Uno degli aspetti principali della cultura del popolo ebraico ed uno fra i più importanti, è quello che concerne il proprio sistema giuridico, la Halakhà, sistema che a causa delle circostanze storiche si è sviluppato e soprattutto è stato interpretato in maniera diversa da paese a paese. Vale a dire che il presupposto, accettato per tradizione anche se mai provato scientificamente, è che la Halakhà sia stata interpretata e quindi applicata in Italia diversamente che in altri paesi. Tuttavia, come gli altri sistemi giuridici, anche la Halakhà si è dovuta confrontare con le idee ed i dibattiti emersi durante i secoli, fra cui quelli sviluppatisi tra la fine del 700 e l’inizio dell’800, che solitamente vengono chiamati in maniera del tutto generalizzata “modernità”[1]. Quest’ultimo confronto in particolare fu assai aspro, ed è quello che portò poi a quel fenomeno di disgregamento del sistema sociale e culturale preesistente, che Jakob Katz ha poi definito come “il crollo della società tradizionale”[2]. Da questo confronto scaturirono diverse reazioni. Reazioni che spaziavano da un totale rigetto della modernità fino ad una sua più o meno selettiva ricezione[3]. Ed è in questo contesto che si vennero a formare quelle figure di ebreo moderno che noi conosciamo oggi.
Al fine quindi di comprendere questo genere di conflitto socio-culturale, del tutto attuale oggi, è fondamentale analizzare due punti: quale sia stata la reazione dell’Halakhà appunto nei confronti della modernità e se questa abbia recepito innovazioni o almeno alcuni elementi dai dibattiti che si svolsero in quel periodo, e quindi se la reazione dell’Halakhà in Italia sia stata eguale o diversa da quella sviluppatasi in altri paesi.
Uno dei maggiori esponenti del rabbinato italiano del periodo è stato Graziadio (in ebraico Hananel) Neppi. Il rabbino Neppi (Ferrara 1759 – Cento 1836) fù sicuramente una figura cruciale del panorama ebraico italiano nel periodo a cavallo tra Settecento e Ottocento, ed è quindi una figura chiave sia per la comprensione di quegli stessi conflitti culturali, sia soprattutto per comprendere appunto come il diritto tradizionale ebraico (la Halakhà) si confrontò con quegli sviluppi, diventando pertanto una lente attraverso cui analizzare il quesito oramai classico concernente l’esistenza o meno di una particolare tradizione halakhica italiana. Lo scopo di questo studio sarà pertanto esporre una prima traccia di ricerca su questa figura assai sfaccettata e poliedrica, rabbino ed enciclopedista.
Il Neppi fu testimone e per certi versi fu anche coinvolto nei grandi dibattiti ed eventi che sconvolsero la società ebraica. Prima di tutto, come è noto, il rabbino Neppi fu uno dei delegati italiani, del Basso Po, al Sinedrio di Parigi[4], quindi espresse la sua posizione nel dibattito sulla rasatura nei giorni di mezza festa, il hol hamoed, così come in quello attorno all’atteggiamento verso le materie laiche promosso da Naftali Hertz Wessely (o Wezel secondo come si firmava in ebraico)[5], e riguardo l’introduzione della musica nella preghiera, la tefillà. Su tutti questi argomenti scrisse lunghe dissertazioni halakhiche, ed in questo campo si distingue per la sua originalità e la sua importanza.
Infatti il rabbino Graziadio Neppi fu uno dei maggiori esperti di Halakhà del periodo. Fu allievo di Shelomò Lampronti, figlio del famoso Izhak Lampronti autore della prima enciclopedia talmudica Pahad Izhaq[6], ed è questo un elemento fondamentale perché rende il Neppi allievo di una importantissima scuola halakhica italiana. Fra l’altro Neppi intrattenne rapporti epistolari ed intellettuali con tutti i rabbini italiani del periodo, ad esempio con i rabbini Ishmael haCoen di Modena, Daniel Terni di Firenze, Mordechai Ghirondi di Padova, corrispondenze rimaste tutt’ora manoscritte[7]. Infatti va sottolineato come il Neppi si adoperasse per sostenere l’interpretazione dell’Halakhà diffusa in Italia. Il motivo di questa sua posizione viene affermato in una nota del suo dizionario biografico Zekher Zadikim Livrakhà: “poiché in Italia ci sono stati molti saggi importanti” [8].
