui, ci sono due ricette che ora vi leggo:
La prima recita così: “Zelebia è migliore delle mandorle confette e di chataiff; ed è digeribile ed è giovevole alla tosse umida ed è anche buona per il petto e per i polmoni, e riscalda un poco e il suo danno si rimuove con melograne o con uno scippo agro, e provoca vapori nei condotti del fegato. E si fa così: lavora ovvero impasta bene una pastella – e falla con il lievito – e dividila in porzioni gettandola con un cucchiaio in una padella dove ci sia olio o strutto, e friggila bene e poi mettila in un recipiente dove ci sia miele, e dai a chi vuoi.”
L’altra dice così: “Zelebia alia cioè un’altra e si chiama zelebia ripiena. E si fa così: prendi la pasta e lavorala con il latte e fai con essa focacce o frittelle, e impastaci dentro mandorle pestate e zucchero e un poco di canfora e fai cuocere in olio disamini [di sesamo] o altro olio o strutto; poi metti nel giulebbe e servi.”
Il Liber di Giambonino e comunque il suo contenuto, era ben noto a Venezia, per cui a nella nostra città si venne a conoscere già allora la cucina arabo-persiana e la prima ricetta che vi ho letto, cioè le frittelle, era perciò, grazie a Giambonino, conosciuta dai veneziani, così come dalla Zelebia alia derivarono in Campania le Zeppole di San Giuseppe e quelle Ischetane.
La diffusione delle frittelle, secondo la ricetta riportata da Giambonino, sembra fosse limitata all’area veneziana anche perché il prezioso ricettario scritto dal grande Maestro Martino de Rossi verso la metà del ‘400 e poi ripreso dal Platina, pur dedicando quasi l’intero capitolo quinto alle frittelle, non ci dà la ricetta che conosciamo. Si ritiene che Maestro Martino abbia iniziato la professione a Napoli, per passare poi a Roma, cuoco del Cardinale camerlengo Lodovico Trevisana, per concludere la carriera probabilmente a Milano. Martino ci ha lasciato venti ricette di frittelle: coi fiori di sambuco, col formaggio come quelle di Catone, di riso, di salvia, di mele, di foglie di lauro, di mandorle e carne di gallina. Poi ci sono le frittelle per la Quaresima, quindi di magro, con le erbe amare, col riso, ancora coi fiori di sambuco, con le mele, coi fichi secchi, col pesce e così via. C’è tuttavia una ricetta che può avvicinarsi alle nostre frittelle, le “frittelle di ciochate”, che a farina, albume d’uovo, zucchero, acqua di rose vi aggiunge latte e giuncata, quindi ancora sulla linea di Marco Porcio Catone. Dobbiamo dunque attendere ancora per vedere una ricetta di frittelle tutta italiana.
Intanto, nel 1527 viene stampato a Venezia un volumetto intitolato “Interpretatio arabicorum nominum” (Interpretazione di nomi arabi). L’autore è un vostro conterraneo, il medico bellunese Andrea Alpago, personaggio di straordinaria cultura, inviato da Venezia a esercitare l’arte medica presso la comunità veneziana di Bagdad. In quest’opera egli spiega diversi nomi relativi alla medicina, a prodotti vari, a cibi e specialità gastronomiche. Fra questi termini c’è “Alzelabia” e a questo aggiunge “Alzelabi” e anche “Zelabile”, e la sua spiegazione, detta in italiano, è la seguente: “Az- zilābiyà è una pietanza di pasta molto tenera a forma di luna, che viene fritta nell’olio, quindi mangiata con miele o zucchero. Molto diffuso in Egitto e in Siria [questo cibo] assai spugnoso può essere più o meno spesso o sottile nei diversi punti. Tale preparazione, di cui si parla nel libro Minhāju ‘l bayān, presso gli abitanti dell’Italia è chiamata ‘frittola’”.
Credo proprio che Andrea Alpago, vostro concittadino, ci confermi che all’inizio del ‘500 a Venezia le frittelle, anzi, come dice lui, le fritole, esistevano già, forse da quando Venezia le conobbe grazie a Giambonino tre secoli prima. Come vi ho detto, noi per farle impieghiamo anche l’uva sultanina e i pinoli, che arrivavano e arrivano ancor oggi a Venezia dal Levante, forse dai tempi della quarta Crociata, all’inizio del Duecento.”
“Questa storia proprio non la conoscevo”, esclamò Flavio. Ma neppure Giusy e Carlo la conoscevano e rimasero un po’ senza parole.
I due amici bellunesi sorseggiarono ancora un’aranciata, ringraziarono la mamma di Carlo per l’ospitalità, le frittelle e soprattutto per la storia che aveva loro raccontato, poi uscirono con Carlo per andare in piazza San Marco.
Faticarono ancora una volta ma ci arrivarono. La piazza era gremita e su un palco un’orchestra in costume suonava musiche veneziane del Settecento.
“Ho una curiosità, disse Giusy. In questa piazza ci sono centinaia di maschere. Ma sono persone in maschera o personaggi in veri costumi veneziani?”
“Sono vere entrambe le cose, le rispose Carlo. Andare in maschera a Venezia non significa vestirsi come i personaggi dei fumetti, che so, Zorro, l’uomo ragno o cose simili. Qui andare in maschera significa vestirsi come si vestivano i veneziani nei secoli passati, soprattutto dal Cinque al Settecento, quando partecipavano alle feste più importanti. Vedi quel gruppo lì a destra? Sono vestiti esattamente come dei patrizi del Settecento pronti per andare a un ballo. E quelli più in là vestiti di rosso, li vedi? Quelli sono patrizi in abiti ufficiali del Cinquecento, pronti per partecipare a una cerimonia della repubblica. Se ci avviciniamo vedrete come gli abiti dei due gruppi siano perfetti in tutti i particolari. Andare in maschera a Venezia significa vestirsi come nel passato, magari con bauta e ventaglio, per non farsi riconoscere.”
“Sto pensando, disse Giusy, che per un Carnevale così splendido e lussuoso negli abiti indossati per l’occasione, ci sono dolci semplicissimi, quasi umili, seppur carichi di storia, come le frittelle.”
“E questo ti dice che i Veneziani dei secoli passati erano molto attenti a come apparire in pubblico, erano molto festaioli e anche se abili mercanti erano sempre ben attenti ai loro affari. Ma nel mangiare anche i patrizi più ricchi sono sempre stati molto parchi se è vero che il dolce nostro più famoso è la frittella, un bocconcino dolce, che si può fare anche per strada.”
“Fra un’ora e mezza abbiamo il treno”, esclamò all’improvviso Flavio guardando l’orologio.“E allora andiamo poco più avanti, in Riva degli Schiavoni e prendiamo il vaporetto per la Stazione. Passeremo per il Canalgrande e vedremo sulle rive tante altre maschere, oltre ai palazzi sontuosi degli antichi patrizi e dei mercanti più ricchi.”
Le ombre della sera stavano calando sulla città, ma il Carnevale, anziché diminuire, stava impazzendo. Dalla stazione ferroviaria uscivano a frotte nuovi gruppi mascherati. Per loro il Carnevale cominciava al tramonto e sarebbe continuato per buona parte della notte.
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