Milka Ventura Avanzinelli
Storia delle donne, 8(2012), pp. 51 – 2173-144 – ISSN 1826-7505 ©2012 Firenze University Press
All’inizio degli anni ’90 Daniel Boyarin affermava che, impedendo alle donne lo studio istituzionale dei testi religiosi e riservandose ne praticamente il monopolio, gli uomini ebrei di epoca talmudica si sono arrogati «un potere tremendo»,[1] dando luogo a uno slittamento culturale che rispondeva a due necessità impellenti: da un lato proteggere il capitale culturale –e quindi il potere– degli uomini da una possibile appropriazione da parte delle donne, dall’altro garantirsi il controllo della sessualità delle “loro” donne, nel momento in cui a quelle stesse donne si riconosceva –su base biblica– il privilegio di trasmettere l’appartenenza ebraica ai figli.[2]
Un tempo di crisi e di trasformazione
I motivi per cui queste ansie prendono corpo in quel periodo storico sono molteplici e vanno per lo più ricercati nella situazione del giudaismo dopo la distruzione del Secondo Tempio e la definitiva sconfitta di ogni velleità di autonomia nazionale (fra il 70 e il 135 dell’era volgare). È infatti fra il II e il VI secolo che prende definitivamente forma e si consolida il cosiddetto “giudaismo rabbinico”, diasporico anche in patria, che ha il suo centro non più nel Tempio (Bet ha-miqdash=casa del Santuario), ma in altri tipi di “case”: case di preghiera (batté ha-keneset), le sinagoghe; case di studio (batté ha-midrash), le scuole e le accademie (yeshivot) dove si discute e si stabilisce la normativa; case di diritto (batté din), i tribunali; ma anche le case vere e proprie, i focolari domestici, che diventano luoghi di culto e che più delle sinagoghe vanno a sostituire il culto perduto del Tempio, come si legge in un passo del Talmud Babilonese:
Rabbì Yochanan e Resh Lakish dicono entrambi «Quando c’era il Santuario era l’altare a espiare per l’uomo, adesso è la sua tavola che espia per lui».[3]
È infatti nelle case che si praticano e si tramandano gran parte delle regole che nelle accademie vengono stabilite, in particolare quelle che riguardano tre fondamentali aspetti del vivere ebraico di cui già la Mishnà affida l’onore e l’onere alle donne (elettivamente quando non esclusivamente): il prelievo della porzione d’impasto (challà) da bruciare in ricordo di quella che veniva prelevata per il sacerdote,[4] che simboleggia tutto il complesso delle norme alimentari ebraiche e quindi la responsabilità del nutrimento; le norme di purità connesse al ciclo mestruale, alla sessualità e alla riproduzione (niddà);[5] la santificazione del Sabato e delle feste nello spazio domestico (hadlaqat ha-ner).[6] C’è chi sostiene che, proprio attraverso quei tre precetti si mantenga la memoria delle norme di purità e dei riti sacrificali che si compivano nel Tempio, e che perciò, nel “tempo di mezzo” fra la distruzione e la redenzione, siano le donne a gestire l’interim.[7] Si capisce, allora, quali ansie possa suscitare l’idea che le donne siano in grado di sovrintendere autonomamente a questi aspetti, o peggio ancora che possano intervenire a pieno titolo a stabilire la normativa che li disciplina. La decisione che prevale, quindi, è quella di “esimerle” dallo studio approfondito della Torà scritta e orale,[8] e soprattutto di impedirne l’accesso alle yeshivot dove si coltivano quegli studi; una decisione che vuole anche scongiurare qualunque rischio di promiscuità ed evitare che le donne sconfinino in quello spazio pubblico da cui tutta la società del tempo le vuole escluse.
Ma se l’inaccessibilità delle scuole e delle accademie, rigorosamente riservate ad allievi maschi, sembra un dato di fatto già al tempo della loro istituzione, la decisione di proibire alle “figlie” lo studio si afferma tardi, a fatica e non senza contraddizioni ed eccezioni,[9] anche perché il fondamento scritturale su cui si basa è estremamente fragile. Proviamo a ripercorrerne l’iter.
Le basi testuali della esclusione
Il passo mishnico da cui parte tutta l’argomentazione di chi sostiene che una donna non dovrebbe studiare la Torà si trova nel trattato Sotà, dove si riporta una discussione (del tutto teorica) sulla donna sospettata d’infedeltà che affronta la prova delle acque amare.[10] Le opinioni riportate sono tre: quella di Ben `Azzai, quella di Rabbi Eli`ezer e quella di Rabbi Yehoshua`:
Se lei ha qualche merito, questo le sospende (la punizione): alcuni meriti sospendono (la punizione) per un anno, alcuni meriti sospendono per due anni, alcuni meriti sospendono per tre anni. Sulla base di ciò Ben `Azzai dice: «Un uomo deve insegnare Torà alla propria figlia, perché se berrà saprà che è il merito che le sospende la punizione».