Neppi nacque a Ferrara dove studiò e visse gran parte della sua vita, finché si trasferì a Cento dove prese la cattedra rabbinica della città fino alla sua morte nel 1836. E` conosciuto soprattutto per essere stato uno dei due autori del più importante dizionario bio-bibligrafico dei rabbini italiani, tuttora in uso, unica sua opera ad essere stata pubblicata, mentre la maggior parte dei suoi scritti sono tuttora manoscritti, inediti e mai stati studiati, fra cui 11 volumi di giurisprudenza halakhica, diversi volumi di sermoni e discorsi, ed altri documenti[9].
Presso l’Istituto per i microfilm dei manoscritti ebraici di Gerusalemme sono conservati ben 33 microfilm contenenti opere diverse del Neppi. Di questi, ben 24 sono manoscritti di responsa, altri 3 sono discorsi e sermoni, mentre ancora 3 sono raccolte varie di scritti e lettere. Già da qui appare chiaro come la stragrande maggioranza della sua produzione intellettuale trattasse appunto argomenti di giurisprudenza rituale.
Come si è detto il Neppi compose un primo dizionario biografico di rabbini italiani intitolato “Zekher Zadiqim Livrakhà”, cioè “La memoria dei giusti sia benedetta”[10]. Questo lavoro fu ripreso poi dal rabbino di Padova Mordechai Ghirondi che lo ampliò e quindi lo pubblicò con il titolo “Toledoth Ghedolè Israel” [Storie dei grandi di Israele] a Trieste nel 1853, dopo che Neppi era già mancato. Senonché l’edizione stampata del “Toledoth Ghedolè Israel” comprende soltanto una parte del lavoro di Neppi, con diverse differenze fra queste due versioni. Tuttavia attraverso questo lavoro si intravedono già due apetti importanti della figura del Neppi: uno è l’appassionato bibliografo, e l’altro è la fierezza per l’ebraismo italiano. Difatti, in questa sua opera, contrariamente ad altri dizionari biografici come il famoso “Shem ha-Ghedolim” di Hayym Yosef David Azulay, tratta quasi esclusivamente di rabbini italiani.
Il Neppi fù appunto un bibliografo ed un collezionista di libri e manoscritti, tant’è che un catalogo della sua biblioteca ebraica venne anche stampato[11]. Senonché questo catalogo comprende soltanto i libri ebraici a stampa, e per di più arriva soltanto fino alla lettera shin, quindi molto probabilmente è mancante. Ad ogni modo esso contiene i titoli di 788 volumi, mentre leggendo il “Zekher Zadiqim Livrakhà” si capisce chiaramente che Neppi possedeva anche diversi manoscritti, come è anche verosimile che leggesse opere in italiano.
Ma il Neppi era soprattutto un fine talmudista: i suoi scritti sono zeppi di lunghe trattative talmudiche e dotte citazioni, ed anche i suoi sermoni sono tutti pieni di citazioni talmudiche. E questo a dimostrazione che all’inizio dell’800 la figura del rabbino italiano non era ancora cambiata, in quella che diventerà poi la figura del rabbino umanista, più filologo e letterato che talmudista, che sarà soprattutto il prodotto del Collegio Rabbinico di Padova.
Ma l’opera principale del Neppi è senza dubbio la raccolta di responsa tuttora manoscritta Lewiyat Hen, di cui il rabbino Giuseppe Jarè aveva visto a Ferrara almeno 6 volumi manoscritti[12]. Di questi volumi Jarè pubblicò un breve carteggio, senza specificare però da quale manoscritto sia stato preso, fra il Neppi e il rabbino Sintzheim di Strasburgo, presidente dell’Assemblea dei Notabili.
