Mauro Perani
Non tutti sanno che, oltre a un olocausto del popolo ebraico, ossia allo sterminio di sei milioni di ebrei – pari ad un terzo di quelli esistenti al mondo negli anni Quaranta del Novecento – perpetrato dal potere nazista con la soluzione finale, alla quale si unì con zelo anche il fascismo in Italia, esiste un olocausto del libro ebraico.
Qualche decennio fa si usava quasi esclusivamente questo termine che deriva dal greco olos ‘tutto’, e kauzo ‘brucio’ ossia: “completamente bruciato”. Nel Pentateuco, i cinque libri di Mosè che gli ebrei chiamano Torah, il termine olocausto indica un sacrificio completo nel quale la vittima offerta a Dio veniva interamente bruciata, per distinguerlo dai sacrifici pacifici o di comunione, nei quali, invece, una parte della vittima veniva mangiata dai sacerdoti e dagli offerenti. In ebraico, però, olocausto si dice ‘olah, la cui etimologia deriva dal verbo ‘alah, ‘salire, esi riferisce al fatto che il fumo e il soave odore della vittima bruciata sale fino a Dio.
Da qualche tempo si è progressivamente abbandonato il termine di origine greca olocausto a favore del termine ebraico Shoah, il quale deriva dalla radice verbale ebraica Sha’ah1 che significa “divenire desolato, essere rovinato, crollare in rovina, essere devastato, essere devastato”; la seconda sfera semantica del verbo Sha’ah2, certamente secondaria ma ugualmente evocativa, connota invece i concetti di “essere meravigliato, attonito, restare in silenzio senza parole, ammutolire”. Nel primo senso il verbo si trova nella Bibbia ebraica, ad esempio nel passo di Isaia 6,11 quando il profeta chiede a Dio che cosa significhi la sua affermazione Rendi insensibile il cuore di questo popolo, fallo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi (Is. 6,10). Alla domanda del profeta: Fino a quando, Signore? Egli rispose: “Finché non siano devastate (Sha’u) le città, senza abitanti, le case senza uomini e la campagna resti devastata (tissha’e) e desolata”. I due verbi che ho sottolineato in ebraico sono quello da cui deriva il sostantivo Shoah, il cui senso è, dunque “distruzione, rovina, catastrofe, cataclisma, disastro, tenebra, voragine, abisso”.
Il cambiamento terminologico intervenuto per indicare lo sterminio di sei milioni di ebrei, condotto dai nazi-fascisti in maniera scientifica e industriale, è dipeso anche dal fatto che il termine olocausto agli ebrei non piaceva, perché non amavano confermare l’idea di un loro destino storico di vittime, di popolo maledetto destinato a fare da capro espiatorio non si sa a quali mali, di destino di vittima sacrificale totalmente bruciata e offerta a Dio.
Fatta questa premessa, vorrei mostrare come sia esistita nella storia degli ebrei, e specialmente nel Novecento, anche una Shoah del libro ebraico, il quale non è stato meno errante e perseguitato del popolo che lo ha prodotto. Dopo l’altra grande catastrofe che segnò la cesura dell’ebraismo antico del primo millennio dell’era volgare, sia di quello pre-esilico (secc. XI-VI a.e.v.) sia di quello del Secondo Tempio (secc. V a.e.v. – I e.v.), e il ramificarsi dell’ebraismo in due grandi rami: il giudaismo rabbinico e il giudaismo del gruppo messianico-apocalittico dei seguaci di Yeshua di Nazaret, il primo ramo del giudaismo divenne a pieno titolo vera religione del libro in quanto religiose nella Torah scritta e orale. Una forma di religione che, perduto per sempre il Tempio e il sacerdozio, la città santa e la Terra promessa, punta sulla sola cosa che gli era rimasta e che poteva portarsi sotto braccio nelle regioni della diaspora europea e vicino-orientale: il rotolo della Torah e gli altri rotoli della Bibbia ebraica, fatta di altri 19 libri. Un giudaismo rabbinico senza libro non è pensabile e questo spiega perché gli ebrei da duemila anni imparano – specialmente i maschi – a leggere e scrivere fin da bambini proprio sul loro testo più sacro e per una motivazione religiosa: fra l’altro a tredici anni, durante rito del Bar mitzwah (figlio del precetto), il ragazzo deve leggere dal rotolo della Torah il testo non vocalizzato della sezione del Pentateuco di quel sabato. Credo che questo possa spiegare una certa agilità delle loro menti, perché da duemila anni gli ebrei passano diverse ore a studiare la Bibbia e il Talmud, passando tutti i giorni per diverse ore nella palestra della mente; e la loro mente si è sviluppata come le spalle di un ragazzo che fa tanta palestra. Questo potrebbe spiegare, senza ricorrere a ridicole teorie, perché il trenta per cento dei premi Nobel sia dato a ebrei, senza scomodare l’idea di una loro superiorità.
