Aimbolo del rapporto tra la squadra di Amsterdam e le sue radici ebraiche
Tra i tavolini del Cafè Brandon di Amsterdam, fino a non troppo tempo fa, si poteva ancora incontrare qualche vecchietto che aveva visto giocare Eddie Hamel. Un’ala destra offensiva, di quelle che ti puntano palla al piede, come se la vita fosse una finta tra la geometria della linea laterale e l’anarchia dell’invenzione per forzare l’area di rigore.
La squadra del ghetto. Hamel nasce a New York, ma segue i suoi genitori da bambino in Olanda. Cresce giocando tra i canali di Amsterdam e porta sulle spalle la maglia biancorossa dell’Ajax dal 1922 al 1930, giocando 125 partite e segnando poco, solo otto reti. Perché certe ali, sul fondo, alzano lo sguardo e cercano il compagno. Il gusto sta nel dimostrare, sempre, di trovare lo spazio anche quando non si vede. Hamel è ebreo. Lo è fino al suo ultimo giorno: il 30 aprile 1943.
E’ morto a 41 anni da compiere, ma del suo fisico da atleta – mantenuto in forma dopo aver appeso le scarpette al chiodo – non s’intuisce più molto. Hamel muore ad Aushwitz, nel campo di concentramento dove l’hanno deportato i tedeschi, che hanno occupato l’Olanda nel 1940. Un destino crudele, per un campione che con tanti altri ha contribuito a creare il mito dell’Ajax Amsterdam, la squadra degli ebrei. Il club che porta il nome di Aiace, in realtà, non è molto più ebreo di altri, ma il rapporto tra l’ebraismo e il club più famoso d’Olanda non si è mai incrinato.
La stella e la fede. L’Ajax è stato fondato, nel 1900, da un gruppo di studenti di Amsterdam. La squadra era nata e giocava nel vecchio ghetto ebraico della città olandese. La leggenda vuole, come vi ripeterebbe chiunque nel Cafè Brandon, vero tempio del tifo biancorosso, che i bottegai ebrei chiudessero solo se giocava l’Ajax e l’amministrazione cittadina fu costretta a deviare il percorso di un tram per appagare il numero crescente di tifosi che voleva vedere giocar la squadra. Secondo il giornalista Simon Kuper, però, si tratta in gran parte di un falso mito. Nel suo bel libro L’Ajax, la squadra del ghetto. Il calcio e la Shoah, Kuper smentisce molti luoghi comuni. Il primo è quello dell’Olanda paese civile e in prima fila nella difesa degli ebrei dopo l’occupazione nazista. Il secondo è proprio quello dell’Ajax squadra ebrea per eccellenza. Al punto che, nel 1941, tutti i soci ebrei del club vengono espulsi, come raccontano i verbali rinvenuti dallo stesso Kuper. Allora perché la Stella di David campeggia nella curva F, quella del tifo rovente dell’Ajax? Perché il tatuaggio della stella a sei punte, magari con la F dentro, è un must per i tifosi biancorossi? La risposta più bella forse la da il vecchio archivista del club, ottanta anni: “Agli ebrei piacevano le cose belle, per quello andavano a vedere l’Ajax”.
Tra mito e storia. In realtà il mito del binomio ebraismo-Ajax nasce nell’immediato dopoguerra. Uno dei principali finanziatori del club è un certo Jaap Van Praag, negoziante di dischi ebreo. Durante l’occupazione nazista si nasconde nella soffitta di un altro bottegaio, dopo diventa il prestanome dei fratelli Freek e Win Der Mejden. Due imprenditori edili, divenuti ricchi durante la guerra. Come? Lavorando attivamente per l’occupante nazista, al punto da meritarsi il nomignolo di ‘fratelli Bunker’. I tifosi e i calciatori dell’Ajax, dopo il conflitto, solidali con le vittime ebree del nazismo, presero l’abitudine di cucirsi addosso alle casacche e ai vestiti una stella gialla di stoffa. Non potevano accettare il denaro di due personaggi compromessi come i fratelli Der Mejden.
Van Praag, irrazionale e pragmatico come solo un vero tifoso sa essere, non ci pensa su due volte e funge da intermediario per il denaro dei costruttori. Viene creata la miglior società d’Europa, capace di sfornare talenti in serie dal settore giovanile. Fino a creare la squadra dei sogni, a metà degli anni Settanta, capace di vincere tre Coppe dei Campioni di seguito. Lo stesso gruppo di giocatori che arrivò a giocare – e perdere – la finale della Coppa del Mondo nel 1974 e nel 1978.
Il calcio totale. Simbolo di quella squadra, fautrice del ‘calcio totale’ predicato dal suo allenatore Rinus Michels, è Johan Cruyiff. Tutti lo credono ebreo, ma non lo è. Lo è invece Bennie Muller, gloria dell’Ajax anni Sessanta. “Tutti quei cori che inneggiano alle presunte radici ebree dell’Ajax, e il controcanto antisemita, mi spezzano il cuore, non ce la faccio. Della mia famiglia materna, di undici figli, solo mia madre e due sorelle si sono salvate, ma perché erano sposate con un protestante”, si sfogò Muller in un’intervista. Già, perché se i tifosi dell’Ajax ostentano fieri il legame con l’ebraismo, gli avversari lo usano come una clava. Il peggio lo fanno i tifosi del Feyenoord, squadra di Rotterdam e rivale storica deijoden, gli ebrei, come viene chiamata la tifoseria e la squadra dell’Ajax.
All’ingresso in campo dell’Ajax, ogni volta che si gioca allo stadio De Kuip (tempio del Feyenoord), i tifosi locali come un sol uomo emettono un fischio acutissimo. L’idea geniale è quella di riprodurre il sibilo delle camere a gas. Questo e altri episodi di antisemitismo hanno spinto, nel 2005, la dirigenza dell’Ajax a prendere posizione con i loro supporters: basta simboli e riferimenti all’ebraismo. Molte polemiche, ma alla fine le bandiere con la Stella di David rimangono e tra i tavolini del Cafè Brandon, tra mille cimeli, la foto di Eddie Hamel non la toccherà mai nessuno.
Fonte