Il Neppi compose anche alcuni discorsi funebri, ad esempio quando mancò Rabbì Ishmael haCoen di Modena (1811), e quando mancò il rabbino Shelomò Yona di Torino[13]. Fra i responsa più curiosi, ne compose uno dissertando se fosse permesso annusare tabacco di sabato, testimoniando come questo uso fosse diffuso, sia per piacere sia perché veniva considerato quasi una medicina per liberare le vie respiratorie dal catarro[14]. Inoltre il Neppi era un oratore evidentemente attento alle esigenze del pubblico, ed anche attento a non ripetersi, cercando di essere originale. Difatti ecco che il suo volume di sermoni manoscritto inizia con questa frase:
אם אין קמח אין תורה, אם אין תורה אין קמ”ח. אם אין קול מחדש חידושים אין הנאה לשומעים לשמוע דבר ששמעו פעמים רבות ומתוך כך אין תורה יחדלו לילך לישיבות
Se non c’è farina non c’è Torà, e se non c’è Torà non c’è farina. Se non c’è una voce che apporta delle innovazioni gli ascoltatori non godono, perché non piace sentire tante volte [le stesse cose] e di conseguenza non c’è neanche la Torà, e smetteranno di andare nelle accademie di studio[15]
Quindi un’intera discussione in questo volume è dedicata appunto per disquire di come mai il pubblico non viene ad ascoltare le lezioni dei rabbini[16]. Senonché Neppi non riporta citazioni, e potrebbe quindi darsi che questo discorso fosse stato scritto a seguito di quanto aveva già affermato il noto scrittore Naftali Herz Wessely, che aveva infatti scritto sia che gli oratori del suo tempo sono noiosi e non attirano gente[17], sia anche che non c’è bet midrash (accademia di studio) senza innovazione[18].
Ma quale fu l’atteggiamento del Neppi verso gli eventi importanti di quel periodo? Uno dei primi aspetti da valutare sono i rapporti del Neppi con il rabbino David Sintzheim presidente del Sinedrio. Nel “Zekher Zadiqim Livrakhà” il Neppi scrisse una voce piena di stima nei confronti del Sintzheim[19], sostenendo che chi non ha conosciuto le qualità di questo rabbino non può comprendere cosa siano le qualità umane:
וכל מי שלא ראה הודו ותפארתו של הרב הנזכר בפאריס, לא ראה תפארת ישראל בגלות
E chi non ha visto lo splendore di quel rabbino a Parigi non ha mai visto lo splendore di Israele nella Diaspora
Inoltre, affermò di aver imparato molto da lui, perché costui era umile e molto saggio, ed anche un colto talmudista. Quindi riferisce che Sintzheim gli raccontò di avere compilato dei quaderni manoscritti con commenti al Talmud e allo Shulkhan Arukh[20].
Ora come si sa, i membri dell’Assemblea si dovettero trattenere a Parigi oltre la festività di Sukkot del 1806, e fu allora che si sviluppò un acceso dibattito sulla rasatura di Hol ha-Moed, i giorni di mezza festa. E` evidente che quest’argomento era all’ordine del giorno ed assillava da parecchio tempo gli ebrei italiani, tant’è che anche Ishamel haCoen di Modena se ne occupò[21]. Questo stesso tema fu più tardi discusso approfonditamente da Izhak Shemuel Reggio di Gorizia che pubblicò il suo famoso discorso nel 1835[22]. Reggio non cita l’evento di Parigi, e non sappiamo quindi se si sia ispirato ad esso o meno ma è evidente che lo scritto di Reggio fu soltanto l’ultimo anello di una catena di interventi ed opinioni. Ad ogni modo, Neppi partecipò attivamente a questa polemica rispondendo a quanto aveva già scritto Sintzheim[23], il quale sosteneva che i rabbini, dal momento che si trovavano a contatto con autorità non di fede ebraica, erano tenuti a radersi la barba. Qui va sottolineato come Sintzheim interpretasse il concetto di דרך ארץ, cioè buon costume o buone usanze, intendendo che è importante che i goyym non deridano delle usanze ebraiche[24]. Il Neppi gli rispose con una lunga disquisizione, una trattativa rabbinica in pieno stile, citando diverse fonti, ed in sostanza, ponendo dei dubbi su quanto Sintzheim aveva scritto, ma acconsentendo alla fine alla rasatura nei giorni di mezza festa[25].
