Tratto da “Shabbath – A cura di Augusto Segre”, Ucei 1972
Israel Zangwill
Era giunta l’ora della morte per la centenaria nonna polacca. Secondo il dottore non aveva che un quarto d’ora da vivere. L’attacco era stato improvviso e i nipoti che ella amava sgridare non potevano esserle vicini.
Aveva finito la sua lotta con le sofferenze e ora si lasciava trasportare al di là dei limiti del rifugio terreno. Le infermiere, dimenticando tutte le noie che avevano avuto per le sue lamentele e i suoi arroganti scrupoli dietetici, non abbandonavano il letto su cui giaceva quell’essere rattrappito. Non potevano sapere che ella riviveva l’unico grande episodio della sua vita.
Circa quarant’anni prima (aveva già quasi settant’anni ed era vedova), quando un villaggio polacco era tutto il suo mondo, aveva ricevuto una lettera. Era la vigilia di un Sabato in un giorno d’estate piovosa. Veniva dal suo ragazzo, il suo unico ragazzo, che aveva una locanda in campagna, trentasette miglia lontano, e ci stava con la famiglia. Aprì la lettera con ansia febbrile. Suo figlio, quello che avrebbe detto la preghiera funebre per lei, era la pupilla dei suoi occhi. Poi si sentì venir meno e quasi cadde.
Come a caso, buttato nelle quattro pagine della lettera, c’era un periodo che a lei pareva scritto a lettere di fuoco. «Non mi sono sentito bene in questi ultimi giorni, il tempo è così opprimente e le notti nebbiose. Ma niente di grave; la digestione mi dà qualche noia, ecco tutto».
C’erano dei rubbli nella lettera, ma li lasciò cadere a terra, incurante. Il terror panico, che viaggiava più rapido della lenta posta del tempo, aveva portato alle sue orecchie la voce che il colera era improvvisamente scoppiato nella provincia dove abitava il figlio. Tutto il giorno, già, l’ansia per il figlio l’aveva stretta al cuore: la lettera confermava le peggiori apprensioni. Se il demone dl colera non l’aveva ghermito nel momento in cui scriveva, pure egli doveva essere, per sua stessa confessione, in tali condizioni da offrire una facile preda alla malattia.
Certo a quest’ora era a letto ammalato, forse moribondo, se non morto. Già allora la nonnina aveva vissuto al di là della misura comunemente concessa, molti ne aveva visti scomparire e sapeva che l’angelo della morte non si accinge sempre al suo lavoro alla stracca. Durante una epidemia le sue mani sono così attive da non permettergli di stare a considerare caso per caso. L’istinto materno dominava nel suo cuore, la trascinava verso il figlio. La fine della lettera sembrava greve di presagio. «Vieni presto a vedermi, cara mammina. Io non potrò venire per un po’ di tempo». Certo, doveva subito: chissà se non sarebbe stata l’ultima possibilità di vedere il suo volto!
Ma un terribile pensiero la fece sostare. Da pochi minuti era incominciato il Sabato. Per ventiquattro ore era proibito andare in carrozza, a cavallo o comunque viaggiare. Come una folle considerò la situazione. La religione concedeva di violare il Sabato ad una sola condizione: se c’era ‘da salvare una vita. Nessuna logica le poteva però far credere che la salvezza di suo figlio si imperniasse sulla sua presenza; anzi, analizzando il caso con la spietata crudeltà di una coscienza scrupolosa, si disse che la malattia di lui non era che un’ipotesi plausibile. No, andar da lui in quelle circostanze, era indubbiamente profanare il Sabato. Eppure, contro ogni ragionamento, mai venne meno la sua convinzione che egli fosse in punto di morte, né dubitò di dovere andare da lui immediatamente. Dopo una lotta tormentosa, arrivò ad un compromesso. Non poteva andare in carrozza, questo oltre tutto avrebbe significato far lavorare altri ed avrebbe implicato una questione di danaro. Doveva andare a piedi. Per quanto fosse peccaminoso oltrepassare il limite di due chilometri fuori del villaggio, come voleva la legge rabbinica, non c’era altra scelta. Fra i vari sistemi di viaggiare, il camminare era certo il meno peccaminoso. L’Eterno, benedetto sia il Suo nome, avrebbe capito che lei non lo considerava un lavoro; nella Sua misericordia avrebbe perdonato una vecchia che mai prima di allora aveva profanato il Suo sacro giorno di riposo.
Quella sera stessa, dopo un rapido pasto, con la lettera preziosa in seno, la nonnina si cinse i lombi per intraprendere il viaggio di trentasette miglia. Non prese con sé un bastone per timore che questa nuova trasgressione potesse cadere sotto la definizione di lavoro. Né prese l’ombrello, sebbene fosse la stagione delle piogge. Un miglio dopo l’altro avanzò di buon passo verso il volto pallido che giaceva laggiù, lontano all’orizzonte e pur brillava davanti ai suoi occhi come una stella che la guidasse. «Vengo, gioia mia- mormorava – la tua mammina è in cammino».
La serata era umida. Il cielo, illuminato da un bagliore selvaggio e livido, pareva pesare sulla terra come un sudario. Gli alberi ai lati della strada erano avvolti in spessi vapori.
