Ernesto Galli della Loggia – Corriere della Sera 30/12/2024
È in generale il rapporto apparentemente così disinvolto di Israele con lo strumento militare e con la guerra, con l’impiego della forza, che tende ad apparirci prima che eticamente riprovevole innanzi tutto come qualcosa di inattuale e perciò di radicalmente «inappropriato»
Il dibattito accesissimo scatenatosi nell’opinione pubblica europea e americana dopo il pogrom del 7 ottobre riguarda qualcosa che va al di là del giudizio sulla reazione di Israele a quell’evento. Neppure i suoi protagonisti ne hanno forse una piena consapevolezza, ma quel dibattito, con i sentimenti e i risentimenti di cui si nutre, riguarda in realtà l’ebraismo e gli ebrei in quanto tali. Riguarda l’identità ebraica e naturalmente il suo rapporto con la nostra identità, di noi non ebrei intendo: con ciò che noi siamo stati fino a ieri e siamo oggi. Insomma, l’Occidente cristiano – se è permesso adoperare ancora questa espressione almeno storicamente indiscutibile – sembra tuttora impegnato a fare i conti con quel decisivo retaggio che sta alle sue spalle che è per l’appunto l’ebraismo.
Fin dal primo momento e poi per secoli, questo Occidente si è premurato in tutti i modi, per così dire, di far stare al loro posto coloro che non poteva non riconoscere come i suoi «fratelli maggiori» nella fede monoteista (dunque antipaticissimi come tutti i fratelli maggiori): ma da lasciare in vita proprio perciò e ai quali era comunque opportuno ricordare ogni giorno la loro colpa di «deicidi».
Non essendogli dunque consentito di eliminare gli ebrei, l’Occidente cristiano si è «contentato» di discriminarli e perseguitarli. Da questo punto di vista Hitler, con il suo disegno sterminazionista, lungi dal rappresentare la norma fu in realtà una scheggia impazzita. Una scheggia impazzita capace però di riuscire nel risultato di trasformare gli ebrei nel prototipo della vittima innocente. Sicché, alla fine, oltre che «fratelli maggiori» essi sono diventati pure le vittime per definizione: insomma agli occhi di tanti quasi il non plus ultra dell’insopportabilità. Un sentimento d’insopportabilità, quello nutrito nei confronti degli ebrei, a lungo obbligatoriamente relegato nelle pieghe nell’inconscio, ma che è sopravvissuto al rimorso dell’Olocausto, e dopo qualche decennio è quasi riuscito perfino a cancellare tale rimorso (peraltro già per suo conto in rapida diminuzione per effetto delle ben note «colpe» di Israele verso i palestinesi).
Oggi dunque, virtualmente annullati tutti i debiti fin qui accumulati nei confronti degli ebrei, il nostro rapporto con essi ricomincia in certo senso da zero. E ovviamente è destinato ad essere un rapporto difficile. L’identità ebraica infatti — definita com’essa è dal dato della discendenza matrilineare e insieme dal segno nella carne della circoncisione — ci appare come consegnata interamente a un dato naturale irrevocabile in cui risuona l’eco di un tempo remoto. Di un tempo governato da vincoli primordiali di sangue che sembrano fatti apposta per contraddire il nostro modo d’essere, svincolato invece da ogni tradizione, immerso in un presente dominato dall’arbitrarietà di tutti i legami, a cominciare proprio da quello della genitorialità. Tanto più se quel passato remoto restituisce anche la voce di un Dio che è stato pure il nostro, ma che ormai ci è pressoché sconosciuto. Non ce n’è già abbastanza per costruire il senso di un’irreparabile diversità?
Ma non basta, perché l’ebraismo poi — questa misura di vita spirituale e pratica che pure ha dato e continua a dare al mondo una schiera intellettuale di alfieri della modernità la più scettica e critica, di apostoli del moralismo più lancinante come di sognatori dei rinnovamenti più utopici — l’ebraismo, dicevo, sembra conservare pure un legame con una dimensione quasi primigenia di tutt’altra natura che ci sconcerta — di nuovo! — per la sua apparente arcaicità. È la dimensione della forza e della disponibilità a usare di questa fino in fondo. È la dimensione che poi si traduce nella fredda adozione del principio di realtà nel quale trova posto anche la dimensione umanissima e primordiale (e perciò per il nostro bon ton insopportabile) della vendetta.
Non sono per l’appunto proprio questi i tratti che ci colpiscono negativamente nell’immagine che ci facciamo dello Stato di Israele? Senz’altro, e con più di una ragione. Infatti per questo suo legame con la dimensione della forza Israele paga un prezzo. Che proprio come insegna l’antica tragedia è rappresentato dalla ubris, dalla smisuratezza. Ad esempio la smisuratezza animata dalla violenza che caratterizza i progetti espansionistici di quella parte di popolazione ultrareligiosa che crede di adempiere il comandamento di Dio occupando i territori abitati dagli arabi.
Ma a parte ciò è in generale il rapporto apparentemente così disinvolto di Israele con lo strumento militare e con la guerra, con l’impiego della forza, che tende ad apparirci prima che eticamente riprovevole innanzi tutto come qualcosa di inattuale e perciò di radicalmente «inappropriato». Come qualcosa che contraddice in modo frontale l’idea linda e rassicurante che ci piace avere della nostra modernità. Come qualcosa con cui in ogni caso non possiamo cha avere un rapporto di totale estraneità. Ma la riprovazione che ci piace muovere a Israele per il suo uso spregiudicato della potenza, mi chiedo, non è forse solo un modo per cercare di nascondere a noi stessi la nostra impotenza? Per cercare di nascondere la rassegnazione da parte nostra, da parte dell’Occidente europeo, a non avere più alcun ruolo nelle faccende del mondo, al fatto di esserci virtualmente ritirati dalla storia?
Il rapporto con la guerra significa sempre molto di più di quanto dica la semplice parola. Il rapporto con la guerra significa infatti il rapporto con il nostro presente in generale, con ciò che esso è, e insieme indica ciò per cui pensiamo che valga la pena di morire. È per questo, sospetto, che alla fine non riusciamo ad accettare quasi nulla di quello che ha fatto Israele dal 7 ottobre in avanti. Infatti alla nostra modernità, fondata sulla negazione di una rivelazione originaria, e quindi del sacro — e proprio per questo destinata ad alimentarsi di un’oscura disperazione — Israele e l’ebraismo contrappongono una diversa modernità: che mostra viceversa una sostanziale continuità con la dimensione religiosa e che forse non a caso, lungi dal conoscere la disperazione, si ostina a tenere accesa la fiaccola della speranza.