Rabbi Eli`ezer dice: «Chiunque insegni Torà a sua figlia è come se le insegnasse leggerezza [tiflut]». R. Yehoshua` dice: «La donna preferisce un qav [=una misura di nutrimento] e leggerezza [tiflut]), a nove qabbim [misure] e morigeratezza [perishut]». Egli era solito dire: «Un santo sciocco [chasid shoté], un malvagio furbo [rasha` `arum], una donna morigerata [ishà perushà], e le autoflagellazioni dei farisei [makkot perushin], distruggono il mondo».[11]
Per capire che cosa intendono dire i tre personaggi citati, bisogna specificare le varie sfumature di significato di alcune parole: tiflut, tradotto qui con “leggerezza”, ha anche il senso di “impudicizia”[12] e Rabbi Yehoshua`, pur senza dare una connotazione negativa al termine, lo usa per indicare proprio la soddisfazione sessuale, quando dice che una donna preferisce pochi beni materiali ma con tiflut, rispetto a una vita agiata ma di astinenza. La stessa accezione, ma in negativo, ha anche nella frase di Rabbi Eli`ezer, preoccupato che la conoscenza della Torà e del merito che si acquisisce studiandola possa indurre le donne a un comportamento immorale e licenzioso. Più difficile è capire che cosa intenda dire Ben `Azzai: vuole davvero che si insegni alle donne come superare la prova anche se sono infedeli? O vuole forse insegnare che, nel caso –molto probabile, vista la sostanziale inoffensività dell’acqua “amara”– che non succeda niente di terribile, le donne non pensino di aver “gabbato lo santo”, ma sappiano di averla scampata solo per i meriti acquisiti? Senza escludere che Ben `Azzai si preoccupi semplicemente di proteggere le figlie d’Israele da questa prova umiliante, la seconda ipotesi mi sembra più plausibile, visto l’atteggiamento razionale dei Maestri e il loro imbarazzo verso questo rituale arcaico che viene infatti definitivamente abolito con Yochanan ben Zakkai (I sec. e.v.).[13] L’altra radice su cui tutto il passo gioca è quella da cui deriva anche il termine “farisei”, che qui è usata sia per la “morigeratezza”, nel senso di scarsità di rapporti sessuali, sia per la donna che affetta astinenza, ma con un doppio significato che una nota del Castiglioni mette bene in evidenza: «Puritana rispetto al marito; secondo altri farisaica, saccente».[14]
Come fa notare Rabbi Moshe Weinberg, qui l’unico che pone una questione in termini “normativi” è proprio Ben `Azzai, mentre gli altri due si limitano a esprimere dei giudizi.[15] Si potrebbe addirittura pensare che la posizione di Ben `Azzai sia quella che la Mishnà riporta in termini più “simpatetici”, visto anche che Ben `Azzai è sempre presentato come un personaggio di grande spiritualità (non a caso fa parte del famoso quartetto di saggi che ebbero il privilegio di entrare nel giardino mistico),[16] mentre Rabbi Eli`ezer ben Hyrcanus, le cui posizioni sono raramente accolte, è figura molto controversa[17] –benché considerato fra i grandi– ed è apertamente criticato per la sua feroce misoginia nel Talmud Palestinese, dove si riporta un episodio in cui la sua avversione contro l’insegnamento della Torà alle donne viene biasimata dal figlio e dai discepoli:
Una nobildonna romana chiese a R. La`zar [Eli`ezer]: «Come mai, se soltanto un peccato fu commesso in relazione al vitello d’oro, quelli che morirono subirono tre tipi di esecuzione capitale?». Egli le disse: «Le donne non hanno sapienza se non per i lavori manuali, perché è scritto: “E tutte le donne sapienti filarono con le loro mani” (Esodo 35,25)». Gli disse Hyrcanus suo figlio: «Così, per non portarle un solo insegnamento della Torà, ci abbiamo rimesso trecento kor di decima all’anno». Lui gli disse: «Meglio che gli insegnamenti della Torà siano bruciati, piuttosto che affidarli alle donne». Quando la donna fu uscita, i suoi discepoli gli dissero: «Maestro, questa l’hai cacciata via. A noi che cosa porterai?».[18]
E tuttavia è proprio l’opinione di Rabbi Eli`ezer quella che alla fine prevale, almeno nel Talmud babilonese, anche se il passo su cui i successivi codificatori basano quella conclusione è a sua volta estremamente ambiguo. Il commento (o ghemarà) babilonese parte dal principio che le donne non sono “obbligate” a studiare la Torà, per sostenere che alla donna vada riconosciuto il merito dello studio anche se non lo adempie personalmente:
Ravina diceva: «Certamente si tratta del merito dell[o studio dell] a Torà [se l’acqua sospende il suo effetto]; e se tu sostenessi che lei è fra quelli ai quali non è prescritto [il precetto dello studio] e lo adempie, [ti si potrebbe rispondere:] ammesso che alle donne non è prescritto, tuttavia, quando hanno fatto imparare ai figli la Scrittura e la Mishnà e hanno aspettato i loro mariti fino a che sono tornati dalla Casa di studio, non dovrebbero forse partecipare ai loro meriti?».[19]
Ma poco più avanti un diverso commento a quello stesso passo mishnico introduce uno spunto più suggestivo –e a mio avviso estremamente “aperto” a diverse interpretazioni– quando spiega che il termine tiflut si deve interpretare in base a un passo dei Proverbi dove un suo sinonimo (`ormà) ha una valenza semantica che va dalla prudentia all’impudenza, dalla sagacia alla malizia, ma richiama anche la “nudità”, com’è evidente dal gioco interpretativo basato sull’assonanza dei due termini. La ghemarà parte dal bisogno di motivare e giustificare l’affermazione di Rabbi Eli`ezer, che evidentemente suonava scandalosa:
CHIUNQUE INSEGNA A SUA FIGLIA LA TORÀ, LE INSEGNA TIFLUT. Puoi forse pensare che [la Torà sia] tiflut (impudicizia, oscenità)? Leggi piuttosto «è come se le avesse insegnato tiflut». Dice Rabbi Abbahu: «Qual è l’argomento di Rabbi Eli`ezer? Che è scritto: “Io, la Sapienza, ho fatto della sagacia/nudità (`ormà) la mia dimora” (Proverbi 8,12), cioè, quando la Sapienza entra in un uomo, entra in lui la sottigliezza (`armumit).»[20] E che cosa fanno i Maestri [contrari all’opinione di Eli`ezer] con il versetto «Io, la Sapienza…»? Spiegano quelle parole secondo l’insegnamento di Rabbi Yosè ben Chaninà [il quale] diceva: «Le parole della Torà rimangono solo con colui che si rende nudo (`arum) per loro; come è detto: “Io, la Sapienza, ho fatto della nudità/sagacia la mia dimora”». Rabbi Yochanan diceva: «Le parole della Torà restano solo con chi rende se stesso come niente, come è scritto: “La Sapienza si troverà dal niente” (Giobbe 28,12)».[21]
A una lettura non prevenuta sembra proprio che, se la prima proposta cerca di mitigare l’affermazione di Rabbi Eli`ezer, i Maestri (rabbanan, un termine che spesso indica l’opinione della maggioranza) contrari alla sua opinione smontano anche quella che Abbahu portava come sua legittimazione biblica, connettendo tiflut della Mishnà a `ormà dei Proverbi e leggendo `ormà nel senso di “sottigliezza” o “malizia” con un’accezione negativa. Giocando sulla somiglianza fra `arum (prudente, furbo, tagliente, malizioso, pole mico) e `arom (spogliato, nudo), i Maestri contrappongono a Rab bi Eli`ezer una visione “alta” della nudità –nudità come capacità di spogliarsi di qualunque difesa, presunzione o preconcetto– e in questo modo implicitamente spingono a rivedere anche la connotazione negativa che al termine tiflut dava Rabbi Eli`ezer.