A mezzanotte la nebbia velò le stelle. Ma la nonnina sapeva che la strada correva diritta. Tutta la notte camminò attraverso il bosco, impavida, senza incontrare né essere umano né animale, benché lupi ed orsi vagassero nell’ombra e serpenti si nascondessero nei cespugli. Solo innocenti scoiattoli, di corsa attraversavano il sentiero. Ma ella non sostò. Era quasi a metà del tragitto.
Non si era portata niente da mangiare: anche quello sarebbe stato un fardello illecito né poteva comperarsi qualche cosa nel giorno santo. Disse le sue preghiere del Sabato mattina, sempre camminando, fidando nel perdono di Dio per questa mancanza di rispetto. Il recitare le alleviò le sofferenze. Passando attraverso un villaggio ebbe conferma della terribile voce del colera; per dieci minuti sentì le ali ai piedi, poi la stanchezza fisica fu più forte di qualsiasi altra sensazione e dovette appoggiarsi ad una siepe fuori del villaggio. Era quasi mezzogiorno. Un mendicante di passaggio le diede un pezzo di pane. Per fortuna senza burro o l’avrebbe mangiato con lieve scrupolo per timore che fosse stato a contatto di cibi proibiti. Riprese il viaggio, ma il breve riposo non servì che a far muovere i piedi più faticosamente, più dolorosamente. Avrebbe voluto bagnarsi in un ruscello, ma anche quello era proibito. Estrasse la lettera che teneva in seno e la rilesse: spronò le sue forze vacillanti con un grido: «Coraggio, figlio mio, la tua mammina è in cammino».
Ad un tratto le nuvole si sciolsero in pioggia che le batté in viso rinfrescandola per qualche momento, ma poi bagnandola fino all’ossa e rendendo più greve il vestito inzuppato, mentre il fango del sentiero s’attaccava ai suoi deboli passi. Sferzata dal vento e dalla pioggia si trascinò avanti zoppicando. Un’ansia nuova la prese: avrebbe avuto tanta forza da reggere fino in fondo? Ad ogni istante rallentava il passo, si muoveva come una lumaca. E più lento era il suo procedere, più intenso il presentimento di quello che l’aspettava alla fine del viaggio. Sarebbe arrivata in tempo ad udire la sua parola di morente? Forse, orribile pensiero, non avrebbe veduto che il volto immobile nella morte. Chissà che questa non dovesse essere la sua punizione per aver profanato il santo giorno. «Coraggio, figlio mio», disse in un soffio. «Non morire ancora, la tua mammina viene».
La pioggia cessò. Uscì il sole, caldo e feroce, ad asciugarle le mani ed il viso e a far scorrere rigagnoli di sudore. Ogni centimetro guadagnato era una tortura, ma i piedi avanzavano! La voce di un morente, quanto lungi ancora, ahimè, la chiamava, e sempre trascinandosi, ella rispose: «Vengo, figlio mio. Coraggio! La mammina è per la strada. Coraggio. Devo rivedere il tuo viso, ti devo ritrovare vivo».
Un carrettiere passando notò la sua situazione e le offrì di farla salire, ma ella scosse la testa, ostinata. Quel pomeriggio senza fine passò; ormai era un trascinarsi sul sentiero della boscaglia sempre inciampando per pura debolezza, sempre graffiandosi mani e viso agli sterpi lungo la strada. Finalmente il sole crudele calò e una nebbia fumosa salì dalle pozzanghere. E ancora miglia di cammino si stendevano davanti a lei, e ancora avanzava intorpidita di stanchezza, quasi incosciente facendo un passo perché ne aveva fatto uno prima. Di tanto in tanto le sue labbra mormoravano: «Fatti coraggio, cuor mio, vengo». Era finito il Sabato prima che la nonnina arrivasse trascinandosi fino all’albergo del figlio, al limite del bosco. Il cuore le doleva di fatale presentimento. Non c’era segno del solito disordine che i contadini polacchi lasciano il Sabato sera accanto alla porta. Nella notte risuonò e aleggiò il canto di molte voci che intonano un inno ebraico. Un uomo che indossava un caffettano aprì la porta e meccanicamente alzò l’indice per invitarla ad entrare senza far rumore. La piccola nonna guardò nella camera dietro a lui: sua nuora e i nipotini erano seduti sul pavimento, come si addice a chi piange un defunto.
«Benedetto sia il Giudice di verità», disse e si strappò la gonna. «Quando è morto?».
«Ieri. Abbiamo dovuto seppellirlo in fretta prima che entrasse il Sabato».
La nonnina alzò la voce tremante e si unì all’inno: «Canterò un canto nuovo a te, mio Dio; su un’arpa a dieci corde io canterò le tue lodi».
Le infermiere non riuscirono a capire quale improvvisa ripresa di forze spingesse la figura mummificata a sollevarsi a sedere. La nonnina cacciò una mano grinzosa nel seno avvizzito e ossuto, ne tirò fuori un foglio accartocciato e giallo come lei stessa, coperto di strani rozzi geroglifici ormai senza colore. Lo portò vicino ai suoi occhi opachi; una splendida luce brillò in essi ad illuminare il viso dalle mille grinze. Le labbra si mossero appena: «Vengo, mio tesoro», mormorò. «Coraggio. La tua mammina è in cammino! Rivedrò il tuo viso, devo ritrovarti vivo».
(Da «Solennità e Ricorrenze» Ed. L’Eco dell’Educazione ebraica-Numero speciale – Milano 1963)