Giovanni Cecini
Nel periodo che si pone a cavallo tra l’età moderna e quella contemporanea le varie e successive corone assunte dagli Asburgo d’Austria rappresentarono la manifestazione dei numerosi popoli sudditi, spesso divisi tra loro per nazionalità, lingua, religione, usi e costumi. Questa situazione così variegata però non impedì di creare una certa omogeneità, che permettesse alle istituzioni imperiali e monarchiche di sopravvivere e mantenere un sufficiente equilibrio tra le varie condizioni sociopolitiche. In questo contesto la popolazione ebraica fu, seppur sempre minoranza, una componente significativa distribuita a macchia di leopardo in numerose regioni dell’Impero.
Non a caso la Mitteleuropa per secoli ha rappresentato la culla della cultura ebraica. Molti noti personaggi come Sigmund Freud , Franz Kafka o Joseph Roth ne sono l’esempio più lampante. Essi tuttavia non esauriscono certo quella notevole presenza urbana e provinciale che, dall’Adriatico alla Vistola, dalla pianura Padana ai Carpazi, ha contribuito a un’identità culturale e politica con epicentro città come Venezia, Trieste, Praga, Vienna, Budapest e Lublino.
Per tali motivi, è facile intuire che una volta avviata l’emancipazione israelita, ad opera del sovrano illuminato Giuseppe II, la componente ebraica dell’Impero trovò nelle Forze Armate un luogo dove poter esprimere le proprie competenze e il proprio attaccamento alla Patria multinazionale.
L’assimilazione non fu tuttavia un processo facile, né scontato, a maggior ragione nell’ambiente militare, piccolo mondo chiuso dove un radicamento conservatore ed elitario rappresentava la principale difesa della tradizione. Ecco perché contestualmente alla possibilità di accedere a ruoli e reparti, vi fu l’ostruzionismo degli alti comandi, tanto da relegare i primi israeliti in divisa a ruoli prevalentemente tecnici o amministrativi.
Ciò non significò un ostacolo tout court per gli ebrei, che trovarono – anche per la loro non comune preparazione culturale e professionale – nelle salmerie, nel treno e in alcuni ruoli logistici l’occasione per entrare a pieno titolo nei ranghi militari.
Solo in un secondo momento, a partire dalle guerre napoleoniche, gli israeliti iniziarono a affluire anche nelle armi combattenti, in particolare nella fanteria. Con gli anni seguirono buone carriere, sia nel rango dei sottufficiali che degli ufficiali, via via fino a raggiungere anche i massimi gradi della scala gerarchica. Ricorrenti furono però alcuni elementi caratteristici dell’essere ebreo, che implicavano delle situazioni non sempre favorevoli alla permanenza nell’esercito, come per esempio il radicamento geografico dei volontari e dei renitenti oppure la possibilità di praticare i culti mosaici.Sin dai primi esempi di arruolamento, gli alti comandi asburgici avevano espresso più di una riserva sull’opportunità di accogliere ebrei, per via della possibile astinenza dal servizio nei giorni di festa, per il particolare regime alimentare imposto dai precetti e per una scarsa (o addirittura assente) assistenza religiosa di rabbini nelle caserme e nei reparti.
Nella pratica questi ostacoli, seppur limitanti in alcuni casi, a carattere generale non andarono a intaccare la partecipazione e l’efficienza dei soldati di fede ebraica, che nel più ampio disegno dell’emancipazione ed integrazione riuscirono a dimostrare la piena appartenenza civile di questo arlecchinesco Impero.
Per quanto riguarda invece la provenienza dei militari, vi fu una maggiore partecipazione ed adesione nei contesti urbani e in quelli occidentali.
LaGalizia, più legata a tradizioni contadine – non solo di provenienza ebraica – fu una di quelle aree dove il militarismo attecchì molto poco e dove furono diffusi metodi e pratiche per evitare l’arruolamento, quest’ultimo giudicato al pari di altre strade un modo per la più ampia assimilazione con i gentili, da molti israeliti ortodossi rifiutata. Per alcune comunità più rigide l’ingresso di un loro membro negli organi dello Stato rappresentava una perdita pari alla stessa morte.
Questi esempi tuttavia non pregiudicarono l’esperienza ebraica nelle Forze Armate, che in particolar modo tra gli ufficiali fu rappresentativa delle comunità esistenti. Con le guerre ottocentesche e con l’esperienza della Grande Guerra cadde anche lo stereotipo che voleva i giudei inetti e imboscati, tanto da preferire reparti defilati o mansioni nei distretti. Le battaglie offrirono ai più valorosi onori e promozioni sul campo, al pari dei loro concittadini di altra fede religiosa.
Tali episodi, oltre alla più completa adesione alla cittadinanza comune, rappresentarono il modo migliore per offuscare possibili derive antisemite. Come nel contesto italiano postunitario, anche l’Impero prima e la Duplice monarchia di Austria-Ungheria dal 1867 fu nella sostanza immune da accesi attacchi contro i cittadini ebrei. Esempio indicativo fu la presenza di oltre settanta rabbini militari durante la Prima guerra mondiale.
In tutto ciò vi è una notevole somiglianza tra il Regio esercito italiano e l’Esercito imperiale (e regio) dove l’opportunità offerta a un israelita di divenire colonnello o generale non era preclusa a priori.
Con la caduta della Duplice monarchia nel 1918, questa esperienza iniziò a scemare, anche a causa della frattura politica e istituzionale verificatasi. L’avvento anche in Austria di regimi dittatoriali e poi l’occupazione nazista nel 1938 aprì un’altra pagina della storia mitteleuropea, crudele tanto che originò negli ebrei danubiani un motivo in più per rimpiangere il bel periodo imperiale (e regio).
Questa ricostruzione storica, molto accurata, è ora disponibile anche per il lettore italiano, con l’uscita del volume “I soldati ebrei nell’esercito asburgico” di Erwin A. Schmidl.
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