Ma torniamo al libro ebraico. Fin dal Medioevo la Chiesa ritenne ripetutamente di poter convertire più facilmente i membri del “popolo maledetto perché deicida”, distruggendo i suoi libri, ritenuti la radice e l’origine della loro erronea dottrina e delle loro superstizioni e pervicacia a rimanere nel loro “errore”.
Nel 1239 un ebreo convertito francese di nome Nicola Donin – per la sindrome del convertito, in genere i convertiti nella storia sono sempre stati i peggiori nemici dei loro ex correligionari –segnalò a Papa Gregorio IX le bestemmie contenute nel Talmud relative a Cristo e alla Vergine. Nel 1242 a Parigi si narra di come fossero stati raccolti quattordici carri di libri ebraici, di Talmud in particolare, poi bruciati al rogo, seguito due anni dopo nel 1244 da un altro rogo di dieci carri. Negli anni Cinquanta del Duecento continua la confisca e il bruciamento dei libri ebraici, mentre nel 1263 Clemente IV ordina al sovrano di Aragona di sequestrare tutti i libri degli ebrei. Nel 1299 Filippo il bello comanda ai giudici di favorire l’opera dell’Inquisizione nella espurgazione e distruzione dei libri ebraici e, come conseguenza, nel 1309 a Parigi vengono bruciati altri tre carri di libri. Nel 1319 due carretti di libri ebraici vengono bruciati a Tolosa e altri sequestri e roghi sono promossi dai pontefici Giovanni XXII nel 1320, Alessandro V nel 1409 raggiungendo l’apice con Papa Giulio III nel 1553, che segna la svolta della politica della Chiesa verso gli ebrei. Sono ancora degli ebrei conversi che denunciano al papa le presunte “bestemmie anticristiane” contenute nel Talmud. Il papa Giulio III ordina il sequestro e il rogo di tutti gli esemplari di quest’opera, i quali sono bruciati a Roma in Campo dei fiori nel settembre di quell’anno 1553.
Nel clima del Concilio tridentino, la Chiesa imprime un giro di vite alla persecuzione degli ebrei e al tentativo conversioni stico. Nel 1555 Papa Paolo IV, l’ex Cardinal Carafa esponente di spicco dell’Inquisizione romana, emana la bolla che ordina la chiusura degli ebrei nei ghetti.
Sequestri e roghi si susseguono in molte città governate da principi cristiani, e fra esse Bologna, e Cremona, dove nel 1569 si bruciano al rogo 12.000 copie del Talmud. Un illustre studioso ebreo di questo periodo, Abraham ben Meshullam da Sant’Angelo, presente a Bologna negli anni Sessanta del Cinquecento, in una lettera della fine del 1568 scrive suo cognato Manoach Lattes di Roma, al quale suo figlio trovava dei maestri per delle lezioni di Talmud Torah, che non era più in grado di trovargli dei maestri perché non si trova più a Bologna un testo su cui poter fare lezione. Egli, infatti scrive: “Sono venute a mancare dai nostri recipienti le acque della sorgente che non si esaurisce, ossia le acque della Torah e dei testi sacri. Tutti quanti i libri, infatti, sono stati sequestrati e si trovano nelle mani del commissario, ad eccezione di pochi Siddurim per la preghiera. Per questo il mio amato figlio Meshullam, lo custodisca la sua Roccia, non è in grado di fissare (per tuo figlio) con alcun maestro delle lezioni regolari per lo studio della Torah”[1].
A Bologna centinaia di fogli e bifogli di esemplari in pergamena del Talmud, la maggioranza dei quali copiati nella penisola iberica tra il sec. XI e il XV, e portati in Italia dagli esuli in seguito all’espulsione degli ebrei ordinata nel 1492 dai sovrani aragonesi Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia, si sono miracolosamente salvati per il fatto che, invece di essere bruciati, sono stati sottratti dai roghi e riusati per confezionare legature di registri notarili e di altro genere, oggi specialmente conservati presso l’Archivio di Stato di Bologna, e di altre città.
