CONTROMEMORIA Conversazione tra i professori Yirmiyahu Yovel e Yeshayahu Leibowitz sul significato della shoah. Marzo 1983
Yirmiyahu: Avraham Yehoshua Heshel sostiene che sono tre le questioni fondamentali riguardanti la riflessione della nostra generazione: la shoah, la salvezza e la perplessità della generazione; e aggiunge: «Esse sono l’essenza della Torah, e la nostra generazione le denigra». È d’accordo che la riflessione sulla shoah faccia parte dell’«essenza della Torah»?
Yeshayahu: No. La storia non possiede un significato religioso. Un’azione per avere un significato religioso deve essere compiuta in nome del cielo, e solo da questo punto di vista è possibile attribuire un significato religioso alle azioni storiche sia attive, come la guerra degli asmonei combattuta per la Torah, sia passive, come le sofferenze a causa della Torah nelle persecuzioni del 1096, e dei decreti del 1648, quando sante comunità sacrificarono la propria vita per la santificazione del nome divino: questi avvenimenti hanno un significato religioso.
La fondazione dello Stato di Israele non possiede un significato religioso, poiché non fu un’azione compiuta in nome del cielo, ma da ebrei che, stanchi del governo delle nazioni, cercarono l’indipendenza nazionale politica nella propria terra; fatto che è veramente naturale e corretto. Similmente, anche la shoah non possiede un significato religioso, poiché è l’esito del ritrovarsi senza protezione nelle mani dei malvagi del mondo.
Maimonide scrive, nelle Leggi del digiuno: «E un precetto attivo gridare e far suonare le trombe per ogni afflizione che colpisce Israele.. tuttavia se non griderete e non farete suonare, ma direte: ‘Questa cosa ci è accaduta secondo gli usi del mondo, quest’afflizione c’è capitata per caso’, questo è un atteggiamento crudele e fa sì che quelli rimangano attaccati alle loro cattive azioni; così all’afflizione si aggiungeranno altre afflizioni».
Queste parole però hanno una rilevanza morale, e la concezione di Maimonide è estremamente chiara.
Egli pensa che per orientare la coscienza dei figli d’Israele verso il ravvedimento e verso Dio si debba agire in questo modo, ma poiché il popolo ebraico oggi non è il popolo della Torah, queste parole non hanno nessun senso.
Come considera l’esortazione morale dei profeti d’Israele?
Nella religione non esiste la morale. I profeti non hanno conosciuto in nessun modo le categorie della morale, ma hanno richiesto il servizio del Signore.
La morale è una categoria chiaramente atea.
Dal punto di vista fattuale, la Torah descrive l’intervento effettivo del Signore; come nel diluvio.
Sì, ma esso fallì.
Ma ebbe luogo!
La Torah stessa testimonia che fallì. Il diluvio non restaurò il mondo, l’uscita dall’Egitto non condusse il popolo alla fede, il dono della Torah non impedì al popolo di costruire il vitello, e tutti i profeti che sorsero per Israele, nel corso di venti generazioni, non riuscirono a far tornare sulla retta via nemmeno una persona. Nonostante ciò, lei sa, come me, che, nella storia del popolo ebraico, nel corso di alcune centinaia d’anni, vi furono decine di generazioni in cui una moltitudine di ebrei si aggrappò al Signore e alla sua Torah, e per essa diedero persino la propria vita.
E sono le generazioni cui Dio non si è mai rivelato, quelle che nel corso della loro storia non ebbero nessun indizio dell’esistenza della provvidenza divina nel mondo, anzi tutt’altro, però proprio queste credettero. Perciò possiamo dire che non vi è nessun legame tra la fede e la realtà oggettiva.
Mi sembra che si tratti di due questioni differenti. La prima: c’è un legame tra la fede e l’intervento divino? La seconda: c’è o non c’è assolutamente un simile intervento?
La storia non prova ciò.
Secondo lei non prova che vi sia stato un intervento?
Se c’è stato, non è riuscito. Non è d’accordo con me che quelle decine di generazioni di ebrei – in cui una moltitudine di persone si aggrappò al Signore e alla sua Torah, moltitudine pronta persino a sacrificare la propria vita per la fede – furono le stesse cui nessuna cosa nel mondo diede testimonianza della provvidenza divina?
