Clara Sereni
C’è una gran voglia di semplificare, nel mondo. Anche nel nostro mondo, il mondo della sinistra che in altri tempi aveva assunto il paradigma della complessità come strategia per interpretare la realtà e modificarla. La caduta delle ideologie ci ha privato delle griglie di lettura che (nel bene e nel male) a lungo ci hanno indicato la via. Per prendere posizione nei confronti di avvenimenti via via più articolati e ricchi di addentellati abbiamo ogni volta poco tempo: poco tempo per pensare, per riflettere, per collegare gli eventi, per ripensare la storia.
Poco tempo per discernere, nella marea di informazioni da cui siamo
sommersi, quelle attendibili, importanti, utili. Gli avversari ci incalzano,
spesso con brutalità, e allora scattano l’arroccamento, l’autodifesa
istintiva e cieca, la scelta della prima soluzione disponibile.
Ho in mente tanti degli eventi di questi giorni, evidentemente, e l’amarezza
preoccupata riguarda più aspetti della scena politica. Se ho deciso di
intervenire, però, è perché con questi aspetti di semplificazione mi sono
scontrata due volte, nell’arco di pochi giorni, rimanendone ferita,
umiliata, e soprattutto preoccupata: e se ne parlo non è perché voglio
riscattarmi da «un’offesa», non è per ragioni personali, ma proprio perché
penso si tratti di qualcosa che va oltre, e che per questo deve preoccupare
non solo me.
Due situazioni diverse, una privata e una pubblica. Nella prima un pranzo
di compleanno, tutta gente di sinistra e per bene, su questo non ho il
minimo dubbio mi sono trovata di fronte a tutti i più banali pregiudizi
nei confronti degli ebrei: la lobby ebraica che governa le banche mondiali,
gli ebrei che sono più intelligenti delle altre «razze», la chiusura a chi
non nasce ebreo perché non ci si può convertire, la nascita dello Stato
d’Israele per volontà imperialistica esclusiva degli Stati Uniti, e
quant’altro. Tutte quelle cose che spererei chi mi legge conoscesse bene, ma
se le scrivo è perché non è che poi ne sia tanto sicura. Come corollario, la
dichiarazione del mio interlocutore che, come ogni uomo di sinistra che si
rispetti, di fronte alla contrapposizione fra oppressi e oppressori, cioè
fra palestinesi e israeliani, la scelta non poteva essere che a favore degli
oppressi. Contro gli oppressori.
Come tante altre volte, ho dovuto, da ebrea, fare il mio «Radames
discolpati». Ho dovuto precisare che sono in disaccordo con la quasi
totalità della politica del governo di Israele, anche rispetto alle modalità
del ritiro da Gaza. Ho dovuto ricordare che sono comunista malgrado
l’ammainabandiera sul Cremlino, nel senso che il mio bisogno di giustizia
sociale e di riscatto degli umili e degli oppressi non si è esaurito nel
1989. Ho ribattuto, ho fornito informazioni e precisazioni. Ho spiegato e
rispiegato che non si aiuta il popolo palestinese, e la costituzione di un
suo Stato degno di questo nome, facendo pendere dalla sua parte la bilancia
della sofferenza: se facciamo i conti di chi soffre di più, di chi patisce
maggiormente per i propri sradicamenti, la gara è a perdere. Gli ebrei sono
stati sradicati dall’Europa, i palestinesi dalla Palestina, ma anche i
coloni che oggi lasciano (per ottime ragioni!) gli insediamenti, sono a loro
volta degli sradicati. Le ragioni degli uni non sono necessariamente o del
tutto i torti degli altri: in quanto esseri umani, singoli, persone. Persone
che hanno sofferto e continuano a soffrire. Ho detto che le emozioni non
aiutano nessuno a sciogliere nodi che sono complessi: ci vuole la politica,
cioè una razionalità accorta, attenta, in grado di soccorrere gli uni e gli
altri in un cammino per tutti difficile. Questo è il compito che l’Italia,
l’Europa, il centrosinistra potrebbero proficuamente svolgere: portare la
ragione là dove i sentimenti rischiano di travolgere ogni possibilità di
soluzione.
In tutte queste argomentazioni, gli altri commensali mi hanno sostenuto,
hanno integrato le informazioni che fornivo, insomma li ho sentiti accanto a
me in quel tenere insieme la complessità che costa tanta fatica.
È stata una lunga discussione, a conclusione della quale il mio
interlocutore era attraversato da qualche dubbio, da qualche resipiscenza. E
questo mi aveva un po’ consolato della durezza dello scontro, dell’ignoranza
sostanzialmente razzista con cui avevo avuto a che fare. Del resto, non sono
di quelli che vedono in ogni critica allo Stato di Israele un atto di
antisemitismo, visto anche che io per prima lo critico, e mi ero messa in
qualche modo tranquilla: benché le critiche delle lettere all’Unità
all’articolo «informativo» di Furio Colombo sul boicottaggio ad Israele, in
misura eccessiva astiose veementi e chiuse in trincea, mi avessero lasciato
un amaro in bocca non del tutto smaltito.
