Breve saggio sulla musica ebraica
Francesco Lotoro*
Nessun popolo è così intimamente legato alla musica come quello ebraico e non sono già le arpe ritrovate negli scavi di Ur-Kasdim o la tradizione a confermarlo. Noi siamo in possesso di un Trattato di teoria musicale ebraica: è la Torà. Qual gran cosa è il Rotolo per eccellenza!
Non solo Legge scritta da D-o medesimo e summa di tutta la storia dell’Umanità e dell’Universo che la circonda, esso diviene tra le mani esperte di un musicista che sappia leggere in filigrana (come le banconote) un autentico thesaurus della musica come Scienza della Creazione e tecnica sociale che segna i meccanismi del lavoro e dell’intelletto.
Fornendoci in tal modo metodi di ricerca etnomusicologica tali da scardinare pa¬role ed espressioni bibliche così da scorgere nuovi significati in chiave musicale, ricostruire situazioni di creatività musicale inedite, dar luce alla storia dell’antica musica che affonda le sue radici in Genesi IV:21.
È lui, Juval, il padre di coloro che suonano il kinnor e l’ugab ma, in un altro significato, di coloro che fabbricano e gestiscono gli strumenti musicali così da formare le prime corporazioni di musicisti.
Il kinnor e l’ugab: l’arpa e il flauto, la lira e l’oboe, il liuto e la zampogna, la chitarra e il clarinetto. Date le coordinate degli strumenti a corda pizzicata e fiato insufflato, possiamo arrivare sino all’organologia moderna ma pochi si accorgono che nel nome stesso del padre di tutti i musicisti, Juval, è contenuto il primo strumento musicale: il corno di ariete, lo shofar.
Sarà pure l’ultimo strumento musicale che udiremo nel Giorno del Giudizio; allo shofar un virtuoso d’eccezione, D-o medesimo sul palcoscenico del più celebre teatro della Storia, Jerushalayim.
Ma non basta; se combiniamo il juval–corno d’ariete (ossia la nostra cavità laringea in tutto e per tutto simile al corno di animale) quale contenitore del kinnor–corde vocali e dell’ugab–aria che passa attraverso le corde vocali e fuoriesce dalla cavità orale, otteniamo il cantante perfetto, lo strumentista–strumento, la Callas e il Pavarotti che è in ognuno di noi quando cantiamo.
Il libro dell’Esodo è pieno di citazioni musicali e indicazioni organologiche correlate all’epopea della liberazione dalla schiavitù d’Egitto; quella che leggiamo tra le righe della Torà può essere meglio definita come storia dei meccanismi di produzione musicale del suono e degli strumenti dell’epoca.
Per saperne di più, dobbiamo uscire dal portale del Deuteronomio e addentrarci nei vicoli del resto del Tanakh laddove si narra della vita e opere del Re musicista: David, autore di numerosi Tehillim nonchè virtuoso degli strumenti dell’epoca (Tzeltzelim o cimbali, Menan’im o sistro, Halil o flauto) e dell’arpa egizia che importò in Eretz Israel migliorandola nella meccanica.
Ma toccherà a suo figlio Salomone portare alla massima compiutezza il grande progetto architettonico, culturale, politico e religioso di suo padre: il Primo Tempio.
Fascino del Tempio! Il fumo del sacrificio che saliva dritto al cielo anche nei giorni di vento, Cohanim e Leviti depositari di segrete formule musicali atte a rendere incomparabilmente perfetto il corban quotidiano, 288 musicisti tra cori, orchestra e maestri concertatori impegnati in prove ed esecuzioni vocali, corali e strumentali che manco la Scala di Milano, i 12 nebelim suonati dai migliori strumentisti di allora, il suono dei 7 shofarim del Tempio che (assicurano i testimoni dell’epoca) nei giorni di aria pulita erano udibili a Gerico.
Ma anche il Tempio dei misteri: l’ugab o abuba del Primo Tempio che, durante un’esecuzione, si rompe e non viene più riparato; sino a scomparire del tutto nel Secondo Tempio.
A proposito: dov’è finita la musica del Tempio e anche quella precedente?
Lo sfarzo del regno salomonico coincise con una generale decadenza dei costumi ebraici e fu la musica ad avvertire i primi segni di cedimento.
