Commento al libro di Andrea Yaakov Lattes
Donatella Calabi
1. Tra XVI e XVII secolo molte comunità ebraiche italiane si diedero strutture politico-amministrative e nuove forme di governo, con la promulgazione di veri e propri statuti e l’istituzione di organi di controllo e notai preposti alla verbalizzazione delle decisioni, che via via venivano prese dagli organismi direttivi, in appositi registri. Il documento qui analizzato (che già era stato proposto all’attenzione degli studiosi da Attilio Milano nel 1935) è una sorta di vera e propria ‘costituzione’ redatta nel 1524 dal banchiere Daniel Da Pisa e poi approvata dal papa Clemente VII con una bolla emessa nel dicembre dello stesso anno. Essa fissava in capitoli le regole del sistema politico-istituzionale della comunità ebraica di Roma, prima della costituzione del ghetto, regole peraltro rimaste in vigore per tre secoli, fino all’apertura dello stesso. Il registro proposto è conservato nell’archivio storico della stessa Comunità.
Nel libro che qui proponiamo alla lettura -Andrea Yaakov Lattes, Una società dentro le mura. La comunità ebraica di Roma nel Seicento (Gangemi, 2021)- sono raccolte tutte le decisioni prese tra il 1615 e il 1695 (data di morte del notaio, segretario e fattore allora incaricato, il rabbino Menaghen); la raccolta originale continua poi fino al 1718. Si tratta dunque di una parte del registro ufficiale, la quale costituisce una fonte straordinaria per la conoscenza della storia nel XVII secolo non solo in primis della minoranza giudaica, ma anche -come contesto- della città capitale dello Stato Pontificio. Andrea Yaakov Lattes ha insegnato a Tel Aviv e a Philadelphia; si è dedicato in modo sistematico allo studio della storia degli ebrei in Italia, con particolare attenzione e alla loro organizzazione istituzionale e al pensiero politico. Qui, egli analizza 89 fogli, recto e verso, dei quali 9 sono scritti in italiano, gli altri redatti in ebraico (sia pure con alcuni termini interposti in italiano). L’autore ci informa anche che il documento proposto è semplicemente l’esito necessario -una sorta di atto dovuto- del fatto che la norma che fissava l’obbligo di tenere un registro pubblico, nel quale riportare tutti gli atti e le decisioni prese, era esplicita nello statuto della Comunità.
Il corpus delle note a piè di pagina che accompagna il testo di Lattes è ricchissimo di riferimenti ad altro materiale documentario e alla bibliografia disponibile, tanto da proporsi quasi come una seconda narrazione parallela a quella oggetto specifico dello studio. Oltre all’indice dei nomi e dei luoghi, accompagnano il testo scritto un’ampia bibliografia, alcune illustrazioni (poche, purtroppo, e già molto conosciute, fatto peraltro comprensibile se si pensa che nel registro non compaiono riferimenti ai luoghi fisici), delle tabelle che riportano i nomi dei membri responsabili dei vari organi istituiti all’interno della Comunità, cioè della congrega nel 1615, dei fattori, dei tesorieri. Alcuni interessanti grafici sintetizzano rispettivamente la struttura istituzionale della Comunità, suddivisa in cariche esecutive, amministrative e di controllo; i gruppi sociali; la ripartizione della ricchezza; le diverse origini nazionali.
Quattro prefazioni delle voci più autorevoli della Comunità ebraica di Roma, rispettivamente il rabbino capo Riccardo Di Segni, la presidente Ruth Dureghello e il direttore del Dipartimento Beni e Attività Culturali Claudio Procaccia, accanto alla lettura del presidente della Associazione Italiana per lo studio del giudaismo Mauro Perani, si propongono di contestualizzare il saggio di Lattes.
Il libro è poi organizzato in cinque grossi capitoli che –come appare dai titoli degli stessi- organizzano la materia in modo distinto e molto chiaro.