L’indicazione che si può trarre da tutta questa discussione è che la conoscenza della Torà non deve diventare motivo di superbia, né per gli uomini né tanto meno per le donne (personalmente ci sento anche una velata polemica contro l’uso esasperato del pilpul, il metodo di analisi rabbinico basato sulla disputa dialettica). Ma in tutto il Talmud non si trova l’affermazione che alle donne sia “proibito” studiare.[22] Si trova invece, più volte ribadita nei testi rabbinici, l’idea che le donne non siano tenute a farlo, sebbene il precetto non rientri in quelli “legati al tempo” –cioè che vanno compiuti in un momento preciso– da cui le donne sono generalmente esentate:
Di tutti i precetti positivi che dipendono dal tempo, gli uomini hanno l’obbligo e le donne sono esentate. Di tutti i precetti positivi che non dipendono dal tempo, hanno l’obbligo tanto gli uomini quanto le donne. Di tutti i precetti negativi, che dipendano o non dipendano dal tempo, hanno l’obbligo tanto gli uomini quanto le donne.[23]
In realtà, dagli esempi e dalle eccezioni portati nella Tosefta e nei due talmudim,[24] si deduce che «non c’era alcuna norma operativa che proibisse la partecipazione delle donne all’esecuzione dei comandamenti» e che la halakhà rifletteva piuttosto la consuetudine.[25] Il principio che esenta la donna dai precetti positivi legati a un tempo definito è probabilmente stabilito a posteriori, sia per cercare di spiegare e regolamentare una realtà in cui le donne non osservavano alcuni precetti sia per evitare che la prescrittività di certi precetti potesse mettere in discussione l’autorità maritale.[26] Ne sono testimonianza le numerose eccezioni al principio generale, alcune delle quali riguardano mitzwot centrali che però esulano dall’universo domestico in cui si svolge il ruolo della donna e vanno a investire lo spazio pubblico riservato agli uomini;[27] una di queste è appunto lo studio/insegnamento della Torà, precetto non legato al tempo e tuttavia “risparmiato” alle donne. Su questo tema specifico il Talmud babilonese utilizza un passo del Deuteronomio per chiarire che alle figlie non si deve insegnare, ponendo così le basi per il mutamento di quella che era semplicemente una “esenzione” in una pratica di vera e propria “esclusione”.[28] Commentando la Mishnà appena citata, che si apriva con l’affermazione «Di tutti i precetti che ricadono sul padre nei confronti del figlio, gli uomini hanno l’obbligo e le donne sono esentate», la ghemarà spiega che uno di questi precetti è appunto «insegnargli la Torà»:
da dove lo deduciamo? Dal fatto che è scritto: «E le insegnerete ai vostri figli» (Deuteronomio 11,19). Da dove sappiamo che lei [la madre] non ha l’obbligo [di insegnarla ai figli]? Dal fatto che è scritto «e le insegnerete» che può essere letto anche «e le studierete».[29] Chi è obbligato a studiare, è obbligato anche a insegnare. Chi non è obbligato a studiare, non è obbligato nemmeno a insegnare. E da dove impariamo che lei non è tenuta a insegnare a se stessa? […] Colui a cui gli altri sono obbligati a insegnare è obbligato a insegnare a se stesso; e colui a cui gli altri non sono obbligati a insegnare non è tenuto ad insegnare a se stesso. Come sappiamo quindi che gli altri non sono obbligati a insegnarle? Perché è scritto: «E le insegnerete ai vostri figli», ma non alle vostre figlie […] Dal versetto «E le insegnerete ai vostri figli» imparo solo [l’obbligo di insegnarle] ai figli. Da dove imparo ai figli dei figli? Dal versetto «e le farai conoscere a tuo figlio e ai figli di tuo figlio» (Deuteronomio 4,9). Ma se è così, perché è specificato «ai vostri figli»? Per insegnare [che l’obbligo si riferisce] ai vostri figli ma non alle vostre figlie.[30]
Un aneddoto che il Talmud palestinese e altri testi riprendono dalla Tosefta cerca di conciliare la palese contraddizione fra questo atteggia mento e il precetto biblico chiaramente espresso in Deuteronomio 31,12:
Convoca il popolo, uomini, donne e bambini e il forestiero che abita nelle tue città, affinché ascoltino, imparino e temano il Signore vostro Dio e osservino, per attuarle, tutte le parole di questa Torà.
Il testo della Tosefta, che racconta di una visita fatta da due rabbini a Rabbi Yehoshua` di Peqi`in, riporta un insegnamento di Rabbi El`azar ben `Azaryà che, a commento di questo passo, opera un’arbitraria distinzione fra i primi due di cinque verbi strettamente uniti nel testo in una sequenza stringente (ascoltino, imparino, temano, osservino, mettano in pratica) distribuendoli secondo un criterio di genere: «Dato che gli uomini vengono per “studiare” e le donne per “ascoltare”, perché dovrebbero venire i bambini? Proprio per procurare merito a coloro che li portano».[31] E il Talmud aggiunge: «L’opinione di R. El`azar non si accorda con l’opinione di Ben `Azzai, perché ci è stato insegnato: “Sulla base di ciò Ben `Azzai dice: Ogni uomo deve insegnare Torà alla propria figlia [etc.]” (mSotà 3,4)».[32]
È da notare che l’opinione di Ben `Azzai, che in questi testi palestinesi viene di nuovo citata, non era stata degnata di alcun commento nel trattato Sotà del Talmud babilonese. La differenza di atteggiamento fra i due talmudim è una ulteriore dimostrazione della diversità di opinioni sul tema dello studio delle donne. Secondo Boyarin è infatti solo nel contesto della diaspora babilonese del VI secolo e.v. che finisce per prevalere la tendenza ad alterare e sminuire le testimonianze di un atteggiamento favorevole allo studio delle donne, mentre in area palestinese, dove il Talmud si chiude nel IV e.v. senza una vera e propria linea redazionale unitaria, sembra in vece che una voce di minoranza in proposito possa essere tollerata e riportata senza particolari problemi.[33] Una ulteriore dimostrazione viene da un testo della Tosefta in cui si autorizzano espressamente le donne, anche le mestruate e le puerpere, a «leggere la Torà, studiare la Mishnà, il midrash, le halakhot e le aggadot».[34]