Un altro punto da analizzare è il dibattito attorno alla figura del Wessely e dei suoi scritti. Neppi, nel suo “Zekher Zadiqim Livrakhà”, elogia il pensatore di Amburgo, chiamandolo un “חכם חריף, מדקדק ומשורר”, cioè un saggio acuto, poeta e linguista, ed anche “ירא שמים מאוד כאשר נראה מחיבוריו”, molto timorante di Dio come appare dai suoi scritti[26]. Inoltre Neppi riporta tutta la lista delle opere del Wessely, compreso un suo commento alla Bibbia rimasto manoscritto. Ma soprattutto riguardo al דברי שלום ואמת, il famoso scritto del Wessely in cui trattava la questione dell’educazione dei fanciulli, scrive Neppi:
Ed inoltre compose quattro lettere: la prima si intitola Divrè Shalom ve-Emet per fissare il programma di studi dei ragazzi, ma alcuni rabbini ashkenaziti lo opposero, e quindi compose una seconda lettera chiamata “Rav tuv le-bet Israel” per spiegare quello che aveva detto precedentemente. E nominarono allora alcuni rabbini italiani, [tra cui] Formiggini oltre al “Zer’a Emet”, e stabilirono un compromesso fra le due fazioni per raggiungere la pace fra le opinioni, [..] ed aprì la sua bocca con saggezza e conoscenza per istruire gli insegnanti dei bambini di queste generazioni affinché crescano secondo la Torà ed il buon costume. [..] In fin dei conti il tesoro del rabbino Naftalì era il timore di Dio in tutti i suoi libri[27].
Neppi partecipò in qualche maniera anche alla polemica sulla musica e sull’opportunità di introdurre l’organo nella liturgia delle sinagoghe, componendo una risposta ad un quesito indirizzatogli dal rabbino Abramo Lattes di Venezia[28]. Secondo il Neppi a priori sarebbe stato meglio evitare di introdurre la musica in senso lato, tuttavia dal momento che il pubblico oramai già usava cantare in coro al tempio, a questo punto non rimaneva che permettere loro di cantare le preghiere assieme in coro, anche perché in fin dei conti è da ritenere la musica una cosa positiva. Soprattutto è importante non attaccare o denigrare chi prega in musica, perché così facendo si aumenterebbero i litigi all’interno della comunità, ed in ogni caso il tranquillo vivere [דרכי שלום] è più importante di tutto il resto. Ma la conclusione è il passo più significativo, perché così consiglia al rabbino Lattes,
סוף דבר יפה אמר מר שצריך לילך לאט לאט, ואם אינו בטוח וודאי שיעלה בידו בשלום עם כל בני ק”ק, שכן לא נעלם מעיני אדוני כי שמו של הקב”ה היה נמחק מפני השלום.
Concludendo, ha detto bene, che bisogna andare piano, e che se non è sicuro in ogni caso che cerchi di mantenere la tranquillità con tutti i membri della sua comunità, perché come lei sa il nome del Signore sarebbe profanato se non ci fosse la pace[29]
Un ulteriore aspetto che andrà studiato approfonditamente è l’atteggiamento del Neppi verso la kabbalà. C’è infatti chi sostiene che il Neppi sia stato un kabbalista[30], ma questo non sembra dimostrato, ed inoltre nei suoi scritti non parla per niente di Kabbalà e nemmeno cita testi mistici. Anzi riportando una polemica fra diversi rabbini e kabbalisti scrive: “e forse chi non si intende di misteri non può essere una persona importante?”[31]. E` vero che Ghirondi riporta che il Neppi digiunava ogni vigilia di Rosh Hodesh, e per tutti i Shovavim, ma è da supporre che questo comportamento vada interpretato più come un attaccamento ad una tradizione ormai diffusa ed accettata piuttosto che ad una precisa coscenza mistica, senza soffermandosi sull’origine stessa di queste usanze, e distinguendo cioè fra una pratica mistica che può essere diffusa anche a livello popolare, al contrario di una dottrina studiata e conosciuta[32]. E difatti questi usi erano oramai diffusi e subentrati nel sistema tradizionale, e non sempre veniva conferito loro un particolare significato kabbalistico, sicuramente a livello popolare, e fors’anche ad un livello culturale più elevato.
