Alfredo Mordehai Rabello
Possiamo dire che in linea generale la Torà vieta di accelerare, in modo diretto od indiretto, la morte di un malato terminale, colpito da sofferenze. Le fonti ebraiche danno tuttavia la possibilità di rivolgersi a D-o con la preghiera.
Il primo testo rilevante è Talmud Babilonese, Ketubot,104 a:
“È raccontato che il giorno in cui riposò l’anima [= morì] di Rabbì Jehudà [il redattore della Mishnà] i Rabbanim decretarono un digiuno e chiesero pietà [dal Cielo]….
In un primo momento la serva di Rabbì Jehudà [che conosceva bene la Torà e fungeva da infermiera] si associò alla Tefillà dei Rabbanim:
“La serva di Rabbì Jehudà salì sul tetto, [e] disse: i superiori richiedono Rabbi e gli inferiori richiedono Rabbi – Ti sia gradito che gli inferiori pieghino i superiori.”
Spiega il Maarsha [Rabbì Shmuel Eideles. 1555 Krakow, Polonia – 1631 Austria ] che i superiori rappresentano l’anima mentre gli inferiori il corpo.
In un secondo momento pero`, la serva, colpita dalle enormi sofferenze causate a Rabbi dalla malattia intestinale di cui soffriva, cercando di fare smettere per un momento la Tefilla` dei Rabbini con uno stratagemma, pregò che fosse gradito al Signore che i superiori pieghino gli inferiori; la sua preghiera fu esaudita e Rabbi morì. [Si veda Rav Shelomo Goren, Torat Harefuà, Gerusalemme, 2001, p. 49 (in ebraico)].
Scrive a tal proposito Rabbenu Nissim Gherondi (il Ran, XIV secolo): “mi sembra che questa sia l’intenzione del Talmud, talvolta dobbiamo chiedere pietà per il malato che muoia, come quando l’ammalato soffre parecchio e non può vivere, come e` riportato a proposito di Rabbi”. Il Ran ritiene quindi che avesse ragione la serva di Rabbi Jehuda hanassi` e non gli altri Saggi e si puo` arrivare alla conclusione che la halacha` ribadisce il divieto di agire per sollevare il malato con azioni che ne affrettino la morte, mentre sara` azione meritevole pregare per lui che possa avere una agonia breve.
Un altro caso viene riportato dal Talmud B. Nedarim 40 a che riguarda il dovere di andare a visitare gli ammalati; è riportato che Rabbi Achiva, uscito dalla camera di un suo allievo ammalato, si espresse dicendo: “Chiunque non visita ammalati è come se spargesse sangue”. E Rav Dimi disse che “chiunque visita un ammalato, lo fa vivere”.
Il brano conclude affermando che “ognuno che non visita un ammalato non chiede per lui misericordia, non che viva e non che muoia” (ivi).
Il terzo caso riguarda Rabbì Yochanan, amorà di Erez Israel e redattore del Talmud Jerushalmi che rimase talmente colpito dalla morte di suo cognato Resh Lakish, acuto compagno di studio, da divenire lui stesso malato di mente e sofferente, tanto che gli allievi pregarono per una morte rapida (Talmud Bavli, Bava Metzià 84 a).
A questa regola fanno eccezione i malati di parenti stretti per i quali non si potra` pregare per una morte rapida, temendosi che l’orante possa pensare piu` a se stesso che al suo parente. Vi è però chi ha permesso ai figli di pregare che venga diminuita la sofferenza della madre.
Vi e` infine da tener conto l’opinione dei mistici, che vedono in queste sofferenze un mezzo di espiazione delle colpe del malato terminale.
Si veda Preghiere per gli ammalati scelte e tradotte da R.Bonfil, Gerusalemme, 1969.