Gretel Bergmann ha 95 annie dal 1937 vive negli Stati Uniti. Esclusa dai Giochi nazisti perchè ebrea e sostituita da un uomo. Ora il dramma della Bergmann è un film
Ivo Romano
La storia di Caster Semenya – i dubbi sul suo vero sesso, i test cui sottoporsi, l’infinita querelle – deve averle risvegliato un incubo, che porta dentro di sé da una vita, un incubo che l’ha accompagnata dai tempi di una travagliata gioventù in patria fino alla serenità di una tranquilla vecchiaia da emigrante. Deve essere stato come fare un salto all’indietro, a un passato molto lontano, roba di più di 70 anni. Similitudini, non altro. Questione di uomini che gareggiano tra le donne, e nulla più. Il resto, tutta un’altra storia. Una storia da film, che qualcuno ha infine deciso di portare sul grande schermo.
«Berlin 36», firmato dal tedesco Kaspar Heidelbach. Giovedì prossimo, il debutto nelle sale italiane. Un drammatico tuffo in un passato che non deve tornare, un monito perché certe ideologie vengano cassate dall’umanità. Berlino e 36. Una città e un numero. Che messi l’uno al fianco dell’altra ci spingono indietro, fino al periodo più tragico che la storia del mondo ricordi. Berlino, il simbolo della Germania. E ’36, l’anno delle Olimpiadi tedesche. C’era anche lei, Gretel Bergmann, allora giovane atleta di più che belle speranze, ma protagonista a margine dello sport, lei che aspirava a esserlo nello sport. C’era lei e c’era pure Dora Ratjen, stesse aspirazioni, stessa specialità, il salto in alto. Tedesche, entrambe. Di genitori ebrei, la prima. Simpatizzante nazista, la seconda.
A Gretel avevano negato tutto, da anni. Era ebrea, non poteva rappresentare la Germania. Nel 1933, la drastica decisione, presa dai genitori: emigrare in Inghilterra. Lo sport era la sua passione, in patria non poteva gareggiare né allenarsi. Un cartello campeggiava sulla facciata dell’Ulm Football Club 1894: «Ebrei e cani non sono ammessi». Lì aveva mosso i primi passi, da lì era stata cacciata via: «Quando i nazisti presero il potere nel 1933, quando avevo 19 anni, non mi fu più permesso di mettere piede in uno stadio, neppure da spettatrice». Meglio espatriare, quindi, con un biglietto di sola andata. Magari avrebbe potuto cambiare nazionalità, gareggiare per l’Inghilterra, tornare in patria per coronare sotto un’altra bandiera il sogno olimpico. E ce l’avrebbe fatta, se solo la Germania non l’avesse richiamata.
Perché Gretel saltava misure ragguardevoli e incassava successi importanti: nel 1934 era diventata campionessa britannica. Non ci volle molto perché la notizia attraversasse la Manica fino a giungere in Germania. E fu così che le autorità decisero per il suo ritorno. La convinsero presto, usando metodi spicci: minacce alla famiglia se lei non fosse tornata a rappresentare la Germania in pedana. Troppo forte la paura di rappresaglie, tornare era l’unica opzione. Le Olimpiadi erano alle porte, Gretel Bergmann e pochi altri erano la chiave per aprire la porte agli Usa, che minacciavano il boicottaggio se la Germania non avesse permesso ad atleti ebrei di far parte della squadra a cinque cerchi. Li ammisero tra gli aspiranti olimpionici, ma li trattavano come degli appestati.
C’erano centri d’allenamento apposta per gli ebrei, fatiscenti rispetto a quelli per gli altri atleti. Era un’impresa allenarsi al meglio, ancora di più ottenere tempi e misure per qualificarsi, che poi era il fine ultimo dei nazisti. Gretel Bergmann era più forte di tutti i soprusi: sempre migliori le sue performance, che le garantirono l’ingresso nel novero delle migliori saltatrici al mondo. Non poteva non qualificarsi. E così fu. Mai, però, gli organizzatori le avrebbero permesso di esibirsi dinanzi a Hitler, sotto le insegne della Germania nazista. Aspettarono fino alla fine, quando la squadra americana era già sul transatlantico che l’avrebbe condotta in Europa, troppo tardi per mettere in pratica un boicottaggio. Poi, il colpo di mano: via Gretel Bergmann dall’elenco dei partecipanti, cancellata da un giorno all’altro.
E qui entra in scena Dora Ratjen, che negli ultimi giorni era stata sua compagna di stanza. Era strana, Dora. Si depilava le gambe molte volte al giorno, faceva la doccia da sola, aveva un bagno privato, aveva una voce roca e profonda. «Era tutto così strano – ricorda Gretel Bergmann, 95 anni, dalla sua casa americana -. Ci chiedevamo tutte perché non l’avessimo vista mai completamente nuda sotto la doccia o perché a quell’età avesse bisogno di depilarsi così spesso». L’avrebbero capito un bel po’ di tempo dopo. Alle Olimpiadi di Berlino, niente di che: solo un quarto posto. Due anni dopo, agli Europei, il gran botto: saltò 170 centimetri, nuovo record mondiale. Un primato, però, mai ratificato. Alcune rivali avanzarono il sospetto, un medico scoprì l’arcano: Dora Ratjen era un uomo, il suo vero nome era Hermann. Fu arruolato nell’esercito, finì sul fronte orientale. Ne uscì vivo. Anni dopo, da Amburgo, avrebbe raccontato la sua verità: «Sono stato costretto dai nazisti a travestirmi da donna. Era per loro una questione di onore e gloria per la Germania. Per tre anni ho vissuto come una ragazza. E’ stato qualcosa di assurdo».
Hermann Ratjen è morto un anno fa. Gretel Bergmann la sua Germania l’aveva dimenticata. Se ne andò negli Usa, fin dal 1937, dove s’è fatta una nuova vita. Ancora un po’ di sport, ma solo fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Ha dimenticato la Germania, anche se la Germania non ha dimenticato lei. Nella sua città, Laupheim, gli hanno intitolato uno stadio nel 1999. Lei che aveva promesso di non tornarci mai più fece uno strappo alla regola. Ma solo per una buona causa: «Pensai che fosse una buona idea dare il mio nome a uno stadio. Perché a chi dovesse chiedersi chi fosse la Gretel Bergmann dello stadio magari qualcuno racconterà la mia storia e la storia di quegli anni». Ora l’ha raccontata anche Kaspar Heidelbach. «Berlin 36», un film, una storia, un monito.
La Stampa 7/9/2009 (8:5) – LA STORIA