2. Nel primo (Il registro), l’autore inizia con un esame filologico rigoroso del registro, della sua consistenza, della numerazione delle pagine, della lingua utilizzata; compie anche lo sforzo di collocarlo all’interno della produzione in Italia di testi comparabili. Sottolinea infatti come questo sia più tardo di alcuni registri in uso in altre comunità ebraiche della penisola, ma copra un arco cronologico assai più lungo; come esso sia l’unico di cui disponiamo per il centro Italia (anche se nella stessa Roma sono disponibili altri documenti relativi alla conduzione amministrativa della Comunità), come gli altri registri ufficiali disponibili si trovino tutti nel nord del paese. Va detto d’altra parte che testi che descrivano la vita quotidiana nel ghetto (per esempio in quello veneziano) sono abbastanza rari. Troviamo Quinot in lingua diversa dall’ebraico in occasione di festività particolari, o come lamentazioni per la morte di qualcuno. Come ha fatto notare Umberto Fortis (La vita quotidiana nel Ghetto, Storia e società nella rappresentazione letteraria, secoli XIII-XX, Salomone Belforte 2012), che di questo argomento si è molto occupato, sono composizioni letterarie che scelgono la lingua giudeo italiana come strumento di comunicazione nei confronti di un pubblico di ebrei che oramai sapeva solo leggere (ma non capire) i caratteri ebraici, o del mondo femminile (che spesso non era in grado di comprendere la lingua).
Qui, nel volume inteso a mettere in luce regole e contrasti presenti in una società costretta all’interno di un limite fisico, Andrea Lattes riassume in tre punti le ragioni principali per le quali ritiene importante il documento proposto:
a) esso riassume quali sono i problemi con i quali deve confrontarsi nel Seicento la Comunità ebraica di Roma;
b) trattandosi di un testo interno alla Comunità stessa, consente di ricostruire i comportamenti della élite ebraica dell’epoca (l’elezione di nuovi membri, le attività delle confraternite);
c) ricostruisce la vita pubblica degli ebrei, quali la stratificazione dei diversi gruppi sociali, le attività economiche e fiscali dell’istituzione (la riscossione delle tasse, i prestiti).
Non è proprio una trascrizione dell’intero registro, quella che ci viene proposta, ma una lettura commentata e annotata di molti paragrafi dello stesso, la quale costituisce uno dei primi documenti di questo tipo che possiamo leggere in italiano. Esso non riporta le discussioni preliminari, non il dibattito o la maturazione delle decisioni, soltanto le decisioni prese in merito alla vita pubblica, più che a quella privata delle famiglie, le loro usanze, la loro mentalità. In definitiva esso tratta di due argomenti principali: l’organizzazione istituzionale interna della Comunità e la sua economia.
3. Nel secondo capitolo del volume (La Comunità), vengono descritti i punti che erano stati redatti nel 1524 dal banchiere Daniel da Pisa, quelli che erano già stati studiati da Attilio Milano e poi pubblicati nella lingua originale dallo stesso Andrea Lattes nel 2012 (The Register of the Jewish Community of Rome 1615-1695, Yad Izhak Ben-Zvi and Hebrew University): come si è detto una ‘costituzione’ che fissava le regole del sistema politico istituzionale e il funzionamento dell’apparato amministrativo, rimasti la base della normativa e delle pratiche degli ebrei romani per oltre tre secoli. Questi si proponevano in modo esplicito di evitare conflitti e disordini e di perseguire una tranquillità del vivere civile: ognuno -vecchi e giovani, nobili e ignobili, saggi e ignoranti- doveva “saper stare al suo posto” diceva nel preambolo lo stesso Daniele da Pisa. Ciò significava dar voce e rappresentanza ai diversi strati sociali, alle diverse componenti etnico-nazionali, in sostanza perseguire un sistema complesso di equilibri fra gruppi distinti e gerarchicamente organizzati, in modo non poi tanto diverso da quello vigente nella società cristiana coeva, comunque del tutto simile a quello municipale romano. È ben noto che l’attività assistenziale (nei confronti dei poveri, dei bambini bisognosi, delle donzelle che non disponevano di una dote, dei pellegrini diretti in Terra di Israele, dei grandi cabalisti, dei carcerati) era da sempre, e anche altrove, uno dei compiti fondamentali dell’organizzazione comunitaria ebraica. Ma qui confraternite e sinagoghe godevano di una certa autonomia e di una amministrazione propria che richiedeva l’esercizio di un’opera di intermediazione fra la Comunità romana, le autorità ecclesiastiche, la Camera Capitolina e anche le altre comunità ebraiche all’interno e all’esterno dello Stato Pontificio.
