E lo fanno con orgoglio, nei campus e nelle capitali di tutto il mondo
Lo scorso 7 ottobre, Hamas ha scatenato un feroce assalto al sud di Israele. I predatori erano assassini, rapitori e stupratori che hanno agito indiscriminatamente. La sanguinosa frenesia che li animava ha preso di mira chiunque si trovasse sul loro cammino: neonati, lavoratori thailandesi, arabi israeliani, beduini, anziani, bambini con bisogni speciali e, ovviamente, ebrei israeliani. In modo particolare, non hanno lesinato le angherie nei confronti delle donne, trucidandole, violentandole, recidendo il grembo delle donne incinte per asportarne i feti, torturando madri e nonne di fronte alle famiglie di appartenenza e, molti temono, schiavizzando sessualmente le donne prese in ostaggio. Il mondo è stato testimone di queste perversioni poiché i criminali le hanno filmate con fierezza, inducendo quindi i palestinesi e i progressisti filo-palestinesi a diffonderle sui social media. Questa seconda violenza contro la dignità delle vittime, sferrata mediante mezzi digitali e tramite GoPro, ha reso tale orgia di misoginia una delle aggressioni verso le donne più sanguinose e pubblicizzate della storia.
Ciononostante, a più di tre settimane di distanza, la comunità femminista resta in silenzio. Nel maggio 2021, pochi giorni dopo il contrattacco di Israele per legittima difesa contro l’ennesimo bombardamento di Hamas, oltre 120 dipartimenti di studi di genere denunciarono lo Stato ebraico. Dichiarando che “la giustizia è indivisibile”, proclamarono che il loro impegno era “volto a una visione femminista inclusiva”, secondo la Dichiarazione di solidarietà del 2015 della National Women’s Studies Association “che contesta le violazioni dei diritti civili e della normativa internazionale sui diritti umani”. L’appello risultò talmente popolare che il Collettivo Femminista Palestinese chiese di essere pazienti. “Si precisa che, a causa del macroscopico riscontro, registriamo i nomi dei sottoscrittori soltanto due volte al giorno. Vi preghiamo di pazientare perché siamo al limite delle nostre capacità”.
Nell’attuale frangente, ancorché abbiano assistito al culto dello stupro da parte di Hamas, nessun dipartimento di studi di genere ha difeso neanche una singola donna vittimizzata. Da tempo le femministe ci hanno insegnato a credere all’accusatore e a non incolpare la vittima. Per anni, i progressisti hanno insistito, negli articoli accademici, stampandolo su magliette e persino su tazze da caffè, sul fatto che quando si combatte l’oppressione “il silenzio è consenso”, o addirittura che “il silenzio è violenza ”. Il 7 ottobre, le donne violentate hanno gridato, urlato, pianto, implorato, stupro dopo stupro, taglio dopo taglio, respingendo gli abusi con la voce e a mani nude come meglio potevano. Alcune donne in ostaggio potrebbero stare tuttora lottando. Al contrario, in violazione di ogni principio del femminismo che abbia mai letto e rispettato, l’odierno movimento femminista sta violentemente e silenziosamente accondiscendendo a questo crimine di massa perpetrato contro le donne e contro le vittime provenienti da tre dozzine di Paesi diversi. Alcuni addirittura mettono in dubbio le testimonianze e le prove sconcertanti, sanguinose e strazianti delle donne denudate fatte sfilare per le strade di Gaza. Derubare qualcuno della sua storia è un reato secondario, ma comunque imperdonabile.
Se la giustizia è indivisibile, queste donne meritano giustizia – e anche empatia – indipendentemente dal fatto che Israele piaccia, che lo si detesti e si detestino le sue politiche. Se la cultura dello stupro non è mai AMMISSIBILE, tutte le persone civili dovrebbero rigettare il godimento di tanti palestinesi e progressisti nel diffondere tali video e nell’esultare per questi crimini. Nel loro silenzio, la maggior parte delle più importanti femministe sono diventate complici, aiutando e favorendo questo tentativo di massa di disumanizzare le donne solo perché sono ebree o perché quel giorno si trovavano al confine con Gaza.
“Violando ogni principio del femminismo che abbia mai letto e rispettato, l’odierno movimento femminista sta violentemente e silenziosamente accettando questo crimine di massa perpetrato contro le donne”.
