Tre intolleranze per un discorso che dura da secoli
David Bidussa
L’antisemitismo è molte cose. Un tentativo di spiegazione del mondo a fronte dell’impossibilità di trovare un bandolo che dia ragione delle cose; la pretesa di individuare le origini del male e le cause del suo persistere in un soggetto dato; è la descrizione di un sistema di potere di cui ci si autodefinisce come vittime e di cui si indica negli ebrei il soggetto collettivo che ne incarnerebbe l’essenza.
L’antisemitismo può prosperare anche senza che gli ebrei facciano qualcosa. Talora esiste anche senza ebrei.
Nella Polonia del secondo dopoguerra a lungo è esistito un antisemitismo sostanzialmente senza presenza fisica degli ebrei. In quel contesto contava, e ha contato soprattutto all’indomani del 1968, scaricare su un nemico fisicamente non presente (come meglio dimostrare così la sua capacità di essere “invisibile” e dunque ancor più pericoloso?) le angosce e il timore di accerchiamento di un sistema di potere che si vedeva e si sentiva minacciato da qualsiasi cambiamento.
Il potere comunista era allora antisemita – comunque non solo in Polonia – ma paradossalmente lo era anche una porzione rilevante della società civile anticomunista che vedeva nei comunisti al potere degli ebrei mascherati giunti o “ritornati” alla fine della Seconda guerra mondiale sui carri armati sovietici pronti a rivolere ciò che avevano perduto o che era stato rubato loro negli anni dell’occupazione nazista.
Che l’antisemitismo sia scomparso dall’Europa dopo la Seconda guerra mondiale non è vero. Diciamo che si era eclissato ed era tornato ad assumere le vesti di un antigiudaismo non razzista, in cui tornavano a prosperare alcune delle credenze che hanno popolato l’immaginario collettivo cristiano nel corso del secondo millennio e in cui si sovrappongono – come sostiene e dimostra Manfred Gerstenfeld molti paradigmi culturali e politici. Di destra, ma anche di sinistra.
Questo è stato uno degli effetti della memoria della Shoah: l’assunzione dell’antisemitismo come pratica sistematica dello sterminio, dimenticandosi che l’antisemitismo moderno è stata solo una delle forme storiche dell’intolleranza nei confronti degli ebrei. Questo sentimento nel secondo dopoguerra è stato un fenomeno complicato, spesso non facilmente districabile e classificabile.
Prima lo era meno.
Che tipo di intolleranze hanno subito gli ebrei nel corso della storia? Almeno tre: una teologica; una politica; una socio-culturale.
A lungo l’intolleranza nei confronti degli ebrei ha avuto un carattere teologico, attraverso l’accusa di deicidio, l’accusa di violare le ostie, di produrre pane azzimo per la Pasqua ebraica utilizzando il sangue dei bambini cristiani, una vera leggenda metropolitanaante litteram in nome della quale lungo tutte le strade d’Europa, dall’Inghilterra (Norwich 1144) passando per l’Italia (Trento 1475) e poi fino all’Ucraina all’inizio del Novecento (Odessa 1912-1913), è stato possibile scatenare pogrom e realizzare stragi di ebrei.
In gran parte i pogrom che si verificano in Europa Centrale, in Francia – nel corso della mobilitazione per le crociate, ma anche le credenze che si diffondono in occasione delle grandi epidemie con l’accusa agli ebrei di avvelenare i pozzi e le riserve d’acqua – vedono incrociarsi una credenza di antigiudaica che ha la sua origine in convinzioni religiose e motivazioni sociali.
L’ebreo appare allora come un bersaglio facile, un vero e proprio capro espiatorio su cui è possibile scaricare tensioni sociali, frustrazioni, nonché indirizzare la mobilitazione sociale favorendo, al tempo stesso, il ricompattamento del quadro sociale. Il principio è quello della lotta allo straniero, all’estraneo inteso come figura perturbante, destabilizzante, comunque infida. E’ un paradigma che ritorna frequentemente e che risulta spendibile all’interno di quadri sociali instabili.
L’antisemitismo non è solo questo. E’ stato nel tempo anche altro. Ha avuto, per esempio, un carattere politico, ovvero si è concretizzato nelle figure ossessive e paranoiche con cui si costruisce la figura astratta dell’oppositore, del nemico di classe, del perfido attore che trama nell’ombra, oppure del ricco speculatore che affama o che sfrutta le masse anonime della società industriale, senza peraltro permettere o lasciare il margine allo sviluppo.