Commentatori medioevali e di età moderna
È comunque solo nelle codificazioni medioevali che l’esclusione delle donne dallo studio della Torà, e in particolare da quello della Torà orale, viene sancito, anche attraverso la citazione della opinione di Rabbi Eli`ezer come se fosse la posizione unanime dei Maestri; come fa Maimonide, il cui responso è comunque –ancora una volta– tutt’altro che univoco e incontrovertibile:[35]
Una donna che studia Torà [di sua iniziativa] ne ha ricompensa, ma non la stessa ricompensa di un uomo, perché non ne ha l’obbligo, e chiunque fa ciò che non gli è prescritto non riceve la stessa ricompensa di chi è obbligato ma solo una inferiore. Tuttavia, sebbene riceva una ricompensa, i Maestri hanno prescritto che un uomo non deve insegnare la Torà alla propria figlia. [Questo] perché la mente della maggioranza delle donne non è predisposta allo studio e trasformerebbero le parole della Torà in parole di nonsenso, secondo la loro limitata capacità di comprensione. I nostri Maestri dicevano: «chiunque insegna la Torà alla propria figlia è come se le avesse insegnato tiflut». A che cosa si riferivano? Alla Torà orale. Tuttavia, la Torà scritta non dovrebbe esserle insegnata di buon inizio (lekhatchilà), ma se gliel’ha insegnata non è come se le avesse insegnato tiflut.[36]
È evidente che non si poteva generalizzare, stanti i vari esempi di donne studiose e perfino maestre di Torà attestati sia nel Talmud sia nel mondo ebraico medioevale,[37] e allora si cercava di limitare la possibilità di studiare per le donne sulla base della eccezionalità, di distinguere fra Torà scritta e Torà orale e soprattutto –come risulta evidente dai commenti successivi ai testi del Maimonide e di Yosef Caro– di separare il necessario apprendimento strumentale, finalizzato alla messa in pratica delle mitzwot, dal più problematico studio approfondito, dialettico, per indagarne e capirne le ragioni e i significati profondi.[38] È infatti innegabile che le donne dovessero avere –e di fatto avessero–[39] la conoscenza “pratica” dei precetti che erano tenute ad eseguire, e che in certi campi la loro “sapienza” superasse quella degli uomini;[40] ma contro la possibilità che potessero appropriarsi degli strumenti teorici di analisi –e quindi della capacità di decisione normativa– si utilizzava l’argomento della loro fragilità o instabilità mentale, della «limitata capacità di comprensione» (Maimonide) o del «carattere emotivo» ed «essenzialmente romantico» (Rashi),[41] se non addirittura licenzioso. È esemplare di questa tendenza la “leggenda” (forse medioevale) volta a gettare discredito e infamia sulla figura talmudica di Berurià, più volte menzionata per la sua sapienza anche in materia di halakhà.[42] E tuttavia lo stesso Rashi, privo di figli maschi, è noto per aver insegnato alle sue figlie Torà e Talmud, e si sa che altre donne di famiglie “dotte” studiavano e insegnavano,[43] in casi eccezionali perfino nelle yeshivot paterne, come quella di Shemuel ben Ali di Baghdad nel XII secolo, dove la figlia, «esperta nella Scrittura e nel Talmud», insegnava agli studenti attraverso una finestra in modo da non essere vista.[44] A fronte di una tradizione testuale non univoca, dunque, la decisione di escludere le donne dallo studio si afferma in base alla cultura dominante del tempo e viene ratificata nei codici normativi medioevali e rinascimentali e poi dai poskim (decisori) dei secoli successivi, che sempre di più codificano la differenza fra lo studio “pratico” (permesso e spesso favorito) e quello “teorico”, approfondito e sistematico (negato).[45] Ma le voci dissidenti restano vive. Negli stessi anni in cui si pubblica a Venezia lo Shulchan `arukh,[46] che sancisce l’esclusione citando il Maimonide, il giovane Samuele Archivolti propone una prospettiva diversa nel suo epistolario.[47] Anche se, ancora una volta, ribadisce il carattere “eccezionale” –quasi uno spirito originario “maschile”– della donna a cui si concede di studiare, Archivolti riconosce che
le donne il cui animo è ben disposto ad avvicinarsi all’opera regale, all’opera divina, e che hanno scelto il bene in quanto tale, esse sì che sono degne di salire sul monte del Signore e risiedere nel luogo a Lui sacro. Donne esemplari infatti esse sono. E i saggi e la loro generazione devono onorarle, celebrarle, predisporle, rafforzare le loro mani e dare vigore alle loro braccia, stare al loro fianco e fortificarle. E così facendo si può dire che due vantaggi ne deriveranno, perché esse saranno anche fonte d’insegnamento per gli uomini […].[48]
Ancora più significativo è che Archivolti affermi:
la difficoltà insita nel detto dei nostri maestri, di benedetta memoria, secondo cui chi insegna Torà a sua figlia è come se le insegnasse stoltezza, non è rilevante: infatti, mentre la donna è evidentemente presente, non vedo però l’obiezione.[49]
Per Archivolti la discriminante è che si accerti l’indole della donna e la sua determinazione (adulta) a occuparsi di Torà «con purezza», ma in tutta la sua lettera si percepisce l’idea che i tempi sono cambiati e che quell’affermazione era determinata da certe condi zioni e può quindi essere rivista.
Sviluppi recenti
Proprio sull’assunto che il cristallizzarsi della normativa sia stato condizionato dalla cultura dominante nel tempo, ma senza una solida base nei testi della Torà scritta e orale, si è mosso il movimento del femminismo ortodosso per mettere in discussione l’universalità di quella regola “dall’interno” della tradizione e –senza traumatici rivolgimenti– indurne un cambiamento in mutate condizioni culturali e sociali.