Le condizioni igienico-sanitarie, i problemi posti dalla vicinanza tra insediamento e rive del Tevere e le frequenti esondazioni del fiume, accanto all’approvvigionamento idrico, alla manutenzione delle tubature, dei pozzi e delle due fontane impongono la nomina di un responsabile dei servizi pubblici (strade e punti di rifornimento dell’acqua da bere), deputato a garantirne il funzionamento per la popolazione ebraica, ma anche la copertura dei costi, sorvegliandone l’affitto, istallando un rubinetto per bambini nella scuola infantile, vendendo se necessario ai religiosi cristiani ciò di cui avevano bisogno. Come si è detto, anche in merito ai servizi, alcune clausole erano esplicitamente tese a evitare i conflitti, i litigi conseguenti al forte incremento demografico dopo l’espulsione da altri centri dello Stato Pontificio e al grande sovraffollamento esistente nelle singole abitazioni. Leggi suntuarie poi regolavano l’abbigliamento, i modi di comportarsi, i mezzi di trasporto autorizzati secondo quanto stabilito dalle successive condotte (gli accordi via via stipulati e rinnovati tra gli organismi ebraici e il papa). Era anche normata la manutenzione di una cella destinata ai prigionieri ebrei nel carcere pontificio, di competenza della Comunità e separata da quelle dei cristiani.
4. Nel terzo capitolo (La società), l’autore si sofferma sulla struttura sociale ebraica nel XVII secolo, da un lato organizzata per classi sociali e ceto con grande divario fra gli uni e gli altri (i banchieri, i ricchi, i “mediocri”, i poveri), dall’altro per gruppi etnico-nazionali. Le generali difficoltà economiche del periodo, la pressione fiscale pontificia contribuivano alla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e all’impoverimento di gran parte della popolazione, con effetti di scarsa mobilità sociale tra gli ebrei, come tra i cristiani. Ben noto è l’incremento demografico verificatosi fra il 1555 (data di istituzione del ghetto di Roma, dopo la bolla pontificia Cum nimis absurdum) e i decenni successivi, fino alla fine del secolo, in buona parte dovuto a varie ondate migratorie: dalle 1700 anime iniziali a 3.500 circa. Nel 1689 le dichiarazioni giurate rilasciate dagli abitanti del recinto a fini fiscali consentono di ipotizzare che la popolazione ebraica avesse raggiunto le 4.000 unità, distribuite in 800 famiglie. Tra queste, presumibilmente 600-650 dovevano considerarsi povere, in una fase nella quale l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità (pane, vino, carne) aveva acuito la generale scarsità di reddito della popolazione romana. La peste del 1656 non aveva certo facilitato la vita di questa parte della società. Per di più, nel 1682 l’abolizione -per volere del papa Innocenzo XI- dei banchi di prestito aveva diminuito in modo significativo le entrate della collettività ebraica, facendo sì che una percentuale molto alta dei residenti in ghetto dipendesse dalle istituzioni comunitarie, mentre la ricchezza era davvero concentrata nelle mani di una fetta assolutamente minoritaria. D’altra parte l’endogamia di classe fra i banchieri non poteva che confermare questa tendenza: ciò appare evidente a chi si sofferma sui nomi chiamati a coprire le cariche comunitarie; proprio come nella società cristiana, pochi possidenti, dotati dei mezzi di produzione, gestivano anche la distribuzione delle merci.
Nel corso del XVI secolo giunsero a Roma immigrati dalla Spagna e dal Portogallo, ma anche dalla Sicilia, dal Regno di Napoli, dal Nord-Africa, o invece d’Oltralpe, gruppi di persone contraddistinti da costumi, abitudini alimentari, lingue diverse che imposero anche qui (come già in misura assai significativa a Venezia, o a Livorno, ma anche altrove) l’istituzione di luoghi di culto separati (le sinagoghe siciliana, francese, catalana, aragonese e tedesca, in aggiunta alle vecchie scole di rito italiano). Ostilità, incomprensioni e conflitti tra ebrei romani e nuovi venuti erano tuttavia frequenti, anche se -probabilmente più che in altre regioni italiane– le diverse etnie finirono per mescolarsi nel giro di un paio di generazioni.
Le donne non avevano accesso alla vita politica e alle cariche di governo. Fra loro, però quelle benestanti -soprattutto se vedove- investivano denari e si occupavano di attività economiche; non diversamente dalle donne cristiane, tuttavia, la loro libertà di movimento era molto limitata.
