Paola Navotti – 4 Luglio 2025
Dalia Gubbay è assessore alle scuole della comunità ebraica di Milano e consigliere della Fondazione Scuola, ente filantropico impegnato a supportare le esigenze della Scuola Ebraica milanese. Madre di 6 figli – dai 15 ai 31 anni – e nonna di 3 nipotini, Dalia Gubbay è nata a Milano nel 1967 da padre egiziano e madre siriana. Ha trascorso molto tempo in Israele: sia durante le estati della sua gioventù, sia nei numerosi viaggi legati alla sua attuale attività istituzionale. In passato è stata anche consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e del movimento giovanile ebraico Benè Akiva.
Fin da quando svolgeva il lavoro di maestra d’asilo, il mondo dell’educazione ha rappresentato il fulcro dei suoi interessi: tanto più oggi, nell’atroce momento storico che il popolo ebraico sta attraversando, traspare in lei una dedizione tutta tesa a preservare nelle nuove generazioni ebraiche uno sguardo di speranza.
La incontriamo nel 627° giorno del conflitto conseguito all’attacco terroristico con cui Hamas ha colpito Israele. Era l’alba del 7 ottobre 2023 e, da allora, le notti sono state insonni per molti, non solo in Israele e a Gaza, ma ovunque.
Di fronte alle atrocità commesse in guerra rimane oggi, paradossalmente, la vita… La vita degli ostaggi e la vita di coloro che li aspettano a casa. La vita di tante e tanti orfani di guerra e la vita di genitori straziati dai lutti. La vita dei soldati chiamati al lavoro più terribile del mondo e la vita di chi decide il loro destino. Rimane la vita, anche lontano da Israele, di giovani terrorizzati dal futuro e la vita di chi è chiamato quotidianamente ad accompagnarli. Tra questi ultimi si trova Dalia Gubbay.
Dopo il 7 ottobre, come avete vissuto a scuola?
È stato un momento durissimo. Il valore della vita, il rispetto per l’altro, la dignità delle persone: per la cultura ebraica non si tratta di principi astratti, ma del cuore della mentalità, dello sguardo umano che cerchiamo di trasmettere ai nostri studenti. Subito dopo l’attacco ci siamo resi conto che avevamo bisogno di aiuto per, a nostra volta, aiutare i ragazzi a reggere l’impatto emotivo e psicologico provocato dagli eventi. Il professor Fabio Sbattella dell’Università Cattolica di Milano, con il suo team specializzato in psicologia dell’emergenza ha osservato la situazione, ha parlato con le classi e ha indirizzato verso una pratica di condivisione di emozioni e vissuti. I ragazzi hanno accolto positivamente questa possibilità, scegliendo quasi sempre un confronto di gruppo, piuttosto che lo sportello individuale: riflettendo sul perché di questa preferenza, io credo sia per il profondo senso di appartenenza che, fin dall’infanzia, ogni membro della comunità sente verso il popolo ebraico. Ci sentiamo parte di qualcosa di più grande di noi stessi e questo ci spinge ad essere il più possibile insieme, anche nell’elaborazione dei traumi. Proprio a partire da questo senso di popolo, il prof. Sbattella ha impostato il suo lavoro tra noi a scuola, e così ci siamo ancora di più resi conto che siamo un unico corpo, un’unica famiglia nella quale ogni membro sostiene, consola e supporta l’altro. Come quando, subito dopo il 7 ottobre, è venuto a scuola il presidente della comunità ebraica di Milano Walker Meghnagi, rincuorando gli studenti con la stessa energia affettiva con la quale un padre di famiglia sorregge nei momenti più bui.
Dopo il 7 ottobre, la scuola ebraica di Milano ha accolto decine di studenti israeliani fuggiti dal conflitto. Come si è sviluppata la convivenza tra chi scappava dalla guerra e chi la stava vivendo da lontano?