Non potendo affrontare le trasformazioni avvenute nelle varie correnti dell’ebraismo nell’ultimo secolo, mi limiterò a prendere in considerazione il solo ebraismo ortodosso,[50] per il quale ogni cambiamento deve trovare la sua base all’interno del “discorso halakhico”; e anche in questo campo non potrò dare che alcuni essenziali riferimenti a quanto si sta muovendo, soprattutto in questi ultimi decenni.[51]
Nei primi decenni del ’900 si ha notizia, anche in Italia,[52] di casi sporadici di donne che accedono a studi rabbinici, pur senza conseguire i titoli che i collegi rabbinici rilasciano agli allievi maschi. È noto il caso di Regina Jonas, che nel 1930 accetta dalla Hochschule fur die Wissenschaft des Judentums di Berlino un titolo sostitutivo di insegnante di religione con formazione accademica (solo nel 1935 riceverà privatamente la Hatarat Hora’à –ordinazione rabbinica– dal rabbino liberal Max Dienemann).[53]
Ma l’evento più significativo, rispetto al “diritto allo studio” nel mondo ortodosso, si ha in Polonia, nel 1917, quando Sara Schnirer fonda il movimento delle Bet Ya`aqov –istituti per l’educazione ebraica delle fanciulle– confortata anche dalle opinioni espresse da autorevoli rabbini come il Chafetz Chayyim,[54] sempre più preoccupati che le donne, ormai libere di accedere alla cultura secolare, restassero ignoranti proprio nella cultura ebraica e si allontanassero dalla tradizione religiosa.[55] I curricula di questi istituti e di altri fondati in seguito allo stesso scopo si limitavano allo studio del testo biblico con i commenti tradizionali e agli insegnamenti etici e pratici. I primi istituti di istruzione superiore che attivano programmi e seminari rivolti alle donne sono fondamentalmente indirizzati alla formazione delle insegnanti per i gradi inferiori di insegnamento, ma con il tempo le midrashot femminili ampliano e approfondiscono sempre di più il campo degli studi, superando di gran lunga i limiti della finalità iniziale dei teachers’ seminaries.[56] Pietra dello scandalo resta, per molto tempo in ambito ortodosso, il Talmud, tuttora proibito alle donne in varie scuole ortodosse.[57] Ma negli ultimi decenni si sono aperte nuove possibilità di uno studio talmudico che non discrimina in base al genere,[58] e molte midrashot, anche se ancora riservate alle ragazze (a volte per una precisa scelta di genere), hanno inserito nei loro curricula lo studio sistematico del Talmud, anche con il metodo tradizionale della chevrutà (lo studio a coppie o in piccoli gruppi) in cui ciascuno è al tempo stesso docente e discente.[59]
Contemporaneamente, fin dai primi decenni del ’900, si moltiplicano le possibilità di condurre studi ebraici a livello accademico e sempre di più le donne si impegnano in entrambi i campi, facendo spesso da ponte fra due realtà storicamente poco conciliabili[60] ed assumendo a pieno titolo la funzione docente, mai disgiunta da quella discente nella tradizione ebraica, dove chi ha studiato è abilitato (anzi, è tenuto) a insegnare, come abbiamo visto.[61] Non si può dimenticare la figura di Nehama Leibowitz, un’ortodossa che, dottorata all’università di Marburgo, insegnò da laica (ma non da femminista) al Mizrachi Women Teachers Seminary della Tel Aviv University, in alcune yeshivot del sionismo religioso e ovunque la chiamassero a tenere conferenze e seminari. Il suo commento alla Torà e l’originale metodo di insegnamento da lei inventato e applicato anche ai corsi per corrispondenza hanno educato generazioni di ebrei in tutto il mondo.[62] Ma è negli ultimi decenni che si moltiplicano le figure di donne studiose di Torà e di Talmud che, anche in ambito ortodosso, portano avanti un approccio dichiaratamente “femminista”. Fra i molti nomi che si potrebbero citare[63] mi limito a quello di Tamar Ross, che si può definire una “Modern Orthodox Jewish feminist”, docente in istituzioni accademiche e religiose[64] e impegnata in prima linea per il superamento del «pregiudizio maschile» che segna alcuni testi sacri dell’ebraismo, senza tuttavia metterne in discussione l’autorità.[65]
La spinta fondamentale per l’imponente movimento delle donne volto a riappropriarsi del sapere talmudico è il bisogno di poter gestire in prima persona quegli aspetti della normativa che le toccano più da vicino e che possono avere un tremendo impatto sulle loro vite. Basti pensare a tutta la legislazione religiosa su matrimonio e divorzio (compresa la delicatissima questione delle `agunot, le vedove bianche), a quella sulla purità delle relazioni coniugali e a tutte le problematiche legate alla fertilità e alla maternità, per le quali, fino a poco tempo fa, il punto di riferimento doveva essere sempre e comunque un rabbino. È solo da pochi decenni che, grazie all’azione di organizzazioni sorte sia negli Stati Uniti sia in Israele,[66] le donne possono rivolgersi a una serie di esperte consulenti donne (yo`atzot halakhà) che affiancano anche i giudici (maschi) nei giudizi su queste tematiche, mentre valide avvocatesse (to`anot rabbaniyyot) possono sostenere le donne di fronte ai tribunali rabbinici; e la battaglia è ancora aperta per poter arrivare a conseguire la qualifica di giudice (dayyan),[67] oltre che quella di rabbino.[68]
Ma se all’inizio queste tematiche hanno costituito la spinta propulsiva, ora rischiano di diventare un limite e di impedire che il contributo femminile si estenda a tutti i campi della halakhà. Il pericolo di settorialismo è evidente sia nei menù dei siti citati sia nelle pubblicazioni.
Jewish legal writings by women, un volume edito alla fine degli anni ’90 da una casa editrice ortodossa che ne raccomanda la lettura a uomini e donne, è un buon esempio di come cambino le cose anche in ambito ortodosso, ma è anche lo specchio dei limiti che la scholarship femminile deve ancora superare.[69] Il testo si presenta infatti come una raccolta di saggi di legge ebraica scritti da autrici religiose ebree, ma su diciassette saggi ben tredici trattano di tematiche eminentemente femminili e solo una minima parte testimonia della capacità delle donne di entrare a pieno titolo nel mondo della halakhà.[70] Tuttavia, alle obiezioni di settorialismo e tendenziosità Tamar Ross risponde sostenendo che «la decisione halakhica è quasi per definizione incapace di operare in condizioni sterili». La sua tesi finale è che, nonostante i limiti e al di là delle ricadute pratiche e politiche, il discorso femminista è in grado di offrire «un contributo unico, meta-halakhico, su di un piano più filosofico – vuoi per una comprensione alternativa delle finalità più generali del pesàk halakhico, vuoi per una riflessione analitica sulle sue premesse di fondo».[71] Anche se sono ancora poche le studiose in grado di cimentarsi su questo terreno teorico generale, la convinzione di Ross –e di quelli che come lei, uomini e donne, si battono perché la dimensione del femminile riprenda lo spazio che le compete– è che le donne possano portare un contributo nuovo e fondamentale alla lettura dei testi e all’elaborazione stessa del discorso religioso.
Abstract: The first part of this article analyzes, from a new perspective, the Biblical and Rabbinical passages upon which the exclusion of women from Jewish traditional study has been founded. By thoroughly reviewing the sources, the author draws the conclusion that, neither in the Bible nor in the Talmudim, any unequivocal prohibition can be found against women’s study, but only an exemption. Against this “open” textual tradition of written and oral law, in Medieval and Renaissance codification works the exclusion was generally sanctioned, according to contemporary prevailing culture. And afterwards the poskim (deciders) have increasingly stressed the dichotomy between a “practical” study —permitted to women— and a “theoretical”, systematical, “Talmudic” study — prohibited to them and exclusively reserved to men. In the second part, the author casts a glance to the achievements of contemporary feminist Orthodox movement, especially in the field of Academic and Talmudic study for women, who can hopefully contribute to a new reading of texts and to the making of Jewish religious discourse itself.
Keywords: Giudaismo rabbinico, Torà scritta e Torà orale, Talmud, Donne nell’ebraismo, Donne e studio, Femminismo ebraico ortodosso; Rabbinical Judaism, Written and Oral Law, Torah study, Talmudic study, Women in Judaism, Women’s study, Jewish Orthodox Feminism.