Gli sforzi controriformistici della Chiesa per contrastare il lusso, lo sfarzo, l’esibizione dei propri averi trova un’eco precisa anche nelle norme comunitarie onde evitare forme di sperpero, l’umiliazione di persone meno abbienti e il rischio di attirare l’occhio (e l’ostilità) dei gentili. Nell’abbigliamento era vietato l’uso di alcuni tessuti, di colori troppo appariscenti, di gioielli vistosi, della parrucca per le signore. I rapporti tra chirurghi, speziali, barbieri e malati poveri erano normati anch’essi, in modo particolare negli anni delle epidemie di peste, quella del 1630 e quella del 1656. Furono istituiti servizi sanitari, controlli, forme di sorveglianza dell’approvvigionamento, multe e perfino un lazzaretto all’interno del recinto.
5. Nel quarto capitolo (Aspetti economici e finanziari) Lattes si concentra sulle difficoltà di far quadrare il bilancio di una Comunità sottoposta a fortissime pressioni fiscali da parte delle autorità ecclesiastiche. Le entrate provenivano da tasse dirette (sui patrimoni) e indirette (sui beni di consumo) imposte ai membri della stessa sulla base di una autodichiarazione giurata circa i propri beni e la conseguente delibera di una aliquota per ciascun capofamiglia. Questi introiti erano indispensabili per far fronte alle attività comunitarie (in particolare a quelle assistenziali) e per sostenere l’enorme carico fiscale richiesto dalla Chiesa. Le oscillazioni, gli incrementi puntuali (per esempio nel 1648 in seguito a un’inondazione del Tevere e poi nella seconda metà del secolo la stabilizzazione del numero di contribuenti) sono visibili nelle tabelle allegate alla trattazione dell’argomento. Un paragrafo a sé è dedicato allo Jus Chasakà, cioè alle tasse sulle abitazioni, meglio sull’affittabilità di immobili di proprietà di cristiani, singoli individui o monasteri. Case sfitte, morosità, annunci di immobili disabitati, spazi esterni ai confini del ghetto occupati da ebrei, noleggio dei posti letto ai soldati pontifici, prestiti concessi sono oggetto di contrattazione fra minoranza giudaica e maggioranza cristiana.
6. Il tema dell’ultimo capitolo è quello dei Rapporti tra Ebrei e Cristiani a Roma nel Seicento. Appare che, nonostante le regole rigide stabilite dallo Stato Pontificio nei riguardi della Comunità giudaica, sottoposta alla giurisdizione di un funzionario del Cardinal Vicario, essa godeva però di una parziale autonomia interna. La concessione dei prestiti, l’autorizzazione alla costruzione di un muro all’interno di una sinagoga, o a compiere lavori edilizi nell’area del ghetto, l’aggiornamento dei prezzi della carne, come sentenze, giudizi, sanzioni, ma più in generale la sorveglianza dell’ordine pubblico erano materie governate da questo vicegerente; il suo ufficio era una sorta di Corte d’Appello; accanto a questo la Sacra Rota era preposta alle cause civili e ai ricorsi; il Papa poi –come autorità suprema- agiva attraverso ordinanze che riguardavano la vita comunitaria.
Da sempre, tuttavia, come ovunque in Italia, i dirigenti della Comunità si sforzavano di evitare che i membri che ne facevano parte si rivolgessero ai tribunali dei ‘gentili’, cercando invece di risolvere ogni controversia all’interno della stessa Comunità, ed è per questo che la società ebraica si trovava di fatto -qui, come altrove- a essere governata da un doppio e sovrapposto sistema di poteri. Nel caso dello Stato Pontificio però, più che in altri antichi stati italiani, le regole e le imposizioni alla vita comunitaria esterne alla stessa sono particolarmente autoritarie: lo si vede con il blocco delle attività di tutte le istituzioni interne in concomitanza con l’elezione di un nuovo papa, con l’obbligo per gli ebrei di partecipare ad alcune cerimonie per le strade di Roma, con il controllo della riscossione delle tasse effettuato dalla Reverenda Camera Apostolica. Non solo al papa dovevano obbedire gli ebrei, ma anche a un certo numero di imposizioni da parte del Comune, quali la ‘riverenza’ dinanzi ai Conservatori in Campidoglio imposta ai Fattori e al Rabbino durante il carnevale. Particolarmente vessatorie erano le imposte da pagare al Tesoro Capitolino, ma ancor più pesante da un punto di vista simbolico era l’obbligo fatto ai rappresentanti della Comunità di precedere correndo la sfilata dei tre Conservatori a cavallo durante le processioni e i giochi pubblici organizzati per le feste, vestiti in maniera grottesca o mezzi nudi.