Da quanto esposto fin qui emergono alcuni elementi che si direbbero rappresentativi di una interpretazione giuridica-halakhica maggiormente diffusa in Italia, posizioni simili a quelle di altri rabbini italiani del periodo come Ishmael haCoen di Modena e a Moshe Israel Hazan di Roma[33], che consisterebbe in fin dei conti, contrariamente a quanto invece avveniva in altri paesi soprattutto dell’Europa centro-orientale, in una ricezione selettiva della modernità all’interno del contesto halakhico. In questo senso Neppi è parte integrale del contesto culturale e dell’establishment rabbinico italiano del periodo fra il ghetto e l’emancipazione.
[1] Uno studio sistematico sull’Halakhà prodotta in Italia non è mai stato fatto, a parte qualche lavoro di Roberto Bonfil, e a maggior ragione per gli sviluppi del sistema giuridico ebraico nel periodo a cavallo fra il Ghetto e l’Emancipazione. Sul particolare aspetto del confronto fra tradizione e modernità in Italia, vedi adesso: A. Y. Lattes, “Leadership ebraica in periodo di crisi: il Rabbinato in Italia fra il 700 e l’800 e la reazione dell’Halakhà dinanzi alla vita moderna”, La Rassegna Mensile di Israel, 3-LXXIII, (2007), p. 87-96, e la bibliografia ivi riportata; e più in generale: J. Faur, Rabbi Ysrael Moshe Hazzan: the man and his works, in ebraico, Jerusalem 1978; D. G. Di Segni, “Innovazioni nel culto religioso ebraico a Roma nella seconda metà dell’800”, Zakhor, VIII (2005), p. 43-75; R. Bonfil, “Il memoriale dell’Università israelitica di Roma sopra il soggiorno romano di Rabbi Israel Moshe Hazan”, in Annuario di studi ebraici, 10 (1980), p. 29-64. Inoltre alcuni interessanti lavori di analisi di particolari aspetti giuridici concernenti l’applicazione dell’Halakhà in Italia, sono stati pubblicati negli ultimi anni in lingua italiana nella rivista Segulat Israel.
[2] J. Katz, Tradition and crisis : Jewish society at the end of the Middle Ages, New York, 1961, p. 3 e ss.
[3] Sul fenomeno della ricezione culturale in maniera selettiva da parte degli ebrei, al fine di poter mantenere una propria identità distinta, e sugli sviluppi cronologici di questo fenomeno, vedi K. Stow, Theater of Acculturation.The Roman Ghetto in the 16th Century, Northampton, Mass., 2001; e la sua recensione: A. Y. Lattes, “K. Stow, Theater of Acculturation”, Zakhor, VIII (2005), p. 232-235
[4] Decisions doctrinales du Grand Sanhedrin, qui s’est tenu a Paris au mois d’Adar premier, l’an de la Creation 5567 (Fevrier 1807), Paris 1812, dove alle pagg. 68-72 riporta anche la lista dei membri dell’Assemblea di Parigi; sul Sinedrio più in generale vedi S. Schwarzfuchs, Napoleon, the Jews and the Sanhedrin, London 1979
[5] Su questi argomenti vedi più innanzi
[6] Vedi Josef (Giuseppe) Jarè, “Likkutim mi-kitwè harav Hananel Neppi [Spigolature dagli scritti del rabbino Hananel Neppi]”, in Zikkaron Le-Avraham Eliahu. Kvutzat maamarim be-hokhmat Israel, likhvod Avraham Eliahu Harkavi – Festschrift zu ehren des Dr. A. Harkavy, St. Peterburg 1908, p. 470; e cfr. anche quanto scrive alla voce “Hananel Neppi” il rabbino Mordechai Ghirondi nel suo Toledot Ghedolè Israel ve-gheonè Italia (Biografie dei grandi di Israele e dei saggi d’Italia), pubblicato assieme al lavoro di Neppi stesso Zekher Zaddikim Livrakhà, Trieste 1853, p. 115