Biodata: Milka Ventura Avanzinelli, ebraista, biblista, già docente a contratto di Storia delle religioni, Università di Firenze (milkaventura@fastwebnet.it).
[1] Daniel Boyarin, Carnal Israel. Reading sex in Talmudic culture, Berkeley, University of California Press, 1993, pp. 178-179.
[2] Cfr. bQiddushin 66b, Shulchan `arukh, Even ha-`ezer 4,19.
[3] bChaghigà 27a.
[4] Numeri 15,19.
[5] Vedi l’intero trattato Niddà nella Mishnà e nel Talmud.
[6] Cfr. mShabbat 2,6; pShabbat 2,6, 19b; bShabbat 31b-32a; bBerakhot 31b.
[7] Chava Weissler, Woman as a High Priest. A Kabbalistic prayer in Yiddish for lightening Sabbath candles, «Jewish History» 5, 1991, pp. 9-26; Voices of the Matriarchs. Listening to the prayers of early modern Jewish women, Boston, Beacon press, 1998.
[8] Come è noto, la tradizione intende per “Torà scritta” il testo biblico, comprendente Pentateuco, Profeti e Agiografi, e per “Torà orale” il corpus della normativa rabbinica che si mette per scritto a partire dalla fine del II secolo e.v., prima con la Mishnà e la Tosefta e poi con i due corpora del Talmud (palestinese e babilonese). Sono considerate Torà orale anche le parti normative del Midrash. Per una introduzione a questa letteratura, vedi Günter Stenberger, Introduzione al Talmud e al Midrash, tr. it., Roma, Città Nuova, 1995.
[9] Vedi infra e note 35, 38 e 41.
[10] Numeri 5,11-31 unico esempio biblico di ordalia, che peraltro non risulta sia mai stata applicata. È detta anche “legge della gelosia”, perché chi deve sottoporsi al test è la donna che ha suscitato la gelosia del marito.
[11] mSotà 3,4. Utilizzo la recente traduzione del “Progetto Mishnà” promosso dall’Assemblea dei Rabbini d’Italia ed edito da Lamed, Lulav e Morashà, con qualche variante e segnalando fra parentesi le necessarie osservazioni.
[12] Vittorio Castiglioni lo traduceva «cose (per lei) insulse» (Mishnaiot, traduzione italiana e note illustrative di Vittorio Castiglioni, Roma, Tip. Sabbadini, 1962, vol. 2, p. 174). Boyarin (Carnal Israel, p. 171, n. 3) segnala che in Numeri Rabbà 4,20 il termine significa letteralmente “strullate”, “cose da bambini”, ma fa notare che l’accezione più comune del termine ha una decisa connotazione di lascivia e cita proprio il passo in questione, oltre a Ester Rabbà 3,13 –dove è usato per commentare i discorsi scurrili dei convitati di Assuero– e a Tanchuma su Esodo 28, dove si legge che «tutti i baci sono tiflut, fuorché quelli di addio, di onore e di incontro».
[13] mSotà 9,9; bSotà 47a-b; bQiddushin 28a. Anche prima della abolizione si era comunque cercato di riportare il procedimento nell’ambito del diritto, rendendone praticamente impossibile l’esecuzione.
[14] Mishnaiot, p. 174 nota 18.
[15] Moshe Weinberg, Teaching Torah to women, «Journal of Halakha and Contemporary Society», 9, 1985, pp. 21-22.
[16] «Hanno insegnato i nostri saggi: quattro persone sono entrate nel Pardes ed erano: Ben `Azzai, Ben Zomà, Acher e Rabbi `Aqivà […] Ben `Azzai guardò e morì, e di lui il verso dice: “Preziosa agli occhi di Dio è la morte dei suoi pii” (Salmi 116,15) […]» bChaghiga 14b. Vedi anche l’episodio riportato in Shir ha-shirim rabbà 1,10, ii.
[17] Rabbi Eli`ezer fu scomunicato per non aver rispettato le decisioni della maggioranza (nella famosa disputa sul forno di `Akhnai) e subì anche un’accusa di apostasia; finì i suoi anni isolato, anche se ancora stimato da colleghi e discepoli. Sulla sua misoginia, vedi S.Y. Hurwitz, Rabbi Eliezer ben Hyrcanus and the education of women, «Ha-shachar», 11, 1883, pp. 437-41 (in ebraico), che rileva come Eli`ezer sia in realtà l’unico che si oppone ferocemente allo studio delle donne. Il motivo addotto da Hurwitz –e considerato naive da Ilan– sarebbe l’astio verso una moglie troppo colta, ma non è dimostrato che Imma Shalom, spesso citata nel Talmud come moglie di Eli`ezer e sorella di Gamaliel, fosse davvero una maestra di Torà come vuole la tradizione (Cfr. Tal Ilan, Jewish women in Greco-Roman Palestine. An inquiry into image and status, Tübingen, J.C.B. Mohn (Paul Siebeck), 1995, p. 191, nota 22.).
[18] pSotà 3,4, 15b-16a. Il testo riporta poi la risposta di Eli`ezer ai discepoli. Una versione abbreviata dell’episodio si trova anche in bYomà 66b, dove chi pone la domanda è una “donna sapiente”.
[19] bSotà 21a. Nella logica rabbinica chi adempie un precetto senza esserne obbligato è meno meritevole di chi lo adempie avendone l’obbligo, vedi infra l’opinione del Maimonide.
[20] Come annota il Talmud Soncino, la sottigliezza (intesa come astuzia o malizia) non è apprezzata in una donna.
[21] bSotà 21b.
[22] Boyarin sostiene che il dibattito si protrae ben oltre la chiusura del Talmud babilonese ed è ancora vivo nell’Europa dell’XI e XII secolo e oltre. (Carnal Israel, p. 193.) Per una bibliografia sul tema dello studio talmudico delle donne, cfr. www. jofa.org/social.php/education/studyingtalm.
[23] mQiddushin 1,7.
[24] Cfr. Saul J. Berman, The status of women in halakhic Judaism, «Tradition», 12, 1973, n. 2, pp. 5-28, www.lookstein.org/articles/status_of_women.htm.
[25] Ilan, Jewish women, p. 178.
[26] Cfr. Judith Hauptman, Rereading the Rabbis. A woman’s voice, Boulder (CO), Westview press, 1998, p. 226. È esemplare la storia della donna che si era attardata ad ascoltare Rabbi Meir di venerdì sera e aveva trascurato di preparare la casa per lo Shabbat, facendo infuriare il marito (ySotà 1,4).
