Raffaele Levi z.l.
A una settimana dalla scomparsa di Raffaele Levi, z.l., riportiamo una sintesi di quanto da lui scritto nella Prefazione e nelle Considerazioni finali alle Hilkhot Hateshuva (Norme sulla Teshuvà) di Mosè Maimonide, DAC, Roma 5743-1983, ripubblicate dalla Giuntina nel 2004 con il titolo Ritorno a Dio. Norme sulla Teshuvą. La traduzione fu fatta subito dopo l’attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982 dove morì il piccolo Stefano Gaj Taché.
Le più sentite condoglianze alla moglie, ai figli Gavriel, Michele e Laura, ai nipoti e bisnipoti e parenti tutti.
Più volte mi ha sfiorato l’idea che sarebbe stato bello da parte mia e forse anche doveroso, fare un qualche cosa di halakhicamente valido, anche se necessariamente modesto, a favore della Comunità Ebraica Italiana, alla quale appartengo per nascita e per tradizioni ed alla quale per nascita e per tradizioni sono appartenuti i miei genitori ed i miei nonni. A favore di questa comunità che è sì modesta per numero e per la posizione che occupa attualmente nel grande edificio del Bet Israel, ma è pur così ricca di storia ebraica, così ricca di sentimento e cuore tipicamente ebraici e così ricca di usanze e minaghim che le sono caratteristici e propri e che proprio per motivi halakhici non debbono in alcun modo andar perduti.
A perderli, ne sono certo, non sarebbe solo l’ebraismo italiano. Quale ebreo, anche se non appartenente al ceppo italiano, potrebbe mai dimenticare ad esempio, e per citarne uno solo, le note dello Shofar di Rosh Hashanà, suonate secondo l’uso degli ebrei d’Italia?
Halakhicamente corrette e valide, di una potenza e di un’efficacia estreme, penetranti e solenni, a volte strazianti e sconvolgenti, ti giungono direttamente al cuore ed al cuore sanno parlare: «Oggi è stato creato il mondo, oggi vieni portato dinnanzi al tribunale celeste. Svegliati dal tuo torpore, pensa al tuo Creatore e fa’ ritorno a Lui, sinché ne sei in tempo!». Secondo la halakhà questo è il richiamo solenne e drammatico dello Shofar di Rosh Hashanà: il richiamo alla teshuvà! E quale altro Shofar, meglio di quello italiano, è in grado di trasmettere questo particolare richiamo? Ancor oggi ricordo perfettamente quando a Rosh Hashanà, in uno dei templi della Comunità Ebraica di Trieste degli anni ’30, ragazzino, assieme a mio fratello maggiore – il minore era troppo piccolo per capire, – alle note dello Shofar ci trovavamo d’incanto sotto il grande taled di mio padre z.l. e ci accorgevamo delle sue lacrime e sentivamo i singhiozzi degli altri fedeli, e pur ragazzini, ci accorgevamo della solennità che quelle note riuscivano a creare nel tempio e ci rendevamo conto dell’importanza dell’ora.
Ho risentito quelle medesime note altre due volte qui a Roma: la prima volta, suonate con estrema abilità e con estrema Kavanà alla fine di un Kippur quale segnale della fine del digiuno e della partenza della Shekhinà, che secondo la halakhà aleggia nei nostri luoghi di preghiera. La seconda volta ai funerali del nostro piccolo martire STEFANO TACHE’ z.l. ucciso da mani assassine a soli due anni e soltanto perché ebreo. Le ho sentite dalla piazzetta prospiciente il Tempio Maggiore (e le hanno sentite milioni di persone perché riprese dalla televisione) e le ho risentite al Cimitero, quando la piccola bara bianca, che racchiudeva anche parte del nostro cuore, veniva trasportata a spalle dalla camera mortuaria al posto di sepoltura. Quale e quanta straordinaria potenza di penetrazione in quelle note! Le avranno certamente sentite anche gli angeli delle schiere celesti ed anche quelli avranno tremato. Mai come allora ho pensato così intensamente e forse mai ho compreso così profondamente il senso dei versi: «’et sha’are ratzon lehipateach – è tempo che si aprano le porte della misericordia divina»; «hashivenu Hadoshem elekha venashuva – facci tornare a te, Signore, e ritorneremo»; «teqa’ beshofar gadol lecherutenu – suona il grande Shofar della nostra liberazione». Proprio in quei giorni mi erano capitate tra le mani le Hilkhot Hateshuvà di Maimonide, e chissà, forse anche perché ancora suggestionato da quello Shofar, le cui note continuavo a sentir dentro di me e perché Shofar e teshuvà sono strettamente connessi, ho pensato che alla Comunità ebraica italiana o almeno a quanti di essa non sono in grado di leggere il testo ebraico, potrebbe non dispiacere di aver a disposizione una traduzione italiana di questo piccolo ma allo stesso tempo immensamente importante trattato di Rambam, e senza ulteriori ripensamenti, mi sono messo all’opera.