Alternativamente l’ebreo è così come la figura vampirica: vero succhiasangue della vitalità della società e del mondo del lavoro, impossessandosi delle sue energie e soggiogatore, schiavizzatore della possibilità di prosperità e felicità di un progresso equilibrato e di uno sviluppo equo, perché volto al puro arricchimento personale e strenuo oppositore a una possibile redistribuzione delle risorse.
Una figura che popola l’immaginario ossessionato dell’occidente industrializzato, ma anche del mondo non industrializzato e che ritorna frequentemente nell’immaginario collettivo (un aspetto che si sposa con l’idea che i Rom rubino i bambini, o che gli arabi violentino le donne bianche, e via di seguito).
Sotto questa veste l’ossessione per un ebreo intravisto come il “ricco” e dunque assunto come la figura e la quintessenza della disumanità, dell’interesse egoistico, si accompagna a una costruzione socio-culturale in cui l’ebreo è la figura che trama nell’ombra che contemporaneamente è il potere e il distruttore dei poteri tradizionali che trasformano una collettività in una vera e solidale comunità.
Nel dispositivo de I Protocolli dei Savi anziani di Sion- testo che crea l’ebreo delle ossessioni mentali dei non ebrei – è riscontrabile sia la dimensione sovversiva di colui che vuol distruggere l’ordine del mondo quanto quella di colui che lo incarna.
Il testo de I Protocolli – al di là della questione della sua falsità – è interessante proprio per il dispositivo che mette a nudo, per l’immagine del potere che le classi dominate hanno del potere che le domina, per l’immaginario di rivolta, ma non di eguaglianza con cui i ceti dominati pensano di invertire l’ordine sociale.
Il testo de I Protocolli per quanto banale, rozzo, assolutamente risibile per l’immaginario economico che prospetta, costituisce uno dei dispositivi più efficaci e potenti che generano l’antisemitismo.
La questione della falsità dimostrata de I Protocollinon ha impedito che milioni di individui abbiano continuato – e ancora oggi continuino – a prestare fede a un testo, peraltro spesso senza neppure averlo letto.
Non sarebbe improprio osservare – d’altra parte – che il problema rappresentato dai documenti falsi non è risolto dimostrando la loro falsità, ma costituisce un’opportunità per indagare i livelli di credenza collettiva? Quanto è importante la datazione esatta della Sacra Sindone? Forse per questo milioni di individui smetteranno di andare a vederla? E questo fatto, cessa di essere rilevante o di ridursi a un mero evento di falsa credenza una volta che si sia dimostrata la falsa datazione della Sindone? Interrogare la storia non riguarda l’individuazione della verità – questione che riduce l’indagine storiografica a un dossier di polizia – ma indagare e rendere edotti sui fenomeni sociali. Un fenomeno sociale esiste anche sulla base di una falsa credenza. Anzi per certi aspetti è oltremodo rilevante e illuminante se connesso a una questione di falsa credenza.
In altre parole, il problema dei falsi non è dimostrare la loro falsità, ma cercare di spiegare perché pur nella loro dimostrata falsità, i falsi documenti continuano a funzionare e a “convincere”.
Gran parte del livello socio-culturale con cui si esprime oggi l’antisemitismo nell’ambito delle realtà sociali e politiche del Terzo mondo e in particolare del mondo arabo; l’uso e la diffusione in area islamica e araba de I protocolli (un aspetto e un fenomeno che non risalgono alla seconda Intifada ma che esistono da almeno un ventennio e che Pierre-André Taguieff aveva già descritto più di dieci anni fa), sono connessi a questo ambito di problemi.
Così come nel mondo medievale e nella prima modernità l’intolleranza nei confronti degli ebrei nasceva sulla base di una loro presunta estraneità, assumendoli come nemici o come agenti e rappresentanti del nemico – non differentemente oggi questa convinzione si ripete. Con una sostanziale differenza: ancora fino alla prima modernità la lotta agli ebrei era la lotta a un nemico che poteva essere acquisito e conquistato e dunque convertito – cessnado così di esser un nemico – oppure cacciato. L’eredità del lessico razzista del Novecento modifica la figura della lotta al “nemico”: quella figura non è più sufficiente scacciarla, occorre, invece, eliminarla.
Nel conflitto di civiltà ritornano aggiornati e “modernizzati” concetti e figure che apparentemente sembrano avere una lontana origine.
Per esempio, l’espulsione degli ebrei quale è avvenuta nei paesi arabi o islamici negli anni ’50 e poi ancora nel giugno del 1967 e poi nel corso degli anni ‘ 70 non risponde solo alla raffigurazione della purificazione di un territorio che deve rimanere incontaminato e dunque “puro” rispetto alla presenza dello straniero. Il linguaggio dell’antisionismo presenta aspetti, aggettivi, figure che hanno una stretta parentela con il linguaggio della non contaminazione dello spazio la cui matrice originaria denuncia origini razziste contemporanee, pur spesso alimentandosi di un linguaggio etnocentrico che usa e sfrutta molti concetti che preesistevano al linguaggio dei razzismi moderni.
