Finalmente un intervento bi-partisan sulle elezioni nella Comunità ebraica di Roma
Tobia Zevi – Shalom
Le elezioni del 30 marzo, con la vittoria della lista “Per Israele”, mostrano una Comunità molto diversa da quelle dell’Italia del Dopoguerra, e completano una transizione cominciata alla fine degli anni Novanta. Quali sono le ragioni di un risultato che ha avuto proporzioni così ampie?
Ritengo che vi siano tre motivi principali: 1) sostegno ad Israele incondizionato e affermazione di una “doppia fedeltà”, ebrei ed italiani, con prevalenza del primo elemento (in questo senso può spiegarsi anche il “tabù infranto”, cioè il voto di molti ebrei romani per Alemanno); 2) individuazione dell’Halachà come principale – spesso unico – riferimento culturale; 3) concezione della Comunità come di un centro-servizi in perenne crescita di efficienza.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono gli ultimi due punti ad essere più importanti. Il rapporto con Israele – non critico ma consenziente – non è più fattore di divisione all’interno della Comunità: tutti siamo coscienti dei pericoli, anche dovuti ad una mancata composizione del conflitto israelo-palestinese. Non a caso il neo-presidente Riccardo Pacifici, campione della memoria della Shoah “militante” e della difesa ad oltranza di Israele, nel discorso d’insediamento affermava che oggi bisogna superare la dimensione esclusiva di questi due aspetti, facendo propria una storica tesi della “sinistra”, che intendeva valorizzare la ricchezza culturale dell’ebraismo italiano “in quanto tale”. Molto più attuali sono invece gli altri due aspetti: le mizvoth sono un riferimento intellettualmente ed esistenzialmente solidissimo, mentre concezioni alternative non riescono a strutturarsi in maniera altrettanto forte (difendere la “laicità”, cosa buona e giusta, è spesso una definizione per sottrazione). E la Comunità centro-servizi ha due funzioni: consente di ottenere benefici concreti e fornisce un senso di “appartenenza”, in un momento in cui le persone cercano belonging che la società non offre più con soluzioni tradizionali.
La lista “Per Israele” ha dunque prospettato una visione della Comunità molto chiara, facilmente comunicabile ed elettoralmente ben organizzata. E non ha trovato nei suoi avversari un’ analoga capacità di veicolare messaggi forti ed alternativi.
Oggi vi sono, però, sfide per tutti. In primo luogo per chi, nell’ultima campagna elettorale, si è presentato come modello diverso dall’attuale maggioranza: dobbiamo avere la capacità, nei prossimi mesi ed anni, di plasmare in maniera nuova la nostra identità e di individuare riferimenti culturali che possano proficuamente integrarsi con la tradizione; elaborare una tipologia di ebraismo plurale ma vincente, che sappia rispondere alle sfide del presente guardando al futuro.
E fin qui tutto bene, più facile a dirsi che a farsi! Ma un compito importante spetta all’attuale maggioranza, tale anche in seno all’Unione delle Comunità. Dovrà evitare che un certo mondo si allontani dalla vita nelle istituzioni. Non necessariamente in maniera rumorosa ed antagonistica (comunità riformata), ma inesorabile: scegliendo lentamente un ebraismo fatto di sporadici rapporti con l’ente, con la religione confinata tra le mura domestiche. Questa eventualità spaventa, o dovrebbe spaventare, non una parte, ma tutti. Perché l’unione è e rimarrà la forza della nostra Comunità e di Am Israel. Ma il rischio c’è e tutti devono, da subito, farsene carico.
E allora, anzitutto, abbandoniamo le strumentalizzazioni politiche. Come si fa a scrivere – con toni addirittura mitologici – che la vittoria di “Per Israele” rappresenterebbe la vittoria della “piazza” sui “notabili”? Chi gestisce la Comunità da più di dieci anni non è, secondo questa logica che non condivido, un perfetto esponente di un nuovo “notabilato”?
Caro Tobia,
condivido ampiamente la tua coraggiosa analisi. Ha il merito, non piccolo, di non invalidare meschinamente il sistema per sminuire la portata del cambiamento, come abbiamo purtroppo già letto. Ammettiamo pure che a Roma l’estabilishment sia il “nuovo notabilato”, ma se lo è diventato, ciò è avvenuto con la forza di elezioni democratiche ben più partecipate di quelle del vecchio, quando pochi votavano perché pochi erano i noti candidati. DP