I Profeti tuonarono contro gli usi dell’epoca; nel frustare l’ingratitudine all’Eccelso del popolo israelita “amante” di citare e arpe, Isaia additò persino la musica come infausto sottofondo per feste, banchetti e ubriacature di massa.
Duecento anni dopo la distruzione del Regno di Israele, stessa sorte toccò al regno di Giuda per mano di Nabucodonosor che distrusse anche il Primo Tempio.
Nel periodo della deportazione babilonese, il cantico cede il passo a un genere musicale tutto nuovo; la lamentazione, talora accompagnata dal suono mesto dell’halil.
Cetre e arpe vengono simbolicamente appese agli alberi come segno di lutto eppure, musicalmente parlando, non tutto andò perduto in Babilonia; l’organologia ebraica si arricchisce di nuovi strumenti come la sabcha o arpa triangolare (i latini la chiameranno sambuca) e le maschroquitas o Flauto di Pan.
All’indomani del ritorno in Eretz Israel e durante la restaurazione del Tempio e del culto, Ezra e Nehemia si preoccupano altresì di restituire una maggior professionalità al musicista e al cantante.
Cohanim e Leviti non saranno più gli unici depositari dei segreti della musica del Tempio; gli 8 schemi melodici (i lohan) dei Leviti diventano patrimonio di tutta la musica ebraica.
Alla distruzione del Secondo Tempio, i Maestri proibirono la musica strumentale in segno di lutto.
Il canto dei Leviti si sposta dal Tempio alla sinagoga; inizia la storia della musica ebraica nella Diaspora e con essa dei ta’ame ha-Miqra ossia i ta’amim, sistema di notazione ecfonetica che dal V secolo dell’era volgare sino al codice masoretico di Aaron ben Asher (895 dell’era volgare) blindano in una sorta di enorme caveau mnemonico, grafico e chironomico (con l’ausilio di gesti e simboli manuali) il canto ebraico.
Nascono le grandi correnti musicali degli Ebrei ye¬meniti, persiani, libici, dell’isola tunisina di Djerba, dei Beta Israel dell’antico regno etiope ma anche il canto dei rami perduti dell’Ebraismo (Samaritani di Nablus e Caraiti di Egitto) conserva una forte impronta di melos ebraico tale da formare un autentico repertorio musicale.
A Oriente la storia del canto ebraico si fa leggenda: il canto degli Ebrei cinesi di Kaifeng, dei mongoli del Birobidzjan, dei Benè Menashe che risalgono alla Diaspora delle prime 10 tribù ma anche degli Ebrei giapponesi che (stando a Simon Wiesenthal) ebbero persino un Imperatore del Sol Levante chiamato Osea o il canto degli Ebrei nel regno del Prete Gianni.
A Occidente la storia del canto ebraico si fa scienza e arte: le tradizioni musicali sefardite dei Paesi mediterranei e askenazite dell’Europa centro–orientale ma altresì i manuali di grammatica ebraica, classificazioni dei ta’amim (Legarmeh, Zarqa, Shofar munach, Shalshelet), dei modi figli del Makam arabo e padri delle scale (Mogen Ovos, Ahavo Rabbo, Adonai Molokh, modo di Daniele).
Nella Diaspora mediterranea troneggia un colosso del linguaggio musicale: il canto gregoriano.
Discende dal canto del Tempio ma è il canto dei cristiani e dei loro monaci ed è in lingua latina; gli Ebrei tuttavia prendono in prestito da esso la notazione neumatica.
Il primo a utilizzarla non poteva essere che un monaco convertito¬si all’Ebraismo, Ovadiah haGher nel XII sec. ma già un secolo prima Amir ben Sahal compose una Eulogia sulla morte di Mosè su stilemi tipici del canto gregoriano.
Tuttavia il sistema masoretico si conservò a lungo presso le comunità ebraiche dell’Europa occidentale così come gli Ebrei di tradizione sefardita acquisiranno gradualmente un melos di chiaro sapore arabo, persiano o ispanico a seconda dei Paesi ospitanti.
In Italia l’isolamento sociale, professionale e culturale degli Ebrei sotto il Papato da Innocenzo III (1215) in poi si propagò nell’intera Europa centro-orientale poiché, laddove non arrivavano le disposizioni del IV Concilio Lateranense di confino degli Ebrei nei ghetti arrivava la ferocia omiletica dei predicatori domenicani e francescani.