Sequestri e roghi proseguirono nei secoli successivi, fino a giungere a quelli perpetrati dalla furia nazi-fascista negli anni Quaranta del Novecento. In Italia i fascisti devastarono e distrussero molte sinagoghe, con tutti i loro apparati liturgici e i libri delle loro biblioteche. In questo senso si conoscono, anche per la Shoah del libro ebraico, bellissime storie di cristiani veri, membri del semplice popolo di Dio, che salvarono con amore fraterno anche questo prezioso patrimonio della fede ebraica. Si narra che in alcune chiese il parroco nascondesse i rotoli della Torah e i candelabri ebraici sotto l’altare della sua chiesa. Gesti di fraternità che testimoniarono l’amore cristiano, come i parroci, i frati e le suore che, a rischio della propria vita, nascosero ebrei nelle canoniche, nei conventi e nei seminari, come il bel caso dei Ragazzi di Villa Emma a Nonantola.
Nel 1938, i fascisti italiani fecero un autodafé (atto di fede) bruciando i libri degli ebrei di Torino. Nel 1943 i nazisti depredarono i tesori più preziosi della Biblioteca del Collegio Rabbinico italiano e della Comunità ebraica di Roma, pregiatissimi e preziosi manoscritti ed edizioni a stampa accumulati nella bimillenaria storia di quella comunità, che poi furono venduti nel mercato antiquario e che oggi abbelliscono le biblioteche dei tre continenti, specialmente le biblioteche americane e in particolare la Library of the Congress. Ho visto la settimana scorsa quelli rimasti, anche in vista di una catalogazione che ancora manca. Questa razzia avvenne Il 14 ottobre del 1943 quando “due carri merci delle ferrovie tedesche arrivano sulle rotaie del tram e portano via tutto quello che possono caricare, ossia più di 10.000 opere accuratamente impilate e avvolte in carta da pacchi” (Lucien X. Polastron, Livres en feu. Histoire de la destruction sans fin des bibliothèques, Denoël, Paris, 2004, edizione italiana 179-193).
Vorrei concludere con la menzione di episodi avvenuti non lontano da Imola. Nel 1943 i fascisti devastarono le tre sinagoghe della Comunità ebraica di Ferrara, site in via Mazzini. Fra le altre cose bruciarono molti libri e rotoli del Pentateuco. Preziosi documenti, archivi della popolazione, registri, carte di grande interesse tutto o quasi fini bruciato. Qualche volta avvenne che, a spettacolo quasi finito, prima che il fuoco divorasse tutti i libri e i manoscritti, qualcuno sottrasse al rogo alcuni rotoli mezzi bruciati che, con le tracce del loro “forno crematorio”, tuttavia si conservarono. Un frammento di Sefer Torah sopravvissuto in tal modo è visibile presso il Museo interreligioso di Bertinoro, allestito presso la Rocca, proprio nell’ingresso.
Lugo, a partire dal Seicento, era divenuta un centro molto importante della presenza ebraica nell’Italia settentrionale, avendo nel 1630 gli ebrei in essa residenti raggiunto il numero di 600 pari al 10 per cento della popolazione totale lughese, che all’epoca era di 6000 anime. Quella comunità si ridusse drasticamente con l’Ottocento, fino quasi scomparire durante la seconda Guerra mondiale, essendosi la maggior parte spostata a Milano e nelle città industriali. La diaspora dei loro libri era già cominciata con il sec. XIX e proseguì nel Novecento, poiché di un Registro dei Morti compilato in ebraico per quasi due secoli, dal 1658 al 1825, dalla Comunità ebraica di Lugo è documentata la presenza a New York già nel 1919. Quando nell’aprile del 2011 ho potuto prenderlo fra le mie mani e fotografarlo, assieme a diversi altri manoscritti degli ebrei lughesi, l’emozione è stata grande, e anche il dispiacere che da Lugo quei preziosi manoscritti siano finiti nella Biblioteca del Jewish Theological Seminary di New York, come tantissima parte del patrimonio librario e dei beni culturali appartenuti e prodotti dagli ebrei italiani. Ma il dispiacere mi è subito passato pensando che quei preziosi testi si sono salvati proprio grazie al fatto di essere stati venduti, come Giuseppe dai fratelli. In questo modo sono dei sopravvissuti alla Shoah, perché gli altri manoscritti che erano rimasti a Lugo, o negli archivi di altre comunità ebraiche italiane, sono andati bruciati dai nazi-fascisti che devastarono e distrussero tante sinagoghe fra cui quella di Lugo e i libri che erano rimasti.
Mauro Perani
Ordinario di Ebraico presso l’Università di Bologna
[1] M. Perani, Confisca, censura e roghi di libri ebraici a Bologna nella seconda metà del Cinquecento, in M. Perani (cur.), La cultura ebraica a Bologna fra medioevo e rinascimento, Atti del convegno internazionale, Bologna 9 aprile 2000, AISG “Testi e studi” n. 12, Firenze, Giuntina 2002, p. 109.