Le prediche coatte stabilite fin dal 1272 da Nicolo III, cioè l’obbligo di assistere di sabato al sermone di un sacerdote furono ripristinate nel 1577 da papa Gregorio XIII con l’imposizione fatta a tutti gli ebrei che avessero più di 12 anni e comunque a un numero minimo di persone; a queste fece seguito un certo numero di conversioni forzate. L’istituzione della Casa dei Catecumeni poi era conseguente a un tentativo evidente di convincere gli ebrei ad abbandonare la fede avita: quest’ultima –Domus Conversorum– era composta di due strutture distinte, una per gli uomini, l’altra per le donne ed era mantenuta anch’essa da una tassa annuale pagata dalla Comunità.
7. Il libro di Lattes ci presenta insomma una miniera di informazioni del tutto particolare: il pinqàs è sì un registro nel quale uno scriba ha annotato in forma molto sintetica le discussioni e tutte le decisioni prese dal consiglio della Comunità ebraica ma, offrendo notizie circostanziate, nuovi elementi di conoscenza specifica, apre anche a ulteriori approfondimenti sulla stratificazione sociale, sulla vita quotidiana e sulle pratiche religiose non solo degli ebrei, ma di fatto dell’intera società a Roma nel Seicento. Offre cioè un pezzo di storia ebraica, originariamente in ebraico ma qui leggibile anche da un pubblico che non conosce la lingua, nel quadro di un contesto e in una fase (il XVII secolo) che sta cambiando rapidamente dal punto di vista sociale, politico ed economico. Nel testo non appaiono espliciti riferimenti ai grandi rivolgimenti dell’epoca, cioè all’affermazione della borghesia in Europa (in particolare nei Paesi Bassi e in Inghilterra), all’emergere della monarchia assoluta in Francia, e nemmeno ai cospicui interventi urbanistici coevi in città, al clima restrittivo della controriforma, o alla nascita del sistema bancario del Pontefice, ma la crescita del prestito ebraico nei confronti dei singoli e dello Stato e poi la situazione critica della finanza comunitaria ne sono il risvolto ‘interno’ e un sintomo delle relazioni con l’esterno.
Ciò che appare assolutamente evidente e, in questo caso documentato in modo preciso, è quanto si è verificato anche in altri centri italiani: l’impossibilità di ottenere un isolamento completo degli ebrei reclusi dal resto della società che li ospita.
Che siano stati studiati dallo stesso Lattes sulla base della medesima fonte, come nel caso di Lugo, o altrove da parte di ricercatori che hanno esplorato materiali d’archivio differenti (nella maggior parte dei casi prodotti dal governo cristiano delle città), documenti redatti con finalità differenti dimostrano che la ‘separazione’ perseguita con l’istituzione del ghetto non era raggiungibile del tutto, né lo è stata di fatto. Sono oramai numerose le comunità ebraiche la cui vita quotidiana è stata studiata in tempi più o meno recenti: che si trovassero all’interno di piccoli centri, o di città grandi e abitate da un numero considerevole di stranieri organizzati in comunità nazionali (come Roma e Venezia), ovunque emerge una serie inevitabile di interrelazioni tra maggioranza e gruppi minoritari, spesso conflittuali, talvolta competitive, talaltra anche di adozione di modelli e di imitazione reciproca.
Anche quando confrontata con quanto descritto per altri casi italiani, la Comunità ebraica romana ci appare come particolarmente attenta a conservare una ‘memoria’ delle proprie scelte, tesa soprattutto a difendere le proprie posizioni e a contrattare sistematicamente con il resto della società cittadina le condizioni del proprio ruolo.
Donatella Calabi
N.d.C. – Già professore ordinario di Storia della città presso il Dipartimento di Storia dell’architettura dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, Donatella Calabi è stata Prorettore vicario presso lo stesso ateneo, directeur d’études invitée all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, honorary fellow dell’University of Leicester e visiting professor della British Academy di Londra. Ha insegnato, come visiting professor, all’Université de Paris VIII, all’Ecole de Architecture de Paris-la Villette, alla Universidad de Sao Paulo, alla Universidad de San Carlos do Brasil, all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Culturelles di Tokyo e alla Escuela Tecnica Superior de Arquitectura di Madrid. Ha inoltre fatto parte dell’editorial board delle riviste inglesi “Planning Perspectives” e “Construction History” e del Consiglio di amministrazione della Fondazione Scuola San Giorgio presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia.