Ogni linguaggio musicale che non si interfacci con altre culture inesorabilmente si atrofizza; la musica ebraica sinagogale e popolare, rimasta pressoché immutata sino agli albori del Rinascimento, rischiava di deteriorarsi ma a dare linfa dottrinale alla pura fenomenologia musicale ebraica ci pensarono filosofi e uomini di pensiero come Moshe Maimonide e le sue Responsas, Shem Tov ben Falaquera con i Principia Sapientiae, il Gan Na’ul di Avraham ben Abulafia, Profiat Duran autore de Ma’asé Efod fino ai cabbalisti di S’fad Shlomo Alkabetz, Isaac Luria e Israel Nadjara (Zemiroth Israel del 1599).
Nel 1342 Levi ben Gerson scriverà il trattato De Numeris Harmonicis, pilastro dell’Ars Nova.
Nell’Europa centrale una felice combinazione dell’antico melos ebraico e delle nuove tendenze musicali partorisce quel monumento della musica ebraica che sono le Melodie Missinai.
Nell’Italia rinascimentale delle Signorie i musicisti ebrei possono finalmente esercitare la loro professione al riparo da vessazioni pontificie (eppure lo stesso Papa Leone X sostenne l’opera musicale di Jacobo Sansecondo e Giovanni Maria De Medicis).
Salomone Rossi (autore di Cantici ebraici a 4 e 8 voci, madrigali e mottetti) si inventa persino un sistema di notazione musicale simile alla lingua ebraica con chiavi, note, simboli e parole di testo scritti tutti da destra a sinistra ma altri grandi musicisti come David Civita, Anselmo de’ Rossi, Allegro Porto, strumentisti come Abramo dell’Arpa e Jacchino Massarano, teorici come Giuda Moscato, Leone de’ Sommi Portaleone e Leone da Modena arricchiscono la storia della musica in Italia sino alla peste del 1630 di manzoniana fama.
Nel 1666 in una sinagoga di Smirne il falso messia Shabbetai Zvi intonava con voce possente un canto nuovo capace (stando agli scribi dell’epoca) di inchiodare al suolo chiunque lo ascoltasse; i suoi seguaci turchi, i Doehnmeh, conservavano sino al 1950 numerose melodie di quell’epoca.
Nell’Europa centrale troneggia un altro colosso dottrinale, musicale e culturale: il Protestantesimo. Non si può restare insensibili dinanzi al corale luterano e al sobrio fascino della lingua tedesca.
Nelle sinagoghe di Renania, Baviera e della grande marca franco–tedesca che oggi corrisponde all’Alsazia e Lorena non è raro ascoltare canti come Wenn ich des Morgen’s fruh aufsteh; d’altronde, senza l’influsso della grande tradizione linguistica tedesca non sarebbe nato lo Yiddish.
Mentre nei Paesi germanofoni Louis Lewandowski, Salomon Sultzer e Salomon Naumbourg si preoccupano di ringiovanire la musica liturgica ebraica, nell’Italia dei mille Stati una mano ignota scriverà nel 1732 l’Hoshanna Rabba di Casale Monferrato.
Nel 1786 Volunio Gallichi scriverà le musiche inaugurali della Sinagoga di Siena; entrambe con tanto di orchestra d’archi, basso continuo e cantanti che intonavano su un diapason (altezza convenzionale del suono riferita alla nota LA) più basso di quasi 1 tono rispetto al primo diapason europeo stabilito a Vienna nel 1885 (nel 1932 si stabilizzò a 440 Hertz).
L’intera Europa ebraica, invece, renderà omaggio senza confini al più grande ed esteso fenomeno musicale dell’800 ossia l’opera.
Recitativi, arie, fraseggio e declamatio dei testi sacri, persino le cadenze: c’era chi si recava ogni sabato in sinagoga perché c’era questo o quel hazan con l’ugola da far invidia a Di Stefano.
L’avvento del hassidismo porterà non solo una ventata di risveglio mistico nell’Europa orientale ma un modo nuovo di cantare: il nigun, canto senza parole o, meglio ancora, basato su poche sillabe apparentemente senza senso incastonate in melodie e ritmi così accattivanti da elevare lo spirito di chi prega a sfere umanamente inarrivabili.