[27] Cfr. Rachel Biale, Women and Jewish Law. The essential texts: their history and their relevance for today, New York, Schocken Books, 1995, pp. 16-17.
[28] Wegner parla di un «subliminale senso di colpa» nelle affermazioni con cui i rabbini cercano di giustificare la esclusione delle donne dallo studio della Torà, il precetto base della vita spirituale ebraica. (Judith Romney Wegner , The image and status of women in classical rabbinic Judaism, in Judith Baskin (ed.), Jewish women in historical perspective, Detroit, Wayne State University Press, 1998, pp. 73-100.
[29] Senza alterare il testo consonantico, l’ebraico welimmadtem (e insegnerete) può essere letto ulemadtem (e studierete), come è vocalizzato in Deuteronomio 5,1.
[30] bQiddushin 29b-30a. La stessa argomentazione in Sifré a Deuteronomio 46, `Eqev 10 e Wa’etchannan 9; Pesiqta Rabbati 22,7, tutti testi che danno per acquisita l’opinione di Rabbi Eli`ezer.
[31] tSota 7,9.
[32] pChagigà 1,1, 1b. Vedi anche pSotà 3,4, 15b-16a; Mekhilta Yitrò, Bachodesh 16 (ed. Lauterbach p. 132). Le varie versioni dell’episodio di Peqi`in derivano dalla Tosefta (Sotà 7,9-12).
[33] Cfr. Boyarin, Carnal Israel, pp. 167ss. Di opinione contraria è Sima Friedman, per la quale la lettura del Talmud Palestinese sarebbe invece più restrittiva di quella del Babilonese. L’argomento sarebbe da approfondire, perché anche nel Talmud Babilonese restano comunque testimonianze di donne che studiano e che insegnano, cfr. J. Hauptman, Women’s voluntary performance of commandments from which they are exempt (in ebraico), in Proceedings of the Eleventh World Congress of Jewish Studies, Jerusalem. World Union of Jewish Studies, 1994.
[34] tBerakhot 2,12; yBerakhot 3,4, 26b. Sulla “censura” di questo passo da parte del Talmud babilonese e per altri passi rabbinici da cui trapela una diversa realtà sullo studio delle donne, vedi Tal Ilan, Mine and yours are hers: retrieving women’s history from rabbinic literature, Leiden, Brill, 1997, pp. 60, 166-169.
[35] Cfr. Warren Zev Harvey, The obligation of Talmud on women according to Maimonides, «Tradition», 19, 1981, n. 2 (Summer), pp. 122-129.
[36] Rabbi Moshe ben Maimon (detto Rambam, 1138-1204), Hilkhot talmud Torà I,13 (corsivi miei); ripreso in Yosef Caro (1488-1565), Shulchan `arukh, Yoré de`à 246,6.
[37] Per l’epoca talmudica, cfr. Ilan, Jewish women in Greco-Roman Palestine, p. 194 e note; anche in epoca medioevale si hanno rare notizie di responsa dati da donne e di donne che insegnano in yeshivot maschili, v. infra e note 43-44.
[38] Vedi Shneur Zalman, Shulchan `arukh ha-Rav, Hilkhot talmud Torà I,16; Joshua ben Alexander ha-Kohen Falk, Perishà, Tur Yoré de`à 246,15.
[39] È attribuita a Rabbi Yitzchaq il fabbro (amorà palestinese del III sec. e.v.) l’affermazione che già all’epoca del re Ezechia «Fu fatta una ricerca da Dan fino a Beer Sheva e non fu trovato un solo ignorante, da Gabbat fino ad Antipris; e non fu trovato un ragazzo o una ragazza, un uomo o una donna che non fosse perfettamente istruito nelle leggi della purità e dell’impurità.». (bSanhedrin 94b.)
[40] Cfr. Ilan, Jewish women, p. 194-195.
[41] Rabbi Shelomo ben Yitzchaq di Troyes (detto Rashi, 1040-1105), commento a bMenachot 110a.
[42] Rashi, commento a b`Avodà zarà 18b. Per un’analisi critica di questa cosiddetta “leggenda”, cfr. Tal Ilan, The quest for historical Beruriah, Rachel, and Imma Shalom, «AJS [Association for Jewish Studies] Review», 22, 1997, n. 1, pp. 1-17.
[43] Cfr. Judith R. Baskin, Some parallels in the education of medieval Jewish and Christian women, «Jewish History», 5, 1991, n. 1, pp. 41-51; Avraham Grossman, Pious and rebellious. Jewish women in medieval Europe, tr. ingl., Waltham (MA), Brandeis University Press, 2004, pp. 29 e 194; Maria Teresa Milano, Regina Jonas. Vita di una rabbina. Berlino 1902-Auschwitz 1944, Cantalupa (TO), Effatà, 2012, pp. 55-60.
[44] La notizia si trova nel Sibbuv di Petachyà da Regensburg, viaggiatore ebreo del XII sec. (tr. it. Il viaggio di Rabbì Petachiah di Ratisbona, a cura di Isabella Ventrice, Firenze, Giuntina, 2009, p. 32.) Per altri esempi, vedi Weinberg, Teaching, p. 25 e note.
[45] Per una rassegna delle fonti, cfr. Getsel Ellinson, Serving the Creator. A guide to rabbinic sources, Jerusalem, W.Z.O., 1986, pp. 240-272.
[46] Yosef ben Efrayim Caro, Shulchan `arukh, Venezia, [Bragadin] per mano di Me’ir Parenzo, 1565.
[47] Samuele Archivolti, Ma`yan gannim, Venezia, Bragadin, 1553. Vedi: Roberto Bonfil, Riflessioni su una prospettiva femminista nell’epistolario di Samuele Archivolti, in Mauro Perani (a cura di), La cultura ebraica a Bologna tra medioevo e rinascimento, Firenze, Giuntina, 2001, pp. 117-128; David Gianfranco Disegni, Le donne e lo studio della Torà: uno scambio epistolare fra Dina e Rabbi Samuele Archivolti nell’Italia del Rinascimento, «La Rassegna Mensile di Israel», 67, 2001, nn. 1-2, pp. 151-176.
[48] Disegni, Le donne e lo studio della Torà, p. 168. Questo ed altri passi dell’epistola di Archivolti saranno ripresi in importanti compendi e responsa rabbinici di ’800 e ’900.
[49] Ibidem, p. 166. La motivazione risulta poco chiara anche nell’originale: חזינא לא ותיובתא חזינא דאתתא לפנים ,ma il senso sembra essere che la donna (che pone la domanda) è ben presente davanti a noi, mentre quella risposta (negativa) non lo è.
