Giuseppe Momigliano
A partire dallo scorso sabato, la città di Tel Aviv ha introdotto un servizio pubblico di autobus che circolano di Shabbat collegando anche alcuni cittadine circostanti. In quanto ebreo della diaspora, non posso entrare nel merito di quanto questa azione modifichi una precedente situazione di “status quo” nei rapporti tra i settori religiosi e laici della seconda città d’Israele; il fatto però che sia stata adottata questa risposta con l’intenzione di venire incontro all’esigenze che una parte, evidentemente considerevole della popolazione, avverte e manifesta sul modo di trascorrere lo Shabbat, tutto ciò mi riguarda molto direttamente, come riguarda ogni ebreo, per il fatto che lo Shabbat è una delle espressioni fondamentali della vita e dell’identità ebraica.
Mi riguarda e mi preoccupa non meno degli altri temi della realtà israeliana che sono generalmente più al centro della nostra attenzione, da tutto ciò che riguarda la sicurezza alla situazione politica. Quello che io leggo in questo evolversi dei fatti è il dispiegarsi di una malattia in cui “il malato” rifiuta di riconoscersi come tale, anzi pretende di stare benissimo, e intende manifestare platealmente questo suo presunto stato ideale, i “medici” non trovano modo di curare il paziente, gli “amici lontani” assistono con incuriosita simpatia credendo di contemplare qualche idea interessante, senza accorgersi di trovarsi coinvolti da analoghi sintomi di un grave malessere. Il fatto che settori consistenti della società israeliana reclamino insistentemente l’introduzione di mezzi pubblici di shabbat, come viene riferito molto spesso per raggiungere i grandi centri commerciali, è segno di un grave disagio nell’identità ebraica, che si manifesta in Israele come nelle comunità della diaspora. Ricordiamo bene l’affermazione del grande pensatore Achad Ha’am che affermava “più di quanto il popolo ebraico abbia mantenuto lo shabbat è stato lo Shabbat a mantenere il popolo ebraico”, certo egli non si riferiva propriamente all’osservanza scrupolosa dei lavori proibiti di shabbat ma al fatto che da questa giornata, comunque speciale e diversa dalle altre, gli ebrei continuassero comunque ad attingere la forza morale per resistere alle avversità, per alimentare la capacità di sviluppare i valori e gli ideali più alti.
A parte questo considerazione, gettando uno sguardo al racconto biblico, nei libri storici dei Re e delle Cronache e nei Profeti, ci rendiamo conto di quanto fosse stato disastroso e foriero irreparabili disgrazie, tanto sul piano religioso che su quello nazionale, politico e militare, l’idea che lo stato ebraico potesse essere “uno stato come tutti gli altri”, ora il voler rendere lo Shabbat il giorno della visita ai grandi magazzini non è esattamente il segno manifesto di una società che vuole essere “come tutte le altre”? Questo è il sintomo di una malattia che si rifiuta di riconoscere, pensando che la maggior mobilità sia il modo giustamente reclamato per manifestarsi come una società libera e sana e non – invece – come un pubblico che sta smarrendo una parte fondamentale delle propria identità.
Chi dovrebbe curarla – i Maestri – non trova evidentemente terapie, non individua l’approccio adeguato, e chi questo approccio forse lo dispone trova scarso riscontro: sono usciti in questi giorni prese di posizione interessanti da parte di rabbanim come Yuval Sherlo, direttore della Yeshivà Orot Shaul, che lancia inascoltati appelli a mio parere assolutamente condivisibili “Non calpestate lo shabbat imparate ad amarlo! Il legame tra il popolo d’Israele e lo Shabbat si realizzi attraverso percorsi di spiritualità, manifestando la luce della Torà, sviluppando mondi di fede di pensiero, di ricchezza culturale, portando attività di shabbat di città in città e di villaggio in villaggio. Non con la forza ma con lo spirito.” Quanto a noi, di lontano, tendiamo ad assistere con attenzione curiosa, come se la perdita dello Shabbat non fosse, ancor più tra noi, uno dei sintomi più gravi di quel male che chiamiamo assimilazione – la cui presenza micidiale non possiamo disconoscere, perché erode in continuazione le nostre comunità, ma di cui tuttavia fatichiamo a riconoscere i sintomi, come appunto lo smarrimento dello Shabbat come segno fondante della nostra vita e della nostra identità.
Poche settimane fa si è realizzata in tantissime comunità ebraiche, in tutto il mondo, anche in Italia, una nuova tornata dell’iniziativa “Shabbat project”, forse è il caso di ricordare che non di uno shabbat speciale abbiamo bisogno, bensì di una speciale preoccupazione per riportare lo shabbat al centro delle nostre attenzioni e delle attività di tutte le comunità, grandi e piccole.
Rabbino capo di Genova
(27 novembre 2019)