Tra i suoi libri: Con Marino Folin, a cura di, Eugène Hénard, Alle origini dell’urbanistica. La costruzione della metropoli (Marsilio, 1972; 1976, 1982); Note per una ridefinizione della ‘questione’ delle abitazioni (Marsilio, 1972); Con Marco Ponti, a cura di, I trasporti. Raccolta di documenti politici (Iuav, 1972); A cura di, Venezia. Prospettive di sviluppo e politiche di governo (Marsilio, 1976); A cura di, Problemi di politica culturale (Marsilio, 1978); Il male città: diagnosi e terapia. Didattica e istituzioni nell’urbanistica inglese del primo ‘900 (Officina, 1979); The genesis and special characteristics of town-planning instruments in Italy, 1880-1914 (Mansell, 1980); A cura di, Architettura domestica in Gran Bretagna, 1890-1939 (Electa, 1982); Oltre lo sguardo (Electa, 1984); Con Paolo Morachiello, Rialto. Le fabbriche e il ponte, 1514-1591 (Einaudi, 1987; ed. fr Librairie Armand Colin, 1988); A cura di, Le città venete di terraferma nelle vedute del Settecento (Il Polifilo, 1990); con Ennio Concina e Ugo Camerino, La città degli ebrei: il ghetto di Venezia. Architettura e urbanistica (Albrizzi, 1991; 1996); Il mercato e la città. Piazze, strade, architetture d’Europa in età moderna (Marsilio, 1993); Gli ebrei e la città (Istituto della Enciclopedia Italiana, 1997); A cura di, Fabbriche, piazze, mercati. La città italiana nel Rinascimento (Officina, 1997); Parigi anni venti. Marcel Poëte e le origini della storia urbana (Marsilio, 1997); con Paola Lanaro, La città italiana e i luoghi degli stranieri. XIV-XVIII secolo (Laterza, 1998); Con Jacques Bottin, Les etrangers dans la ville. Minorites et espace urbain du bas Moyen Age a l’epoque moderne (Editions de la maison des sciences de l’homme, 1999); Storia dell’urbanistica europea (Paravia scriptorium, 2000); La città del primo Rinascimento (Laterza, 2001; 2005; 2006; 2008; 2011); A cura di, Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell’Ottocento veneto (Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 2001); Storia della città. L’età moderna (Marsilio, 2001; 2009); Con Claudia Conforti, a cura di, I ponti delle capitali d’Europa. Dal Corno d’Oro alla Senna (Electa, 2002); The market and the city. Square, street and architecture in early modern Europe (Ashgate, 2004); Storia dell’urbanistica europea. Questioni, strumenti, casi esemplari (B. Mondadori, 2004; 2008); Storia della città. L’età contemporanea (Marsilio, 2005); A cura di, Venezia in fumo. I grandi incendi della città-fenice (Leading, 2006); Con Stephen Turk Christensen, a cura di, Cities and cultural exchanges (Cambridge University Press 2007); A cura di, Il mercante patrizio. Palazzi e botteghe nell’Europa del Rinascimento (B. Mondadori, 2008); Con Elena Svalduz, Il borgo delle Muneghe a Mestre. Storia di un sito per la città (Marsilio, 2010); con Paolo Morachiello, La piazza di Rialto. Di tutto il mondo la più ricchissima parte (Corte del Fontego, 2011); Con Paolo Morachiello, Il fontego dei Tedeschi. Una piccola città in mezzo alla nostra (Corte del Fontego, 2012); con Paolo Morachiello, Rialto, il ponte delle dispute (Corte del Fontego, 2012); a cura di, Built city, designed city virtual city. The museum of the city (Croma-Università degli studi Roma Tre, 2013); Con Ludovica Galeazzo, a cura di, Acqua e cibo a Venezia. Storie della laguna e della città (Marsilio, 2015); Venezia e il ghetto. Cinquecento anni del recinto degli Ebrei (Bollati Boringhieri, 2016); Con Martina Massaro, a cura di, Gli ebrei, Venezia e l’Europa tra Otto e Novecento (Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 2018); Rialto, l’isola del mercato a Venezia. Una passeggiata tra arte e storia (Cierre edizioni, 2020); con Martina Massaro, a cura di, Marghera. Città giardino (Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 2021; ed. ing. 2022).
Suoi scrivi sono pubblicati e tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, greco, olandese, ebraico e giapponese.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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05 APRILE 2022