Ciò che ha appena detto è difficile da comprendere, poiché tutta la letteratura sostiene il contrario! Per esempio, nel trattato Meghillah (12a) è posta la questione: «Per quale ragione furono condannati i nemici di Israele (‘I nemici di Israele’ è un eufemismo per Israele) di quella generazione (la generazione di Mardocheo ed Ester, durante il regno di Assuero) allo sterminio?». Che cosa significa questa domanda?
Non vi è una risposta a questa domanda.
La ghemarà dà una risposta proprio a questa domanda.
Ma sono risposte fantasiose, che non hanno nessun significato, una specie di esercizio intellettuale. In realtà, la fede e l’attaccamento di quegli ebrei al Signore non erano per niente legati al fatto che avessero trovato una risposta a questa domanda.
Ma lei nega, di fatto, che si possa porre una simile domanda?
Dal punto di vista speculativo è possibile soffermarsi su una tale questione, ma io credo che sia inutile. Tra me e lei esiste una differenza: lei si occupa di testi, io della realtà. Per me l’ebraismo è una questione di realtà e non di testi!
La realtà dell’ebraismo consiste nel fatto che la fede ebraica esiste senza nessun legame con l’intervento divino nel mondo, e questo è un fatto. E se anche si parla di miracoli e d’interventi divini, tutto ciò non è mai servito a nulla, e non ha mai condotto nessun uomo alla fede.
Lei conosce sicuramente la storia di Elishà ben Abuyah, di come divenne un altro2. Una volta, mentre si trovava accanto al frutteto, vide il proprietario che chiedeva al proprio figlio di salire sull’albero, per prendere dal nido le uova, e cacciare la madre, secondo il precetto di «cacciare dal nido», pronunciato nella Torah (Dt 22,6-7). Il bambino andò ad adempiere la richiesta di suo padre, e così esegui due precetti in una sola volta: il precetto di onorare il padre e la madre, e il precetto di cacciare dal nido. E lei sa che solamente per quei due precetti sono annunciate nella Torah delle ricompense: «Affinché si prolunghino i tuoi giorni» (Es 20,12), e: «Affinché tu stia bene e prolunghi i tuoi giorni» (Dt 22,7). Tuttavia mentre si recava a compiere questi due precetti il bambino cadde dall’albero e morì. Elishà ben Abuyah, che conosceva bene la Torah e le sue promesse, e che, d’altra parte, aveva visto quel bambino morire mentre si recava ad adempiere i due precetti, divenne un altro, o secondo il linguaggio dei nostri Saggi: «Si incamminò verso una cattiva cultura». Tuttavia Elishà ben Abuyah aveva un grande amico, rabbi Aqiva, che pure conosceva bene la Torah e i versetti delle promesse, e che non fu turbato affatto dall’evento.
Di rabbi Aqiva è raccontato nel midrash di come interpreta e commenta il versetto della Torah: «E amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza» (Dt 6,8); così dice: «’Con tutta la tua anima’. Persino se ti è presa l’anima!».
Bisogna capire che se la fede è legata all’intervento di Dio nel mondo non può durare.
D’altra parte, vi sono eventi che sono accaduti proprio in questo modo, come la distruzione del Tempio, spiegata sempre tramite cause specifiche, senza le quali il Tempio non sarebbe stato distrutto. E così, i Saggi che fissarono l’halakhah sostengono che, se i figli di Israele non si fossero dedicati all’idolatria, alle relazioni sessuali illecite e allo spargimento di sangue, il primo Tempio non sarebbe stato distrutto e, se non avessero provato un odio gratuito, nemmeno il secondo Tempio sarebbe stato distrutto.
Tutti possono sempre dire se!
Ma non si può negare che persone giuste, rette e integre, lungo tutto il corso della storia, abbiano sofferto e siano state uccise.
Esiste una grande differenza tra la fede fondata sulle promesse divine e la fede fondata su Dio, differenza che è un contrasto.
