Alla vigilia dell’uscita nella sua New york del nuovo «Whatever works», il 73enne regista fa causa a Dov Charney, patron del marchio giovanile «American Apparel»
«Usano una mia foto per farsi pubblicità» e chiede 10 milioni alla griffe di moda. Replica: la sua immagine ormai vale poco
Se fosse un film si intitolerebbe «La guerra americana di Woody». Mentre Woody Allen torna in Usa per la prima volta dopo un esilio artistico durato quasi cinque anni, – con la prima mondiale del suo nuovo film Whatever Works al Tribeca film festival – il leggendario regista di Manhattan e Mariti e mogli si ritrova al centro dell’ ennesima battaglia legale che rischia di compromettere il già tenue filo che lo lega alla natia America. Dopo aver tradito Hollywood e New York girando tra Inghilterra e Spagna i suoi nuovi film – Match Point, Scoop, Sogni e delitti, Vicky Cristina Barcelona – l’ America attendeva con trepidazione la sua grande rentrée in patria nel festival cinematografico allestito ogni anno a New York dal suo vecchio amico Robert de Niro. Ma a gettare ombra sulla prima mondiale dell’ attesissimo Whatever Works (che inaugura il festival il prossimo 22 aprile) è la causa da lui intentata contro l’ American Apparel, una ditta di abbigliamento rea di aver sfruttato la sua immagine su alcuni manifesti pubblicitari senza il suo consenso. Nel mirino del 73enne regista: un’ immagine tratta dal film Io e Annie, dove Allen appare vestito da ebreo chassidico, con la barba lunga, le treccine payot, e il tradizionale copricapo nero.
Il testo del cartellone, esposto per una settimana a New York, Los Angeles e sul sito web della compagnia, è in yiddish e, sotto la foto, mostra la scritta a caratteri cubitali «American Apparel». Apriti cielo. «La mia reputazione è stata danneggiata», accusa Allen, che per principio non sponsorizza mai prodotti commerciali in Usa e adesso chiede danni per 10 milioni di dollari. La risposta di Dov Charney, il fondatore – ebreo – di American Apparel, non s’ è fatta attendere. «Allora metteremo in piazza la sua vita sessuale – ha fatto sapere attraverso il suo legale, Stuart Slotnick – Nel chiederci 10 milioni di dollari Allen dimostra di sovrastimare la sua immagine che oggi vale ormai poco». «Dopo i suoi vari scandali sessuali – incalza Slotnick – dubitiamo che le corporation americane vogliano usarlo come testimonial dei loro prodotti». L’ avvocato ha minacciato di trasformare gli scandali sessuali di Allen nell’ argomento chiave del processo tra la American Apparel e il regista che inizierà a New York il 18 maggio. E non si riferisce solo al suo divorzio al vetriolo dall’ ex compagna Mia Farrow – che lasciò nel 92 per stare con la loro figlia adottiva Soon-Yi – ma anche all’ accusa di pedofilia (poi respinta dal tribunale ma rilanciata per mesi dai tabloid) mossa dalla stessa Farrow contro Allen, che accusò di aver molestato sessualmente la loro figlia Dylan di sette anni.
Ce n’ è quanto basta per offuscare le critiche, finora tutte positive, del suo nuovo film. Girato a New York, Whatever Works ha come protagonista Larry David, il genio comico dietro la serie tv Seinfeld e il successo di HBO Curb Your Enthusiasm, nei panni di un uomo eccentrico del Greenwich Village che si trova invischiato in una serie di relazioni amorose, finendo incastrato con una giovane del profondo sud (Evan Rachel Wood) e i suoi strambi genitori. Oltre ad essere accolto con uno scroscio di applausi e risate all’ anteprima allestita per i proprietari di sale Usa, il film è piaciuto molto anche alla critica. «E’ una pellicola ilare, pungente, noir e insieme geniale e folle», scrive il New York Observer. «La sua New York – incalza l’ Huffington Post – è filtrata attraverso le lenti di Allen come non l’ abbiamo mai vista prima». Ma nelle interviste lui continua imperterrito a ripetere di «preferire l’ Europa all’ America». «Niente soddisfa il mio ego più di essere chiamato un regista europeo». Spiega: «In Europa il cinema tifa per l’ artista, mentre da noi in Usa è solo un business controllato dai soldi e dall’ avidità». Il fatto che tale mantra autolesionista faccia imbestialire i media Usa non lo sfiora.
Alessandra Farkas
(16 aprile 2009) – Corriere della Sera
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Ma oggi l’icona è il venditore di «stracci»
Dov contro Woody: il venditore di «stracci» (shmatte, in Yiddish) contro il regista intellettuale. Los Angeles contro New York. Il 40enne (da poche settimane) contro il 73enne. L’ ebreo sefardita (mediorientale, via Canada) contro l’ ebreo askenazita (europeo, via Lower East Side di Manhattan). L’ iconoclasta diventato icona milionaria con le pubblicità di ragazze e ragazzi seminudi fotografati da una digitale del supermercato contro l’ ex re della commedia che un giorno si vergognò un po’ di far ridere il pubblico. Così diversi: il giovane giullare della moda (crociato di Made in Usa e libera immigrazione) contro l’ anziano autore innamorato dell’ Europa. Icone di due generazioni, e di due ebraismi, così lontani. A prima vista l’ unica cosa in comune sono gli occhialoni vecchio stile.
Eppure Charney – universitario fuori corso che ha costruito un impero da 300 milioni di euro e negozi in giro per il mondo, anche in Italia – considerava Allen un idolo. E quei cartelloni con Woody in Io e Annie camuffato da chassidico riportavano la scritta «il santo rabbino» («Rebbe», letteralmente «maestro, mentore») ed erano nati come bizzarro omaggio a «un’ icona ebraica», così disse un portavoce di American Apparel. Poi la causa, la rissa mediatica, dove gli avvocati del ragazzotto accusato di denudarsi davanti a giornaliste e dipendenti «che mi attizzano» si permettono di irridere il grande autore di Zelig ricordandogli il matrimonio con la figliastra, le accuse di molestie pedofile: «La sua immagine non vale 10 milioni…». Come a dire, quanti ragazzi vanno a vedere i tuoi film e quanti comprano le mie felpe?, l’ ultimo schiaffo crudele della nuova generazione a quel vecchio maestro così ingombrante.
Persivale Matteo
(16 aprile 2009) – Corriere della Sera