[7] Vedi i manoscritti della Collezione Valmadonna Trust di Londra, già appartenuti alla biblioteca del Talmud Torà di Ferrara, n. 43-158-206-208-209, di cui se ne conserva copia in microfilm presso l’Istituto per i microfilm dei manoscritti ebraici della Jewish National and University Library di Gerusalemme, numerati come F-2433, F-2436
[8] La nota biografica si riferisce al rabbino Shabbetai Beer, ma non venne pubblicata nell’edizione curata dal Ghirondi. Questo brano tratto appunto dal manoscritto originale venne invece pubblicato da Jarè, rabbino di Ferrara all’inizio del Novecento, nel suo “Likkutim mi-kitwè harav Hananel Neppi”, op. cit., p. 482
[9] I volumi di responsa rituali vennero denominati Lewyat Hen, dove il termine “hen” non ha solo il significato di grazia ma è l’acrostico del nome dell’autore Hananel Neppi. Questi manoscritti sono sparsi per il mondo: un manoscritto autografo è conservato alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme (The Jewish National and University Library, B 492); un’altra raccolta di responsa si trova a Londra nella collezione cosiddetta “Valmadonna” (Valmadonna Trust 43); un altro ancora a New York, presso il Jewish Theological Seminary (Rab 1408)
[10] Il manoscritto originale è conservato al Jewish Theological Seminary di New York (ms. N. 3832, copia in microfilm conservata all’Istituto per i microfilm di Gerusalemme, n. F 29637).
[11] Nella Biblioteca Nazionale di Gerusalemme si conserva una copia di questo catalogo, ma senza frontespizio e mancante anche dell’ultima pagina; vedi Catalogue de la bibliothéque hébraique de Chananuel Neppo à Cento.
[12] Jarè, op. cit. p. 471. In realtà i manoscritti contenenti materiale di Halakhà sono almeno 11.
[13] Manoscritto della collezione Valmadonna di Londra, n 218 (copia in microfilm presso l’Istituto per i microfilm dei manoscritti ebraici di Gerusalemme, n. F 46711), al foglio 81 e seguenti
[14] Manoscritto Valmadonna, n. 217 (copia in microfilm a Gerusalemme, n. F 46713), pp. 20b-21a
[15] Manoscritto Valmadonna n. 218 (microfilm di Gerusalemme, n. F 46711), al primo foglio del volume. Il detto si riferisce naturalmente e quindi parafrasa quanto scritto nella Mishnà nel Trattato dei Padri, cap. 3, 21, trasformando la parola “kemah” (farina) in un acrostico che significa appunto “una voce che apporta innovazioni”.
[16] Manoscritto Valmadonna n. 218 (microfilm di Gerusalemme, n. F 46711), dal foglio 74a in poi.
[17] N. H. Wessely, Divrè shalom ve-emet [Discorsi di pace e di verità], prima lettera, Berlino 1782-1785, in particolare il capitolo 7, ma anche più in generale quelli precedenti cap. 5-6; vedi inoltre M. Benayahu, “Daat Hakhmè Italia ‘al ha-neghinà be-‘uggav ba-tefillà” (L’opinione dei rabbini italiani sul suono dell’organo durante la liturgia), Asufot, 1 (1987), p. 272
[18] Divrè Shalom ve-Emet, 3a lettera, p. 48a
[19] Vedi nell’edizione del Toledot Ghedolè Israel pubblicata a Trieste, p. 137 e 139. D’altronde la stima verso Sintzheim era generale, tanto che perfino il famoso rabbino di Bratislava Moshe Schreiber, meglio conosciuto come Chatam Sofer, rimase convinto che Sintzheim aveva fatto tutto il possibile per mantenere l’integrità dell’ebraismo; cfr. Schwarzfuchs, Napoleon, the Jews and the Sanhedrin, op. cit., p. 115-116
[20] ibidem
