Nathan Englander
La mia vita ormai sta sotto il segno del Talmud. Un amico, conoscendo la mia educazione religiosa, mi ha convinto a intraprendere una nuova traduzione della Haggadah, la storia dell’ Esodo raccontata a uso delle famiglie ebraiche, che viene letta ad alta voce in occasione della cena di Pesach. Non mi sono lasciato convincere facilmente. Da parecchio tempo sono radicalmente e orgogliosamente laico. Ho però una caratteristica in comune coi miei familiari, tutti profondamente osservanti: lo zelo estremo nell’ adempimento di qualunque impegno, una volta preso. «Nata per essere ascetica» è il motto che mia madre si sarebbe fatta tatuare sulla schiena, se fosse stata un tipo da tatuaggi. Lo zelo di mia sorella si esplica in particolare nelle grandi pulizie di Pesach. Durante la settimana santa è obbligatorio rimuovere ogni minima traccia di hametz (termine che sostanzialmente indica tutti i prodotti contenenti lievito). E per lei (con una nidiata di cinque bimbi) questo vuol dire raschiare ogni angolo a oltranza e sterilizzare la cucina a un livello da sala operatoria, pronta per un intervento chirurgico al cervello, o per una matzo-ball soup (brodo con polpettine caratteristiche della cucina ebraica, ndt) a prova di certificato kosher. Se si volesse pulire di più, il grado successivo potrebbe essere uno solo: dar fuoco alla casa.
Nel mio caso, il perfezionismo ossessivo ha trasformato un lavoro che nei miei piani doveva essere breve, veloce e divertente in qualcosa di assai diverso: testi religiosi ammucchiati in tutta la casa, infinite consultazioni con un ricercatore sulla scelta di ogni singola parola e un numero infinito di ore di lavoro a testa bassa. E intanto un altro anno se n’ è andato. Al di là dei celebri testi medievali – il manoscritto miniato di Sarajevo, la Haggadah degli uccelli tedesca – ne esistono molte altre versioni, adatte a ogni tipo di Seder: femminista, vegetariana, per ex alcolisti o per le forze armate Usa, neutra sul piano del genere (come la liturgia di Santa Cruz, ove il nome di Dio non compare mai), e persino una FaceBook Haggadah, che alla fine minaccia una ” twitter version” per il prossimo anno (controllate voi stessi su Google). La Haggadah ci invita a osare e ad apprendere, ma quando si tratta di scegliere una liturgia io non vado molto lontano. Ho finito per scoprire che non c’ è tradizionalista più accanito di un ebreo reietto: ho avuto un moto di autentico orrore scoprendo in quello che avevo scelto come testo guida l’ assenza di un antico gioco di parole ebraico (tranquilli, ho provveduto a colmare la lacuna). Mentre ero immerso nelle mie elucubrazioni, intento a ponderare ardue scelte di prosa biblica, ho sperimentato a volte, come dolce effetto secondario, l’ inatteso emergere dei ricordi. Ad esempio, alla vigilia della festa, la rituale ricerca dello hametz: io bambino accanto a mio padre, nella cantina buia, a raccogliere al lume di candela ogni più piccola briciola lasciata cadere sulla mia strada. Ricordo anche gli anni in cui Pesach coincideva con la Pasqua, e mi rivedo sulla via della sinagoga con in testa lo yarmoulke e indosso il mio minuscolo completo, mentre salutavo con gesti gioiosi il coniglietto di Pasqua in cima al camion dei vigili del fuoco volontari. Ridevamo tutti, mia sorella, mio padre ed io; e anche il pompiere era scoppiato a ridere.
La dolcezza di quell’ incontro non è perduta: la festa di Pesach e il coniglietto pasquale, il vigile del fuoco con la sua uniforme e io con la mia. Una città è fatta anche di queste cose: cerimonie rituali diverse che si riconoscono a vicenda. A casa nostra ne avevamo tanti, di rituali. Ricordo come alle interminabili cene del Seder si rubava e si nascondeva l’ Afikoman (il dessert, ndt)- una tradizione che doveva servire a tenere svegli i più piccini. E tuttii preparativi della cena, il mortaio e il pestello d’ ottone, la cucina satura di vapore, e poi i piatti – il servizio di porcellana della trisnonna che si usava solo due volte all’ anno da oltre un secolo. Il vino messo a decantare nelle caraffe, il sale servito in coppette di filigrana d’ argento. Non che fossimo gente sofisticata – normalmente le nostre stoviglie erano semplici CorningWare bianche. Ma quelle due serate di evocazione del tempo della schiavitù si celebravano come fossimo re, coi poveri seduti accanto ai principi pronti a inchinarsi. Ricordo le erbe amare intinte nella salsa di rafano, e mi sembra ancora di vedere i volti accesi degli adulti. Le uova servite in acqua salata (una tradizione di famiglia). Il vino dolce. E il ragazzino che ero allora finito brillo sotto la tavola – non un ricordo, questo, ma un episodio che riferisco per sentito dire. Uno strano pensiero mi era venuto in mente l’ anno in cui morì mio padre: dei commensali di quelle cene nessuno, tranne mia sorella, mia madre e me, era ancora in vita.
Le feste di Pesach si fondono oggi tutte quante nella mia memoria, nel ricordo affettuoso dei parenti scomparsi da tempo. Ma il più vivido dei miei ricordi è quello della lettura della Haggadah – quelle stesse parole, quei ritmi che mi sono impegnatoa rendere nella mia traduzione: «Se i canti ci colmassero la bocca come il mare, scorrendo come innumerevoli onde, se le lodi ci sgorgassero dalle labbra vaste come i cieli, dagli occhi splendenti come lune e soli, dalle mani aperte come aquile del cielo e i nostri piedi corressero agili come cerbiatti poco sarebbe ancora per ringraziarTi, Dio e Signore nostro». Studiando questo racconto costruito sulla memoria del passato ho scoperto fino a che punto sia al tempo stesso rivolto al futuro. Stiamo vivendo momenti di grande incertezza. Il sogno del ritorno a Sion, quando «le nostre labbra traboccheranno di risa e di canti gioiosi», ci condurrà in un Paese di muri e di guerre. È bello allora prendere congedo da questa traduzione sentendo che la Hagaddah guarda a una promessa, non meno che alla rievocazione di un salvataggio. Come dicono gli ultimi versi del salmo sopra citato: «Per chi ha seminato tra le lacrime maturerà la gioia. Nel pianto cammina chi porta il sacco delle sementi. Ma ecco arrivare colui che viene nella gioiae porta con sé le messi».
New York Times Op-Ed © 2009 The New York Times Distributed by The New York Times Syndicate Traduzione di Elisabetta Horvat – NATHAN ENGLANDER
Repubblica — 10 aprile 2009