David Piazza
La storica e dolorosa operazione del ritiro da Gaza, per la quale molti “esperti” prevedevano come sicuro lo spargimento di sangue, si è conclusa invece senza incidenti di rilievo, pur nel dramma di più di 8000 persone costrette al trasloco forzato e il trauma emotivo di moltissimi tra protagonisti e spettatori. Le valutazioni storiche, politiche, sociali, hanno saturato i media, non solo del piccolo Paese che ha vissuto questo colossale psicodramma collettivo, ma del mondo intero. Abbiamo approfittato quindi della nostra presenza sul posto per qualche nota sull’unica battaglia combattuta senza risparmio di colpi: quella culturale, fatta di simboli che avrà, senza dubbio, ripercussioni enormi sulla coscienza collettiva degli israeliani, che si sono trovati, a distanza di decenni, di fronte a scelte di portata simile a quelle affrontate nel periodo di costituzione dello Stato.
Uso delle parole
Molto è stato detto sulla scelta del termine ebraico, di difficile pronuncia, scelto per il ritiro da Gaza: hitnatkut, disimpegno, disengagement. Ci si disimpegna da una ragazza non più gradita, da un pasticcio nel quale si è caduti, insomma ci si sgancia da una situazione imbarazzante nella quale non ci vorremmo trovare. La politica creativa israeliana che pur era riuscita a usare il nome “pace” per una guerra (“Pace in Galilea” nel 1982) sembrava aver toccato un altro vertice del paradosso con la scelta dei termini usati nella politica di appoggio alla colonizzazione operata per 38 anni praticata da tutti i governi, di destra e di sinistra. Milioni di dollari investiti, decine di discorsi politici, leggi ad hoc, e soprattutto l’impegno personale di migliaia di persone che vi hanno creduto e che hanno lasciato ogni comodità urbana moderna per vivere, con i loro figli, tra le dune ostili della striscia di Gaza, tra il filo spinato delle barriere e con gli autobus scolastici blindati e scortati.
L’uso spregiudicato del linguaggio non è però mancato nemmeno dalla parte degli oppositori al ritiro. “Il transfer non passerà”, recitava uno sticker appiccicato sui paraurti di molte macchine. Ma transfer non era fino a qualche anno fa il termine usato dalla destra radicale per indicare la “deportazione” coatta della popolazione araba? In Israele del 2005 il transfer diventa in questo caso la deportazione di ebrei da evitare a tutti i costi. “Un ebreo non deporta un ebreo” recitavano i ragazzini urlanti portati via a forza dalla sinagoga di Nevè Dekalìm.
Uso dei colori
A seguito, pare, della rivolta incruenta in Ucraina, che era riuscita a riportare una parvenza di democrazia in quella nazione e che aveva adottato il colore arancione, i contrari allo sgombero hanno fatto un uso estremamente intenso di questo vivace colore. Magliette, sticker, milioni di nastri attaccati ai lati delle strade, sugli zaini, sulle antenne e sugli specchietti retrovisori delle macchine, kippot e copricapi per donne osservanti, fino allo sventolio di bandiere dello Stato, con la stella ebraica e le due strisce con fondo arancione. L’arancio inoltre non solo ha una resa televisiva molto forte, ma in termini colorimetrici è il colore complementare dell’azzurro, il colore nazionale israeliano. Il messaggio era chiaro: noi “arancioni” (come poi i media chiamavano gli oppositori allo sgombero) siamo l’antistato. Solo successivamente la sinistra ha tentato la distribuzione agli incroci delle strade di nastri azzurri. Nella settimana cruciale dello sgombero effettivo poi, le immagini televisive ci proponevano un surreale e movimentato risiko vivente. La meticolosa organizzazione governativa aveva predisposto che le centinaia di giornalisti presenti indossassero un berretto rosso, che tutti i militari ne avessero uno verde se dell’esercito e blu scuro se della polizia e naturalmente sul campo si trovavano i coloni con i gli indumenti più disparati, ma rigorosamente arancioni. Completavano il quadro cromatico le unità speciali antiterrorismo, nelle tetre divise nere, usate perlopiù come spauracchio per gli irriducibili, ma mai veramente entrate in azione.
Uso delle immagini
Se la televisione trasmetteva emozioni in tempo reale, la stampa era letteralmente invasa da commenti e analisi a mente fredda, eppure anche la scelta delle immagini ha contribuito alla formazione dell’opinione pubblica verso direzioni precise: il quotidiano di sinistra Haaretz in particolare, ha privilegiato per intere settimane immagini delegittimanti di coloni in pose aggressive, donne in preghiera, bambini urlanti dietro cartelli di protesta, spesso nell’abbigliamento trasandato neo-hippy, tipico di quei gruppi. Per contro la stampa di destra ha beneficiato di un’abbondanza di immagini che ha scavato nel profondo della coscienza collettiva non solo degli israeliani, ma dell’intero popolo ebraico. Bambine trascinate a forza con le gonne all’aria, uomini dalle barbe bianche con tallèd e tefillin strattonati da soldati in divisa, fino alla immagine-simbolo della Shoah, il bambino con le mani alzate e la stella sul petto.
Uso dei minori
Con il ritiro da Gaza è caduto un altro simbolo: quello del combattente che difende i bambini lasciati indietro. I maggiori incroci stradali del paese sono stati invasi da adolescenti impegnati che proponevano volantini, sticker e nastri arancioni, sfruttando la vacanza estiva. Molti coloni hanno usato i minori nei confronti diretti con i giornalisti e con i soldati addetti allo sgombero forzato. Alle penose scene di persone portate via di peso, spesso si aggiungevano le grida isteriche di bambini piangenti che urlavano ai soldati “nazista!”.
Uso dei simboli
Se i coloni si proponevano come antistato (anzi come il “vero” Stato, quello delle origini), lo Stato doveva presentarsi con i suoi simboli più forti.
Pochi hanno notato come l’enorme massa umana disarmata messa in campo da Tzahal fosse pronta allo scontro ideologico nei minimi dettagli. Tutti i soldati, a prescindere dall’arma di appartenenza indossavano una leggerissima casacchina di rete blu scuro, il cui unico scopo era coprire mostrine e distintivi d’ordinanza con i simboli dello Stato: a destra una bandiera e a sinistra lo scudetto con la menorà. Sul berretto poi faceva la baldanzosa comparsa una seconda bandiera. Il messaggio era così chiaro a tutti: non era l’esercito di questo politico o di quel generale, ma era l’esercito di tutto il popolo che era stato chiamato all’ingrato compito dello sgombero forzato. Per tutta risposta i coloni hanno lavorato sulla delegittimazione dell’avversario usando simboli ebraici religiosi a piene mani con persone asserragliate con tallèd e tefillin oltre l’orario previsto dalla legge ebraica, affinché sugli schermi di tutto il mondo apparisse che la religione ebraica era calpestata.
E ora?
Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che Israele dell’agosto 2005 sia stata una nazione divisa in cui eri “arancione” oppure “azzurro”. La sensazione più difficile è stata la constatazione della sorda indifferenza che ha fatto diventare per alcuni lo sgombero da Gaza un riuscitissimo reality show da guardare in TV con una birra in mano. Questo distacco è stato il vero dramma invisibile agli occhi dei media. Possiamo però trovare indizi di speranza da una riuscita campagna simbolica di “pubblicità progresso” che adornava molti autobus. Un nastro azzurro annodato a uno arancione con lo slogan che recitava: “Dobbiamo tener caro ciò che ci unisce”. Perché fuori i nemici veri non mancano.
Bollettino della Comunità Ebraica di Milano – Ottobre 2005