[seguono circa tre pagine per introdurre e spiegare il concetto di teshuvà, sulla base soprattutto dell’opera di Rav Joseph B. Soloweitchik ‘Al Ha-Teshuvà, Discorsi annuali sulla teshuvà raccolti e commentati dal suo discepolo Rav Dr. Pinchas H. Peli]
Considerazioni dopo la lettura e lo studio del trattato
Dopo la lettura e lo studio delle Hilkhot Hateshuvà di Rambam, chi ha un minimo di fede, non può che giungere ad un’unica possibile conclusione: «Senza teshuvà non c’è salvezza né per il singolo né per la collettività». Ma di fronte a questa realtà c’è la malattia collettiva più grave dei nostri tempi: c’è l’apatia, c’è il voler ignorare o rimandare il più possibile i problemi scomodi, c’è il rifiuto di affrontare la nostra coscienza. Per i nostri gravi peccati oggi non esistono più profeti come Isaia, che per volere divino sappiano scuoterci, sappiano «urlarci con tutto il loro fiato e non trattenersi e non guardare in faccia nessuno e senza remore sappiano alzare la voce come il frastuono dello Shofar, per rimproverarci e ricordarci i nostri peccati» [cfr. Isaia 58,1]. Nelle nostre comunità, o quanto meno nelle maggiori, abbiamo i nostri bravi assessori, con mansioni diverse ed importanti, ma non abbiamo saputo o voluto ricercarne uno, il più necessario di tutti, quello che ai nostri tempi dovrebbe lavorare a tempo pieno e fare anche gli straordinari, quello «addetto alla teshuvà», quel «chakham, anziano, timoroso di Dio sin dall’infanzia e ben accetto alla collettività» (di cui accenna Rambam al Cap. 4) col compito unico ed esclusivo di vigilare su di noi e di tirarci gli orecchi e quando lo ha fatto di tirarceli ancora ed ancora, finché non facciamo teshuvà. Sempre nello stesso capitolo 4, Rambam dice che «chi odia le recriminazioni certamente non andrà da lui e non presterà ascolto alle sue parole e rimarrà con i suoi peccati, che ai suoi occhi non sembrano tali», ma ai nostri giorni non ci si pone più il problema di chi va da lui o non ci va, di chi lo ascolta o meno. Noi ci comportiamo come se fossimo «tutti zaddiqim», come se a noi la teshuvà non servisse affatto o fosse fuori moda. Sta di fatto che ai nostri giorni questo «assessore alla teshuvà» non esiste per niente e non esiste perché in realtà lo riteniamo scomodo e non lo vogliamo e preferiamo «rimanere con i nostri peccati che ai nostri occhi non sembrano tali». La chiave della teshuvà e della salvezza, che Rambam ci fa «riscoprire» sta comunque ancora là, a portata di mano e finché ci è dato di farlo, basta stendere la mano e prenderla. Basta fare questo primo sforzo iniziale e sarà nostra. «Habà letaher mesayeim lo min hashamaim! – Chi viene a purificarsi lo si aiuta dal Cielo!». Basta fare il primo passo, basta scrutar dentro di noi e fare un esame di coscienza, serio ed onesto, avendo di fronte a noi solo Dio benedetto e la nostra coscienza ed assecondare quindi i nostri Maestri ed i nostri Rabbini e dar loro la possibilità e la forza di aiutarci, anziché scoraggiarli con la nostra ottusità e la nostra testardaggine: «Nachpesah derakhenu venachqorah venashuvah ‘ad Hadoshem! – Passiamo al setaccio le nostre azioni ed esaminiamole attentamente e facciamo ritorno sino al Signore» (Ekhà 3,40).
[segue il cap. 33,1-21 del libro del profeta Ezechiele, tutto dedicato al valore della teshuvà e al suono dello Shofar]
Il monito divino pronunciato per bocca di Ezechiele non potrebbe, mi sembra, esser più chiaro e più esplicito e certo non si presta ad equivoci di interpretazione.
Ci viene detto che la potenza della teshuvà non ha limiti e che nulla al mondo le si può oppone, ci viene detto che la teshuvà, quella vera e completa e del cui grado di sincerità e completezza solo Dio benedetto può esser testimone, ha la potenza di arrestare la punizione divina, anche là dove la Giustizia divina non può ammettere che i reati commessi vadano impuniti. Ci viene ricordato che la teshuvà ha la potenza straordinaria e miracolosa di far prevalere la Misericordia Divina sulla Giustizia Divina, ma affinché questo miracolo possa verificarsi anche ai nostri giorni è necessario farla finita con la nostra apatia, è necessario incoraggiare i nostri Maestri quando si apprestano a «suonare lo Shofar» ed a richiamarci alla teshuvà; non possiamo e non dobbiamo continuare ad ostacolarli.
Questo è quanto mi è sembrato di dover dire dopo lo studio delle norme sulla teshuvà di Rambam e con ancora negli orecchi e nel cuore le tekiot di quel drammatico Shofar romano dello scorso mese di Tishrì.
«Hashivenu Hadoshem Elekha Venashuva, Chadesh Iamenu Keqedem – Facci tornate a Te, Signore, e ritorneremo. Rinnova i nostri giorni come un tempo!»
[testo adattato da Jacov e Gianfranco Di Segni]