Il libro di Abraham Yehoshua
Dice che ha voluto raccontare «una storia molto comune oggi in Israele, una storia di dialogo, di incontro fra ebrei e arabi. Sì, perché, nonostante le bombe, il terrorismo, la paura, continuiamo a convivere». Abraham Yehoshua, il più celebre scrittore israeliano dei nostri anni, presenta così il suo nuovo romanzo, in uscita da Einaudi, La sposa liberata (pagg. 600, euro 19). Il libro narra la vicenda di Yochanan Rivlin, docente di storia mediorientale all’Università di Haifa, che indaga sulle cause che si celano dietro l’improvviso e doloroso divorzio del figlio, un anno soltanto dopo le nozze. Una ricerca ossessiva di una verità che fa entrare Rivlin in contatto con il mondo arabo fino a un viaggio oltre confine, nei territori dell’Autonomia palestinese prima dello scoppio dell’ultima Intifada. Dove tra vicende familiari, eventi musicali, incontri, si dipana il bandolo di una matassa popolata di protagonisti arabi, ebrei e cristiani, inestricabilmente intrecciati con gli avvenimenti politici di Israele alla fine degli anni Novanta.
– Il suo romanzo, Yehoshua, vuole indicare la strada di una convivenza possibile fra arabi e israeliani?
«Non ho questa ambizione. Ho voluto solo evidenziare come negli arabi e negli israeliani esista un identico smarrimento, un’identica angoscia nei confronti di quanto accade nella loro terra. E anche una volontà di rassomigliarsi, fortissima soprattutto fra i giovani, di rompere le barriere storiche e culturali che li dividono per confrontarsi, per risolvere insieme le grandi sfide che l’esistenza pone loro di fronte».
– Tuttavia, sembra, dalle sue pagine, che siano gli arabi a volersi uniformare al modello di vita degli israeliani…
«È vero. Il modo di vita israeliano esercita un fascino enorme sui giovani arabi. Devo precisare – per non essere frainteso che quando parlo di giovani arabi non mi riferisco alle frange fondamentaliste, agli aspiranti attentatori suicidi di cui parlano i giornali. Mi riferisco, invece, a quei palestinesi o giordani che frequentano le nostre università, che studiano e lavorano con serietà e passione per vivere, un giorno, in un Israele che sperano pacificata. Loro sentono fortissimo il passaggio generazionale fra un mondo musulmano tradizionalista, legato alla terra e alle usanze più antiche, ed una società moderna, che gli israeliani hanno costruito seguendo in gran parte il modello americano, affascinante e insieme carica di insidie, di mali come la depressione che loro non avevano mai conosciuto».
– Gli israeliani, al modo del protagonista del suo libro, sono aperti all’integrazione e al dialogo?
«Rivlin appartiene al mondo intellettuale israeliano, da sempre il più disponibile al dialogo con i nostri vicini e compatrioti arabi. Vede: in Israele la società ebraica è molto divisa, stratificata, nonostante una apparente uniformità. I gruppi più colti, cosmopoliti, ai quali appartiene Rivlin , al di là delle loro opinioni politiche guardano agli0 arabi con interesse, li considerano vicini, amici, hanno voglia di parlare con loro e di comprendere le loro ragioni. Un’altra parte della nostra società è più chiusa, vede gli arabi come estranei e pericolosi, e vuole una rigida separazione da loro. Voglio però aggiungere che tale stratificazione sociale, anche se in modo meno accentuato, esiste anche fra gli arabi che vivono in Israele».
– Il suo romanzo è ambientato nel 1998. Da allora è cambiato qualcosa nei rapporti fra arabi e israeliani? La nuova Intifada ha accentuato le divisioni?
«Purtroppo sì. Intendo dire che, sebbene esista ancora quella volontà di convivenza e di integrazione di cui parlavo, il clima di sospetto e di paura è molto forte, e rischia di toccare anche quei gruppi intellettuali solitamente più aperti. In questo, i mass media non aiutano affatto: i giornali e le tv israeliane continuano, almeno in parte, a mostrare una realtà paurosa, ad indicare nel palestinese il nemico. I mezzi di informazione arabi, poi, conducono campagne di odio autentico nei confronti di Israele. Tutto questo deve finire, altrimenti anche gli scambi culturali e umani che ancora oggi resistono andranno perduti. E allora per Israele verrà davvero un periodo molto buio».
– Quale è la sua opinione sulla letteratura israeliana di oggi?
«Io credo che la fase drammatica che stiamo vivendo aiuti noi scrittori a essere più attenti alla realtà, più attivi. Non è un caso che oggi la nostra letteratura sia tra le più interessanti, e che noi letterati veniamo chiamati a commentare quasi quotidianamente le vicende del nostro Paese sui giornali di tutto il mondo. Siamo legati agli avvenimenti, vogliamo dialogare con chi legge, aiutarlo a capire. Ecco: da questo nasce la grande energia che vedo nella cultura israeliana degli ultimi anni».
– A volte, sembra che la pace in Medio Oriente sia più vicina. Poi, puntualmente, arriva qualche fatto doloroso che riporta la situazione al punto di partenza. Finirà, secondo lei, questa drammatica crisi?
«Finché gli americani e gli europei non si impegneranno davvero per un accordo in Medio Oriente, le cose non potranno che restare come sono o peggiorare. Nell’ultimo anno, la situazione ha raggiunto un punto tragico. A tratti, mi capita di disperare che la pace sia raggiungibile. Vedere la nostra terra insanguinata dal terrorismo, vedere i proclami di innocenza di Arafat ai quali ormai non crede più nessuno, vedere missili israeliani raggiungere città palestinesi, è straziante. E constatare che, mentre accade questo, gli Stati Uniti pensano solo a come attaccare l’Iraq e vogliono far capire al mondo che l’unico problema che conta è Saddam Hussein, mi riempie di rabbia e di tristezza. Sì, temo davvero che, fra qualche tempo, uomini come il professor Rivlin e donne come Samaher saranno soltanto un ricordo, e vincerà l’odio».
Tommaso Debenedetti – La Sicilia 13.10.02