Elisha’ ben Abuyah credeva alle promesse divine, e per questa ragione rinnegò la sua fede.
La scelta tra una fede fondata sulle promesse divine e una fede fondata su Dio ha trovato la sua espressione nella parashah della legatura, dove tutte le promesse di Dio furono cancellate, come quelle dei seguenti passi: «Poiché in Isacco sarà nominata la tua discendenza» (Gn 21,12), «Alla tua discendenza darò questa terra» (Es 12,7). Tuttavia Abramo, nostro padre, non protestò, chiedendo: «Non mi era forse stato promesso?».
Il problema della fede è di credere in Dio e non nelle promesse divine, poiché anche l’idolatra crede nelle promesse divine, ed è questa la ragione per cui la legatura è divenuta simbolo della fede in Dio. La condizione religiosa consiste nell’obbligo che l’uomo ha verso Dio.
E che cosa fanno le persone che non possiedono una fede vera? Capovolgono la realtà e s’interrogano su che cosa Dio debba fare per l’uomo. Dio non deve niente all’uomo, è l’uomo che ha dei doveri verso Dio.
Alcuni sostengono che non sia più possibile credere dopo la shoah.
Quando mai è stato facile credere in Dio?
Credere in Dio è una grande decisione per l’uomo!
Niente nel mondo testimonia di Dio!
Che cosa è dunque cambiato con la shoah?
Forse prima della shoah non esistevano degli increduli? Lei pensa che dopo la shoah non ci siano più dei credenti?
Lei ha criticato quei pensatori la cui occupazione principale è la shoah.
Ad esempio, ho visto nel giornale che la moglie del professor Fackenheim, uno di quelli che più parlano della shoah, non è ebrea.
Quest’uomo vuol essere ebreo e nel frattempo è sposato a una non ebrea; qual è dunque il significato del suo essere ebreo? Ossia, la sua ebraicità e il suo ebraismo si esprimono nel fatto che si occupa della shoah.
Questa cosa vale per molti ebrei oggi, che fuggono i problemi della vita ebraica occupandosi della morte dell’ebreo.
Chi crede in Dio è interessato alla storia solo in quanto storia, ma non dal punto di vista religioso.
Soltanto per chi crede che Dio sia una specie di capo del governo celeste esiste la questione, poiché vede nella shoah il fallimento o l’insuccesso del governo celeste.
Di fatto, questa è la posizione di Wiesel.
Certo che è la posizione di Wiesel, che non crede in Dio, e così molti altri.
Negli articoli che ha pubblicato, distingue tra una provvidenza generale e una particolare.
Sì, la provvidenza generale consiste nel mondo così com’è, con tutti i suoi orrori.
Il poeta Uri Tsvi Greenberg s’indigna per l’uso del termine shoah, e parla di distruzione del popolo, vedendo nella shoah la distruzione della diaspora. Molti altri con lui hanno tratto delle conclusioni riguardo al permanere del popolo nella diaspora. Che cosa ne pensa?
È d’accordo con me che dai giorni del primo ebreo, Abramo, nostro padre, sino a oggi, gli ebrei non si sono mai trovati così bene in tutto il mondo?
Direi presso una parte dei popoli; però in Russia, ad esempio, meno.
Anche nella descrizione della situazione degli ebrei in Russia vi è una parte di menzogna. Loro là stanno meglio degli stessi russi. All’interno del popolo russo, decine di milioni di persone vivono ancora nei villaggi sperduti, non raggiunti dalla civilizzazione, tuttavia non troverà un ebreo che viva in un villaggio sperduto, non raggiunto dalla civilizzazione.
In Russia, di fatto, gli ebrei appartengono alla borghesia cittadina, anche se non è chiamata con questo nome. Gli ebrei hanno, tra tutti i popoli della Russia, la percentuale più alta di universitari, molto più grande di quella degli stessi russi. Là, nessun ebreo si trova in una situazione di pericolo fisico, tuttavia gli ebrei perdono la loro ebraicità, ma questa è un’altra questione. La grande maggioranza non è interessata a esercitare il proprio ebraismo. Persino nella Russia sovietica, e non è necessario nominare Stati come l’America, l’Inghilterra, il Canada o la Francia, mai gli ebrei si sono trovati bene come oggi.