Al di là dell’assoluta crudeltà e dell’insondabile portata di sofferenza, questi crimini hanno sconvolto molte persone, ebrei e non ebrei allo stesso modo, che vi hanno ravvisato il pervertito pedigree dei barbari. Lo scorso 18 ottobre, il presidente Joe Biden ne ha colto l’impatto storico, affermando che quando quella “festività ebraica si è trasformata nel giorno più letale per il popolo ebraico dai tempi della Shoah”, ciò ha “fatto riemergere angosciosi ricordi e cicatrici impressi da millenni di antisemitismo e dall’Olocausto del popolo ebraico”. Ha aggiunto: “Allora il mondo guardava, sapeva e non ha fatto nulla. Noi non staremo ancora a guardare senza fare nulla. Né oggi, né domani, né mai”.
Sicuramente, questi crimini hanno riecheggiato gli stermini di massa e le aggressioni sessuali perpetrati dai nazisti durante la Shoah, che gli arabi perpetrarono contro i loro vicini ebrei durante il massacro di Hebron del 1929, che i cosacchi perpetrarono su così tanti ebrei durante i pogrom e che, nel corso dei millenni, innumerevoli antisemiti perpetrarono contro le donne ebree, a prescindere da quanto giovani o anziane.
Prendendo di mira le donne, i colpevoli di questa violenza di genere vogliono doppiamente disumanizzarle. Cercano di privare le donne ebree della dignità abusando di loro in modi indicibili. E cercano di umiliare gli uomini ebrei, trattandoli alla stregua di individui talmente deboli da non essere nemmeno in grado di difendere le proprie donne e i propri figli.
Dopo aver sentito per tre settimane come questi sadici saturnali abbiano “esaltato” troppi progressisti, a coloro che sono legittimamente inorriditi da tali favoreggiatori del male viene ora detto che i peggiori abusi non sono mai accaduti. Di nuovo, l’ipocrisia è scioccante. Le femministe insegnano che negare la violenza sessuale ne intensifica il trauma, cancellando per l’ennesima volta lo stato di persona della vittima. In ogni modo, alcune femministe stanno mettendo in discussione questi avvenimenti, forse perché non vogliono mettere in discussione il proprio cieco sostegno alla causa palestinese. Vogliono negare le foto e i video spregevoli, i rapporti degli ufficiali dell’IDF , dei patologi e dei volontari negli obitori sovraccarichi, o le testimonianze dei criminali di Hamas catturati che descrivono “rapporti sessuali con cadaveri, vale a dire con il corpo di giovani donne morte” poiché l’obiettivo era “insudiciarle, violentarle”.
Gli orrori del 7 ottobre sono stati a tal punto inquietanti che il tipico umorismo macabro degli israeliani ne è risultato attenuato. La prima battuta che ho sentito, tuttavia, è tragicamente pertinente: se il cosiddetto gaslighting significa spingerti a negare di aver detto ciò che hai detto… il Gaza-lighting significa negare che tu abbia fatto ciò che hai fatto, dopo averlo reso pubblico in lungo e in largo al mondo.
Benché non giudichi le persone che, per condividere il dolore delle vittime, hanno guardato questi filmati, mi sono rifiutato di guardare i video di eccidi e stupri. Non intendo collaborare a tale processo di disumanizzazione. Coloro che ancora dubitano possono diffusamente trovare rilevanti prove qui, qui, qui e qui.
Il fatto che poche femministe, in particolare le docenti di studi di genere, abbiano denunciato questo male familiare eppure deplorevole, rivela un lato oscuro nel profondo del loro animo. Ciò è parte di un più ampio scandalo nell’ambito dell’istruzione superiore che adesso alcuni stanno, tardivamente, iniziando a riconoscere. Chiamateli i frutti velenosi degli atenei dell’Ivy League. Per anni, le università più elitarie d’America hanno coltivato una generazione di maniaci dell’ingiustizia, dividendo il mondo tra “gli oppressi” che sono senza macchia in ogni occasione, e “gli oppressori” che sono colpevoli all’infinito. Coloro che sono ritenuti “oppressori”, sono spesso accusati di godere di “privilegi”, nonostante il fatto che gli studenti radicali, gli estirpatori di voti migliori che li stigmatizzano, cenino al ristorante con l’AmEx Nera dei genitori, paghino rette universitarie da 70.000 dollari e volenti o nolenti non si considerino neppure “privilegiati”.