Poi mi hanno chiamata a partecipare ad una tavola rotonda sulla guerra e la
pace nell’era della globalizzazione, in uno dei tanti congressi sindacali
nei quali si celebra in questi giorni il centenario della Cgil. Sapevo che
il tema Israele-Palestina sarebbe stato affrontato, mi interessava in realtà
parlare anche di molte altre cose.
Inutile dire quanto valore io attribuisca alla Cgil, che considero fra
l’altro una delle ultime scuole-quadri rimasta alla sinistra: un luogo di
pensiero, oltreché di azione. Inutile dire, anche, che il fatto di essere
invitata in quell’occasione mi aveva lusingato non poco.
Solo che poi, al momento di essere chiamata sul palco, di me hanno detto:
«Clara Sereni, ebrea e scrittrice». Non mi era mai capitato, di essere
presentata così: il turbamento è stato forte. Quando è stato il mio turno,
ho parlato del disagio che provavo, ricollegandolo anche ad un antico e
spiacevole episodio capitatomi anche quella volta in ambito Cgil, in
quel caso nazionale. Sulla questione Israele-Palestina ho insistito, ancora
una volta, sulla necessità di non pesare le sofferenze, di non schierarsi,
ma invece di affiancare i due popoli nel cammino difficilissimo per avere
ciascuno un proprio Stato con pari dignità.
Ho avuto un applauso di sostegno dalla platea, che certamente mi ha
rinfrancato. La tavola rotonda è proseguita, fra l’altro con l’intervento
del rappresentante dell’Autorità Nazionale Palestinese, che ha detto alcune
palesi inesattezze (non dico bugie, ma ci eravamo molto vicini) sulla
questione. E poi si è parlato di molte altre cose.
Tranne il dirigente confederale, che ha liquidato la faccenda dicendo che i
cretini ci sono anche dentro la Cgil, nessuno fra coloro che sedeva alla
tavola rotonda (tutti di sinistra e perbene, senza il minimo dubbio) ha
sentito il bisogno di far rimarcare quanto razzismo profondo ci fosse in
quella definizione che di me era stata data. Nessuno ha messo un qualche
puntino sulle «i» della Storia, presentata in modo così palesemente e
capziosamente impreciso. Nessuno mi ha sostenuto nella richiesta di più
politica, e meno «tifo», rispetto alla questione due popoli/due Stati. Così,
alla fine, il suggerimento forte uscito dall’incontro è stato: schieratevi,
prendete partito, non state tanto lì a sottilizzare. Gli ebrei sono
colpevoli, il popolo palestinese vincerà.
Alla fine, in privato, il segretario provinciale della CGIL mi ha chiesto
scusa, e di questo gli sono grata: ma nessuna voce si è levata pubblicamente
anche soltanto a commentare l’errore, e questo è il punto che considero
grave di tutta la vicenda.
Ne traggo alcune considerazioni, che vi propongo:
1) l’ignoranza regna sovrana, nel senso che sono proprio troppi coloro che
ignorano, non sanno, vanno avanti a orecchio. Qualcosa andrebbe fatto, forse
anche da questo giornale, per mettere organicamente in fila una serie di
informazioni, per imporre la complessità contro le semplificazioni,
inevitabilmente perverse quando toccano temi fortemente sensibili.
2) Il rifiuto della complessità, e il conseguente arroccamento in posizioni
preconcette, non è problema che riguardi soltanto la vicenda
israelo-palestinese: anzi questa è per certi aspetti più circoscrivibile.
Affrontarla potrebbe costituire anche un esempio di scuola per cominciare a
guardare dentro altre questioni, con un’apertura, una disponibilità, una
intelligenza diverse.
3) Apertura, disponibilità, intelligenza sono le precondizioni per
cominciare a costruire i punti di vista nuovi di cui la sinistra e l’intero
Paese hanno drammaticamente bisogno: Marx, a mio avviso, non va
assolutamente messo in soffitta, ma è indubbio che urgono strumenti teorici
nuovi, in grado di interpretare un mondo per il quale le antiche categorie
possono fornire risposte soltanto parziali.
4) La politica del governo Berlusconi, e in particolare quella del ministro
degli esteri Gianfranco Fini, in un sol colpo (scorrettissimo quanto
efficace) ha cancellato le ferite inferte dal fascismo, ha fatto sentire
agli ebrei che il governo era «dalla loro parte», ha spiaccicato ebrei ed
Italia sulla politica di Sharon, confermando il pregiudizio «di sinistra»
secondo il quale, fra palestinesi ed ebrei, la scelta non può essere che a
favore degli uni e contro gli altri. La destra ha scelto Israele e «di
conseguenza» gli ebrei. Gli ebrei italiani sono circa 30.000: pochi,
pochissimi, e anche questa è una nozione che non molti hanno chiara in
mente. Le prossime elezioni si giocheranno probabilmente sui piccoli numeri.
Vogliamo consegnare 30.000 voti alla destra?
5) Personalmente, alla destra non mi consegno di sicuro. Ma vorrei non
dovermi più giustificare di essere ebrea.
Vorrei non dovermi discolpare delle mie opinioni. Vorrei che la mia
specificità di ebrea, insieme alle altre (donna, comunista, madre
handicappata, intellettuale), trovasse un’accoglienza più competente nella
casa comune della sinistra, e non sentirmi mai più ospite, certe volte
gradita e certe volte no.
l’Unità del 16 gennaio 2006