Come un abbraccio. Quando diverse famiglie israeliane hanno iniziato a chiederci ospitalità, ci siamo tutti mobilitati affinché potessero sentirsi a casa, più che ospiti. Non è stato banale perché, per esempio, alcuni parlavano solo l’ebraico e ciò rendeva più faticosa l’immediatezza nelle relazioni. Subito dopo l’attacco, le scuole israeliane erano state ovviamente chiuse e i ragazzi facevano lezione in didattica a distanza: noi abbiamo cercato il più possibile di accogliere i loro bisogni, anche quando facevano fatica ad essere esplicitati, cercando di trasmettere una solidarietà viscerale che non li facesse mai sentire soli, mai abbandonati. Mai incompresi.
Nell’arco di un mese e mezzo, a ridosso del 7 ottobre, abbiamo ospitato a scuola circa 50 bambini. È stata un’esperienza di un’intensità emotiva e affettiva fortissima, tanto che rimangono nella memoria gli sguardi e le storie di tutti coloro che sono passati da noi: di chi è scampato ai rapimenti; di chi ha visto morire padri e madri; di chi è riuscito a nascondersi in luoghi di fortuna; di tantissimi che, nonostante tutto, hanno deciso di tornare in Israele. Come una famiglia che veniva da uno dei kibbutz attaccati e che era rimasta otto ore nascosta in un armadio: sono stati da noi per un po’, ma poi sono tornati in Israele. Mi sono spesso chiesta da dove venga questo coraggio ai limiti dell’umano. Pur essendo difficile darne una definizione, credo di poter descrivere questo coraggio come un bisogno vitale, qualcosa di cui si sente la necessità per vivere. Stare insieme ai fratelli e le sorelle, non abbandonare la terra di Israele, patria comune agli ebrei di tutto il mondo, è ciò che alimenta un coraggio misterioso. Anche pensando a me, posso dire che in ogni momento avrei desiderio di essere là. Perfino adesso, dopo il bombardamento americano alle basi nucleari in Iran.
Lei è andata spesso in Israele anche dopo il 7 ottobre: che cosa ha visto?
Da quel giorno ci sono andata otto volte e ho visto tante sofferenze, tanti conflitti esistenziali derivanti da un comune senso di tradimento, di rottura del patto di fiducia che dovrebbe sempre legare ogni essere umano agli altri, soprattutto nei momenti di vulnerabilità.
D’altra parte, per Israele i palestinesi sono i vicini di casa, non sono i nemici: fino al 7 ottobre, a ridosso della Striscia si viveva in pace gli uni accanto agli altri. E nelle città israeliane gli arabi continuano a lavorare in tutti i settori, dagli ospedali ai servizi pubblici, in totale armonia con gli ebrei. Ecco, come accade nei rapporti più duraturi, in cui le delusioni e i dispiaceri più grandi sono sempre affettivi, così accade oggi tra ebrei e palestinesi: siamo traumatizzati dal dolore di legami traditi, prima che dalle ferite di sangue!
Non mi dimenticherò mai, da questo punto di vista, quando nel febbraio 2024 andai a visitare il kibbutz Kfar Aza – a circa cinque chilometri a est della Striscia – con un gruppo di rappresentanti delle comunità europee: una fotografa del luogo ci raccontò che un collega palestinese con cui collaborava da tempo le aveva chiesto di poter visionare alcune sue fotografie, mettendole poi a disposizione di chi stava pianificando l’attacco del 7 ottobre… «Mi ha distrutto il senso della pace», aveva commentato la fotografa israeliana. Ecco, questo esempio sintetizza un turbamento emotivo cocente al pari delle ferite fisiche. Eppure, come dimostrano le manifestazioni settimanali nella piazza degli Ostaggi a Tel Aviv, permane forte il desiderio di ritrovare un modo per convivere.