Dal 7 ottobre, per mettere a tacere la condanna del massacro disumano, tali fanatici sono emersi quali jihadisti dell’Ivy League, facendo leva sull’etichetta palestinese come emblema del popolo più oppresso e senza macchia del mondo, che soffre per le iniquità del colonialismo sionista.
Dato l’impegno dichiarato degli studi di genere nello sradicare la cultura dello stupro, con il suo silenzio e scetticismo, la sua colpevolizzazione e umiliazione delle vittime, la cecità femminista nei confronti di questi crimini è particolarmente oltraggiosa. Ma tale violazione indica anche uno scandalo più profondo ed endemico che il movimento femminista ha soppresso, ovvero l’istintiva avversione di molte femministe radicali verso le donne ebree e le questioni ebraiche.
Sebbene molte ebree abbiano contribuito a dare origine al movimento delle donne, il femminismo ha da tempo un problema ebraico. Da Betty Friedan a Bella Abzug, le donne ebree sono state tra le forze trainanti più visibili del femminismo americano, anche se le femministe spesso rendevano invisibili le loro sfide specifiche in quanto donne ebree che affrontavano il sessismo e l’antisemitismo.
Nel giugno 1982, Letty Cottin Pogrebin, co-direttrice e co-fondatrice della rivista Ms., intervistò 80 femministe sulla loro esperienza in quanto ebree all’interno del movimento. Il suo articolo esplosivo Anti-Semitism in the Women’s Movement anticipava l’attuale ipocrisia. Colpita dall’“invisibilità” delle questioni ebraiche, notando come “la litania femminista degli ‘oppressi’” omettesse gli ebrei, Pogrebin sfidò le consorelle. “Quando l’antisemitismo si è trasformato in una ‘questione imparziale’?”, si domandava. L’opposto di essere contro l’antisemitismo, rimarcava, non è essere filo-palestinesi, ma essere “a favore dell’odio verso gli ebrei”. E perché, chiedeva, qualcuno dovrebbe aspettarsi che Israele “si suicidi per il bene della ‘liberazione’ palestinese?”.
Pogrebin in seguito ricordò di essersi resa conto che: “per le femministe che odiano Israele, non ero una donna, ero una donna ebrea”. Oggi, 41 anni dopo, per le femministe che odiano Israele, le donne prese di mira da Hamas non sono donne, ma semplicemente ebree – o subumane – indegne di solidarietà.
L’autrice femminista Elenor Lester raccontò a Pogrebin di essere rimasta sbalordita quando una compagna femminista urlò: “Golda Meir non è mia sorella, è una fascista”. Lester comunque sfuggì al trauma, dichiarando: “Facendo di Israele un sostituto machista e imperialista per conto di tutta la supremazia maschile mondiale, il movimento femminista mi ha gettato tra le braccia dell’ebraismo”.
Anche Pogrebin proseguì la propria esperienza di un profondo percorso ebraico, dopo essersi chiesta: “Perché essere ebrea per loro se non sono ebrea per me stessa?”. Molte femministe vissero simili momenti à la Theodor Herzl, scoprendo, con il fondatore del sionismo, che l’antisemitismo può creare l’ebreo, ma è più appagante per l’ebreo stesso forgiare la propria identità ebraica.
Potremmo indulgere alla superficialità e definire tale insensibilità nei confronti degli ebrei – e il silenzio sul patriarcato palestinese e sui delitti d’onore – come “stallo nell’intersezionalità”. Ahimè, esiste un termine più antico e migliore per tali invisibilità, indifferenza, disumanizzazione delle donne ebree e bigottismo al vetriolo. Si chiama antisemitismo.
*Il prof. Gil Troy, Senior Fellow di Pensiero sionista presso il Jewish People Policy Institute (JPPI), think tank mondiale del popolo ebraico, è uno storico delle presidenze americane e, più recentemente, ha curato la trilogia Theodor Herzl: Zionist Writings, pubblicazione inaugurale della Library of the Jewish People.