Il resto è Storia contemporanea: la dodecafonia dell’ebreo Arnold Schoenberg, la Scuola di Vienna degli ebrei Alban Berg e Edward Steuermann, le dottrine antroposofiche importate nella musica dall’ebreo Viktor Ullmann che morirà ad Auschwitz, le musiche create nei Ghetti e Campi di concentramento e persino nei treni che partivano da Salonicco per i Campi di sterminio (cantati ancora nell’antico ladino degli Ebrei greci e corfioti), la grande musica americana degli ebrei George Gershwin, Aron Copland e Leonard Bernstein; cabaret e jazz band importati dall’America grazie agli ebrei Willy Rosen, Martin Roman e Kurt Gerron; il canto di protesta sociale degli Ebrei Rudy Goguel e Herbert Zipper; il teatro sperimentale degli ebrei Emil Frantisek Burian, Kurt Weill e del collaboratore di Bertold Brecht ossia l’ebreo Paul Dessau; la musica dello scrittore amico di Kafka Max Brod (autore di un Requiem Hebraicum); la nascita dello Stato d’Israele e i numerosi cervelli musicali dell’Europa segnata dalla Guerra che salgono in Eretz Israel; l’Orchestra Filarmonica, fiore all’occhiello della vita musicale israeliana.
Non ultimo, il violinista Jasha Heifetz (quando la storia della musica ebraica è anche la storia dei musicisti ebrei) che nel 1950 arrivò a Tel Aviv con un programma di musiche di Richard Strauss (non propriamente colluso con il Reich ma allora era sufficiente essere tedeschi o austriaci); uno sconosciuto gli ferì la mano destra (quella dell’archetto) durante la conferenza stampa prima del concerto ma Heifetz non si scompose.
Si fasciò la mano e la sera suonò Strauss; per la cronaca, fu un successo mai visto.
Sì, perché l’Ebreo non cancella la Storia degli altri come invece altri hanno tentato di fare con lui ma rispetta le altre culture e sa riconoscere la grandezza nell’Arte degli altri uomini, anche dell’antisemita Richard Wagner o di Franz Liszt che non suonava in concerto se tra il pubblico riconosceva un Ebreo (ma sbiancò letteralmente e suonò quando a un suo concerto seppe che ad ascoltarlo c’era il grande pianista e compositore ebreo Charles–Valentin Alkan).
In questo noi Ebrei siamo imbattibili; tanto abbiamo esercitato l’arte della Memoria che ci preoccupiamo non soltanto di perpetuare la nostra ma anche quella degli altri.
Del resto, non si può dimenticare che fu l’ebreo battezzato Felix Mendelsohn a scoprire nel 1829 uno dei pilastri della Storia della Musica: la Matthaeus–Passion di Johann Sebastian Bach.
Eppure, la domanda è ancora: dove sono gli spartiti del Canto del Pozzo (Numeri XXI:17–18), come inizia la melodia di Myriam intonata dopo il miracolo del Mar Rosso (Esodo XV:21–sgg) al battito di tamburelli, chi si è infilato sotto il cappotto il Libro delle Guerre citato in Numeri XXI:14 portandosi a casa tutte le liriche in esso contenute?
Chissà, forse non sapremo mai rispondere; eppure la Shirà, l’arte del hazan di scuotere ancor oggi come un tappeto volante la tefillà e far volare l’intera kehillà ad alta quota non può che restituirci l’identico sapore di come noi si cantava nei giorni dell’Esodo o nel Tempio di Salomone o con la cetra appesa all’albero sui fiumi di Babilonia.
Per provare l’ebbrezza dell’aroma di un buon caffè non è indispensabile degustarlo; basta l’odore che si sprigiona dalla sua torrefazione.
E l’odore di questo canto è il medesimo da 3000 anni; perché, se noi crediamo che non una sola lettera della Legge orale si sia smarrita grazie alla codificazione della Mishnà, come pensare che la musica, treno sul quale viaggia in prima classe la nostra Legge, sia andata perduta?
Questo è il segreto della musica e del canto ebraico: inesauribile come la Torà, essa arriva da così lontano che nell’ascoltarla si perde il senso dello spazio e del tempo.
Come il suo stesso popolo che la suona e la canta: non finirà mai di vivere e affascinare i viventi.
*pianista, direttore d’orchestra,
autore dell’Enciclopedia discografica KZ MUSIK