Da entrambe le parti, però, le atrocità della guerra continuano…
La guerra è sempre orrenda e noi non vogliamo giustificare nessuna forma di violenza. Certo è che, ancora una volta, l’antisemitismo colpisce il popolo ebraico. Sembra che i cattivi siamo solo noi… Sembra si sottovaluti il fatto che, fin dai primi anni di scuola, i bambini palestinesi partecipino a recite dove si vestono da soldati, interiorizzando sin da piccoli una narrazione militarizzata della vita. Sembra che nessuno sappia che il primo statuto di Hamas del 1988 incitasse esplicitamente alla violenza contro gli ebrei: «L’Ora [del Giudizio] non verrà finché i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e i musulmani li uccideranno; finché gli ebrei non si nasconderanno dietro pietre e alberi, e le pietre e gli alberi diranno: “O musulmano, servo di Allah, c’è un ebreo dietro di me, vieni e uccidilo”»[1].
Tutto ciò per dire che l’obiettivo di estirpare Hamas dovrebbe a mio avviso mobilitarci. Invece, continuano le manifestazioni contro di noi… e ciò pervade la mentalità in cui viviamo, come si vede negli episodi antisemiti che stanno accadendo anche nelle città italiane[2].
Nella scuola ebraica, come aiutate i ragazzi a non cadere nella logica del “noi contro loro”?
Continuando a celebrare la vita, a coltivare quei valori ispirati alla solidarietà e al rispetto dei diritti umani. Continuando a seminare empatia, a rifuggire ogni tipo di ideologia tirannica. Continuando a ricordare cosa può accadere quando si smette di vedere l’altro come essere umano. Continuando a tener viva la memoria, per non replicare le ferite della storia. Soprattutto decidendo ogni giorno di essere generativi di bene: è una responsabilità anche educativa che sembra limitata al nostro perimetro, ma non è così. L’educazione può incidere sul mondo intero.
Per questo nella nostra scuola si festeggiano annualmente otto ricorrenze ebraiche in cui ognuna racconta una storia di sopravvivenza, di miracoli, di resilienza, di perdono e di sofferenza. È la storia di un popolo che, ogni volta, riesce a rialzarsi grazie alla propria forza d’animo e alla protezione divina. Durante queste feste, i bambini mettono in scena recite meravigliose che esprimono gioia, memoria, identità, attenzione all’altro e tutto ciò rimane dentro di loro come un seme imperituro. Crescendo, diventano ovviamente consapevoli delle difficoltà e della fatica che a volte comporta il cammino, ma ciò che prevale è la gratitudine di far parte di un popolo che non rinuncia al sogno della pace, anche quando è guardato con diffidenza, come oggi.
Cosa significa per lei, per gli insegnanti e per i bambini della scuola ebraica, sperare nella pace?
Sperare in un miracolo: attenderlo, invocarlo, ripetere tra noi la sua necessità. Intanto, la vita continua e a noi tocca innanzitutto la responsabilità di educare ed educarci a vivere, prima che a sopravvivere: a non perdere cioè la voglia di futuro. E a non stancarci di sognare un tavolo in cui i grandi della terra possano concretizzare le basi di una tregua definitiva.
Al termine di questo dialogo, è stato inevitabile pensare a quella parola che gli ebrei ripetono sempre, quando si incontrano e quando si congedano: shalom, pace. Risuona oggi come un augurio benedicente e insieme un grido, un’invocazione, una supplica viscerale che oltrepassa tutti i vocabolari.
NOTE
[1] https://www.cesnur.org/2004/statuto_hamas.htm?utm_source=chatgpt.com
[2] Il riferimento, in particolare, è a quanto accaduto Milano il 17 giugno 2025, quando due ragazzi ebrei di 15 e 18 anni sono stati aggrediti all’uscita della sinagoga: insultati con frasi antisemite e derubati.
https://www.pedagogia.it/blog/2025/07/04/la-scuola-ebraica-israele-e-noi-intervista-a-dalia-gubbay/