E sa qual è oggi il luogo più pericoloso per l’esistenza degli ebrei in tutto il mondo?
Lei sostiene che quel luogo si trovi qui; nello Stato d’Israele.
Non lo sostengo, è un fatto!
Ne risulta che, secondo la sua opinione, non si deve accogliere l’idea per cui la shoah sarebbe la distruzione della diaspora, nel senso globale del termine.
Distruzione della diaspora. Naturalmente!
La parte principale del popolo ebraico è stata distrutta, e a ciò non si può porre rimedio.
Ma non apprendiamo, da ciò, la necessità di una rinascita nazionale e dell’edificazione dello Stato?
Che cosa significa rinascita nazionale? Secondo lei gli ebrei erano privi di sentimento nazionale? Questo sentimento nazionale manca loro proprio oggi, essendosi confusi tra le nazioni. Gli ebrei nella diaspora possedevano un nazionalismo radicale: non parlavano le lingue dei non ebrei, non si vestivano come loro, con loro non mangiavano e non bevevano, e con i non ebrei neppure si sposavano.
Tuttavia non avevano un’indipendenza politica. Lo Stato d’Israele è il quadro di riferimento dell’indipendenza nazionale politica del popolo ebraico nella sua terra, e questa è, di fatto, la definizione del sionismo, ma vi sono oggi molti ebrei che non sono interessati a ciò.
Vi sono persone che individuano un legame logico tra la shoah e la rinascita.
Qual è il legame che trova tra la shoah e la rinascita?
La shoah ha fatto sì che lo Stato d’Israele fosse un piccolo Stato, poiché la parte principale del popolo ebraico è stata distrutta, e questo è tutto.
Lo Stato d’Israele sorse per la combinazione di due ragioni. Cinquant’anni prima della shoah esisteva già il movimento sionistico, esso operò sessant’anni prima della nascita dello Stato, preparandone il terreno.
La seconda ragione consiste nel fatto che l’impero britannico, in seguito alla Seconda guerra mondiale e al processo di decolonizzazione, si sgretolò, e che gli Stati Uniti d’America e l’URSS s’interessarono alla fondazione dello Stato d’Israele.
Tuttavia tutto questo non ha nessun legame con la shoah.
Il rabbino Tsvi Yehudah Quq sostiene che «la shoah ha rappresentato per noi una follia nazionale, sociale, politica e persino di visione del mondo». Qual è, in questo momento, secondo il suo punto di vista, l’influsso della shoah sugli ebrei?
Io sostengo che la shoah non ha esercitato nessun influsso sul popolo ebraico, sotto nessuna forma.
Ho sentito la figlia di un sopravvissuto alla shoah dire la seguente frase: «Essere oggi ebrei significa soffrire»; secondo lei questa frase non risente dell’influsso della shoah?
Questa è semplicemente una menzogna! Le ho già detto che mai gli ebrei si sono trovati bene come ai nostri giorni. Forse può provare a mostrarmi un luogo nel mondo in cui gli ebrei oggi soffrono? Che grande menzogna è affermare che gli ebrei soffrono!
Nemmeno sotto il governo dei generali fascisti in Argentina un ebreo fu ferito in quanto ebreo e così sotto il governo di Khomeini in Iran.
Lei ha descritto, una volta, la shoah come un terremoto. Secondo lei anche se un terremoto è molto difficile da prevedere, è possibile che vi sia una nuova shoah?
Questo è impossibile prevederlo. In questo momento niente nel mondo indica che la shoah possa tornare; tuttavia non sto dicendo che non può esservi un’altra shoah, ma, come ho appena detto, che non vi sono segni di una tale possibilità.
Per quanto riguarda il futuro, noi non lo conosciamo. E non vi è nessuna certezza.
Per il futuro, tutto è possibile.
In contrapposizione, i pericoli prevedibili per lo Stato d’Israele li osserviamo con i nostri occhi.
Brano tratto da:
Yeshayahu Leibowitz – Le feste ebraiche
Jaca Book, 2010 – € 24