[21] La questione della rasatura fu uno dei dibattiti più famosi del periodo, e risaliva almeno alla fine del secolo precedente, a cui parteciparono illustri studiosi. Uno dei primi ad esprimere la sua opinione fu il rabbino di Modena Ishma`el ha-Cohen (Laudadio Sacerdoti) nella sua raccolta di responsa Zer`a Emet, prima parte, n. 74, ma oltre a lui anche Hayym Yosef David Azulay (il Hidà) fu consultato sulla questione. Vedi in generale: D. Malkiel, “Yetzirà we-sughyyà be-sifrut ha-Halakhà be-Italia ba-‘et ha-hadashà” (La produzione ed i caratteri della letteratura rabbinica in Italia nel periodo moderno), Peamim, 86-87 (2001), pp. 276-277, e la amplia bibliografia riportata lì nelle note; A. Guetta, “The Last debate on Kabbalah in Italian Judaism (I.S. Reggio, S.D. Luzzatto, E. Bonamozegh)”, in The Jews in Italy. Memory and Identity, edited by B.D. Cooperman and B. Garvin, Bethesda Md. 2000, p. 258
[22] Come si sa Reggio pubblicò un intero lavoro, in ebraico, su questo argomento Maamar ha-tiglahat (saggio sulla rasatura), Vienna 1835. Su Reggio vedi: Guetta, “The Last debate on Kabbalah in Italian Judaism (I.S. Reggio, S.D. Luzzatto, E. Bonamozegh)”, op. cit., p. 256-275; D. Malkiel, “New Light on the Career of Isaac Samuel Reggio”, in The Jews in Italy. Memory and Identity, edited by B.D. Cooperman and B. Garvin, Bethesda Md. 2000, p.276-303
[23] Lo scritto del Neppi venne pubblicato da Jarè, “Likkutim mi-kitwè harav Hananel Neppi”, cit. p. 471-476
[24] Anche questo documento di Sintzheim venne pubblicato da Jarè, ivi, p.471-472; vedi anche Malkiel, “Yetzirà we-sughyyà be-sifrut ha-Halakhà be-Italia ba-‘et ha-hadashà”, cit., p. 276-277.
[25] Vedi anche più oltre nel documento riportato da Jarè, dove il Neppi sostiene che non c’è obbligo di non radere la barba se non per le persone molto pie e per coloro che si occupano di Kabbalà, Jarè, ivi, p. 482, anche se chiaramente il tema della barba è diverso da quello della rasatura di Hol-hamoed; vedi a questo proposito: E. S. Horowitz, “The early eighteenth century confronts the beard : Kabbalah and Jewish self-fashioning”, Jewish History, 8 (1994), p. 95-115; E. S. Horowitz, “Visages du judaïsme : de la barbe en monde juif et de l’élaboration de ses significations”, Annales – Histoire, Sciences Sociales, 49 (1994) 1065-1090
[26] Nell’edizione stampata del Neppi-Ghirondi, Toledot Ghedolè Israel ve-gheonè Italia, cit., p. 277-279
[27] ibidem
[28] Questa risposta è riportata dal Benayahu, che non ne cita tuttavia la fonte manoscritta: vedi Benayahu, “Daat Hakhmè Italia ‘al ha-neghinà be-‘uggav ba-tefillà”, cit., fonte n. 6 a p. 307-310, e vedi anche l’analisi del Benayahu, ivi, p. 292-293; cfr. anche Malkiel, “Yetzirà we-sughyyà be-sifrut ha-Halakhà be-Italia ba-‘et ha-hadashà”, cit., p. 274
[29] Benayahu, ibidem
[30] Vedi S. Simonsohn, alla voce “Neppi”, in Encyclopaedia Judaica, 1971, vol XII, col. 963
[31] Jarè, “Likkutim mi-kitwè harav Hananel Neppi”, cit., p. 483. La discussione verteva sulla figura e gli scritti del rabbino Shabbetai Beer da Fossombrone, allievo del famoso kabbalista Rabbì Izhak Berekhià da Fano, che sembra fosse stato attaccato da un altro importante kabbalista il rabbino Benyamin haCohen Vitale da Reggio Emilia, a sua volta allievo prediletto di Rabbì Moshè Zacuto.
[32] Sulla diffusione dei digiuni di Shovavim a Ferrara ancora all’inizio del 90, vedi A. Ravenna, “Daniel Olmo e i digiuni dei Shovavim”, Annuario di studi ebraici, (1969-70,1971-72), p.21-31
[33] Vedi su questo argomento: Lattes, “Leadership ebraica in periodo di crisi: il Rabbinato in Italia fra il 700 e l’800 e la reazione dell’Halakhà dinanzi alla vita moderna”, op. cit.