[50] Le nuove correnti dell’ebraismo che nascono fra Ottocento e Novecento fin dall’inizio aprono i loro seminari anche alle donne e dalla metà del ’900 conferiscono loro anche titoli rabbinici. Ma le decisioni dei rabbini Reformed, Conservative e Recostructionist non sono riconosciute dal rabbinato ortodosso e non hanno quindi influenza sulla generalità del mondo ebraico. Per queste correnti, che hanno prodotto studi e istituzioni di altissimo livello (basti pensare al conservative Jewish Theological Seminary di New York), rimando alla bibliografia relativa.
[51] Cfr. Naomi Schacter, The changing status of Orthodox Jewish women, «Conversations», n. 5, Autumn 2009, www.jewishideas.org/naomi-schacter.Segnalo anche, per la realtà israeliana, il recente studio di Yael Israel-Cohen, Between feminism and Orthodox Judaism. Resistance, identity and religious change in Israel, Leiden, Brill, 2012.
[52] Cfr. Milka Ventura Avanzinelli, Gravidanza, parto, allattamento: esperienze di donne ebree fiorentine del Novecento, in Michele Luzzati, Cristina Galasso (a cura di), Donne nella storia degli ebrei d’Italia, Firenze, Giuntina, 2007, p. 508 e note.
[53] Milano, Regina Jonas, pp. 102-104.
[54] Yisroel Meir Hakoen (Chafetz Chayyim), Liqquté halakhot, Sotà 20a.
[55] Da un punto di vista molto diverso, Rav Hirsch –fondatore della Neo ortodossia– sostiene che da sempre l’obbligo dello studio della Torà e delle mitzwot riguarda anche le donne (Shimshon Raphael Hirsch, Ha-Chorev 75,61. Cfr. Norma Baumel Joseph, Orthodoxy and feminism, «The Edah Journal», 1, 2001, n. 2. Per altre prese di posizione di rabbini del Novecento a favore dello studio delle donne, vedi Shoshana Pantel Zolty, “And all your children shall be learned”. Women and the study of Torah in Jewish law and history, Northvale (NJ), Jason Aronson, 1993.
[56] Nel 1964 i coniugi Copperman fondano il Jerusalem College (Michlalah) con lo scopo specifico di formare «outstanding Torah-steeped teachers for the Israeli school system» e nel 1989 aprono il programma Linda Pinsky, rivolto a studentesse di tutto il mondo. Alla Michlalah si formano molte delle donne che saranno docenti e protagoniste del movimento degli anni ’90.
[57] Cfr. Schacter, The changing status of Orthodox Jewish women.
[58] È il caso, p. es., della Yeshivat Ramaz, a Manhattan, dove già dagli anni ’50 ragazzi e ragazze studiano insieme Torà e Talmud, www.ramaz.org/school_ upper/index.cfm. Attualmente vari istituti hanno programmi coed, p. es. il Drisha, www.drisha.org/.
[59] Pioniere in Israele è stato Pelech, la scuola per ragazze ultraortodosse fondata a Gerusalemme negli anni ’60 e sviluppatasi sotto la guida di Alice Shalvi dal 1975 al 1990 www.schooly2.co.il/pelech_jer/page.asp?page_parent=63884. Nel 1976 nasce il Bet Midrash Bruria, ora Midreshet Lindenbaum. Per un elenco di molte istituzioni operanti nel campo, fra cui Matan e Nishmat, vedi: www.jofa.
org/about.php/resources/educationali.
[60] Cfr. Rochelle Fürstenberg, The flourishing of higher Jewish learning for women, «Jerusalem Letter», n. 429, 26 Nisan 5760/1 May 2000. Anche istituti come la Yeshiva University (New York) e università religiose come la Bar Ilan (Tel Aviv) si erano posti l’obiettivo di collegare le due realtà.
[61] bQiddushin 29b-30a.
[62] Cfr. Yael Unterman, Nehama Leibowitz: teacher and Bible scholar, Jerusalem, Urim Publications, 2000; Ead. La Torà – medicina di vita, trad. it., «Emor», n. 1, 2010, pp. 111-129.
[63] Alle docenti nelle istituzioni citate nelle note precedenti aggiungerei almeno due attuali insegnanti di Torà: Avivah Gottlied Zornberg (www. torahinmotion.org/spkrs_crnr/faculty/bioAvivaZornberg.htm) e Rachel Keren (jwa.org/encyclopedia/author/keren-rachel).
[64] Insegna filosofia alla Bar Ilan University e ha insegnato Pensiero ebraico alla Midreshet Lindenbaum di Gerusalemme.
[65] Fra i suoi scritti: Expanding the palace of the Torah. Orthodoxy and feminism, Waltham (MA), Brandeis University Press, 2004; Il contributo femminista al discorso halakhico: kol beishà `ervà come caso esemplare, «Emor», n. 1, 2010, pp. 25-59, con bibliografia di scritti di donne su questioni halakhiche in questi ultimi anni.
[66] J.O.F.A. (Jewish Orthodox Feminist Alliance), è l’organizzazione internazionale fondata da Blu Greenberg negli U.S.A. nel 1997: www.jofa.org/about. php/who. Kolech – Religious Women’s Forum è stata la prima organizzazione femminista ortodossa fondata in Israele nel 1998. Il suo nome, che significa “la tua voce”, deriva da una citazione da Cantico dei Cantici 2,14: www.kolech.com/english/about.asp.
[67] Matthew Wagner, Kolech calls to appoint female rabbinical judges, «The Jerusalem Post», 30 gennaio 2012, www.jpost.com/LandedPages/PrintArticle.aspx?id=124989.
[68] Benché l’opposizione delle autorità ufficiali ortodosse sia ancora forte, qualcosa si sta muovendo anche in questi ambiti. Nella sua recente introduzione alla traduzione inglese del saggio di Riccardo Di Segni, Daniel Klein dà notizia della «ordinazione privata di almeno due donne, da parte di rabbini ortodossi» (Riccardo Di Segni, “La donna rabbino”. The Chief Rabbi of Rome considers the question of women in the rabbinate, translated by Daniel A. Klein, www.moked.it/rabbanutroma/ files/2009/06/la-donna-rabbino-inglese.pdf. L’originale in italiano (1996) è disponibile a questo link: www.morasha.it/controriforma/cr_donna_rabbino.html.
[69] Micah D. Halpern, Chana Safrai (eds.), Jewish legal writings by women. Efrat, Urim Publications and Lambda Publishing, 1998.
[70] Vedi la recensione di Moshé Benovitz in «Nashim. A Journal of Jewish Women’s Studies & Gender Issues», 1999, n. 2, pp. 146-160.
[71] Ross, Il contributo femminista, p. 26.