Quello stesso linguaggio, poi, innerva e struttura metafore, raffigurazioni, immagini, retoriche che hanno diffusione non marginale anche fuori dall’area mediorentale e rinnovano in forma propria linguaggi e culture che hanno costruito una figura dell’ebreo come nemico nel corso del secondo millennio. Un “nemico” che, in alcuni contesti, con lentezza è stato accolto, “emancipato” e parificato nei diritti nel corso della lunga rivoluzione democratica che ha preso le mosse dalle sale della Pallacorda a Versailles nel maggio-giugno 1789, in altre realtà (al prezzo di molte conflittualità e lacerazioni, come in Germania e nell’Europa centrale), il “nemico ebraico” ha maturato diritti; in altri luoghi ancora ha scommesso su un’ipotesi di riscatto sociale collettiva (è il caso della Russia sovietica, che tuttavia non sembra aver emancipato e integrato davvero il mondo ebraico nella “grande madre Russia”).
Eppure il quadro che oggi noi abbiamo di fronte ci presenta il ritorno di forme di antisemitismo tradizionale al fianco di forme nuove ed emergenti in cui si combinano fattori sociali, culturali, vecchie immagini di ribellione e di diffidenza con nuove immagini e convinzioni di lotta contro il “potente” (presunto più spesso che non reale), antiche immagini in cui l’ebreo è alternativamente, il caprone, il perfido tentatore, l’uomo dalla dura cervice che spesso ha popolato l’iconografia e il lessico della retorica cristiana. E da tutto ciò nasce l’opportunità di confrontarsi con il fatto che alla fine l’antisemitismo è un dispositivo, una macchina che spiega l’oggetto, ed è forse uno dei peggiori contenitori di memoria e delle sue incrostazioni.
Non c’è un antisemitismo meno efficace che è sostituito da uno più efficace. C’è la costruzione di un sistema esplicativo che rende coerente la credenza sull’antisemitismo e che soprattutto veicola, aggiorna e rende utilizzabili tutte le immagini e tutti i diversi significati che l’intolleranza antiebraica ha assunto nel lungo arco della storia del rapporto tra ebrei e non ebrei nelle società articolate dall’antichità a oggi.
L’antisemitismo in questo senso non è un’ideologia compiuta, organica e coerente. E’ invece una pratica discorsiva, ideologica e operativa che si costruisce nel tempo e che nel tempo si arricchisce. Una pratica che raccoglie molte cose lungo la strada e mai le perde, dotandosi di un vasto archivio sensibile alle trasformazioni del tempo, ma comunque disponibile ad essere rimobilitato in contesti e, talora, con scopi diversi e distinti.
L’antisemitismo, letto da quest’angolazione, non è nemmeno un’ideologia coerente, ma è un discorso coerente, spalmato lungo l’asse destra-sinistra in forme, pratiche, discorsi, linguaggi diversi. Lo possiamo leggere a partire da diverse variabili culturali sulla scorta per esempio dei dati emersi nell’ultima inchiesta Eurispes, anche nell’ambito delle sue incertezze – come la questione non nuova dell’antisemitismo di sinistra e dei suoi rapporti con la questione israeliana come sottolineato da Shalom Lappin su uno degli ultimi numeri di “Dissent”. In ogni caso l’antisemitismo prima ancora che pratica sociale, è oggi soprattutto, una forma del pensare e si colloca lungo tutto l’asse destra-sinistra .
Rappresenta, in sintesi, una parte di un linguaggio collettivo con cui è bene fare serenamente e costantemente i conti. Negarlo o far finta di discuterne come fa “Il manifesto” in questi giorni con gli interventi di Marco Bascetta e di Stefano Chiarini e Maurizio Matteuzzi è solo una parte in commedia, quando addirittura non è tempo perso.
Qualche indicazione bibliografica
Yves Chevalier, L’antisemitismo: l’ebreo come capro espiatorio, Ipl, Milano 1991.
Gabriele Eschenazi – Gabriele Nissim, Ebrei invisibili: i sopravvissuti dell’Europa orientale dal comunismo a oggi, Mondatori, Milano 1995.
Furio Jesi, L’accusa del sangue: mitologie dell’antisemitismo, Morcelliana, Brescia 1993.
Pierre-André Taguieff, Les Protocoles des Sages de Sion, Berg Internationale, Paris 1992.