Antisemitismo, odio antico. Non soltanto nazista
Giorgio Israel
Il dialogo ebraico-cristiano richiede pazienza. Non è pensabile che secoli di «disprezzo, di ostilità e di persecuzione contro gli ebrei in quanto ebrei» — per dirla con le parole del pregevole documento della Pontificia Commissione Biblica su Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture (2001) — non lascino traccia e che i passi necessari a dissiparne le conseguenze possano essere compiuti in poco tempo. Richiede soprattutto due requisiti: che l’ombra del passato non gravi come un pregiudizio sul presente; e che le azioni presenti indichino in modo inequivocabile la volontà di superare definitivamente gli errori del passato senza disconoscerli. È legittimo chiedere a chi ha subito un torto di non farsi condizionare per sempre dal passato, purché non si avanzi l’inaccettabile pretesa che il torto non sia avvenuto. Qui equilibrio e saggezza sono doti necessarie. Nel dibattito suscitato dalla pubblicazione sul Corriere della Sera del documento sui bambini «giudei», più d’uno si è mosso con l’incedere di un elefante in una cristalleria, provocando sconquassi che si spera non abbiano conseguenze devastanti.
È sconcertante che il documento sia stato accolto con un fuoco di fila di clamori, come di fronte ad una rivelazione capace di ribaltare la visione storica degli eventi e dei personaggi in gioco. In realtà, esso conferma quel che si sapeva da un pezzo. Occorre forse ricordare che, per secoli, la massima aspirazione della Chiesa cattolica è stata di estinguere la presenza ebraica, sanzionando così che il Messia era giunto, visto che il popolo «eletto» si era tutto riconosciuto in lui? Tale finalità è stata perseguita nei secoli con mezzi più o meno brutali, e quelli descritti nel documento appartengono ai secondi. Del resto, la sostanziale adesione della Santa Sede alle leggi razziali fasciste si spiega soltanto entro questa visione. Altrimenti, che senso avrebbe avuto la sua richiesta, dopo la caduta del fascismo, di mantenere parte della legislazione razziale, segnatamente quella concernente i matrimoni misti? Aveva senso, perché si sperava di dissolvere a poco a poco la presenza ebraica, imponendo a coloro che contraevano un matrimonio misto di educare i figli cristianamente.
Queste sono le colpe di Pio XII, note, documentate e confermate dalla recente «scoperta». Queste e non altre. Parlare di Shoah a proposito di Pio XII significa sostituire a colpe accertate, una colpa di omissione e silenzio indiscutibile, ma temperata da ciò che indubbiamente egli e la Chiesa fecero per salvare molti ebrei. Chi scrive è qui perché suo padre fu nascosto a San Giovanni in Laterano, e non è il solo. Un conto è accusare Pio XII di aver proseguito nella sciagurata prassi di accaparrarsi in ogni modo le anime ebraiche, altro conto è equiparare Pio XII a Eichmann. L’insistenza nel riferire il comportamento della Santa Sede e del Papa alla questione della Shoah è fuorviante. Essa conduce alla tesi secondo cui le direttive contenute nel documento furono impartite perché la Santa Sede e il mondo cattolico non avevano percezione della specificità della Shoah: una tesi assurda sia sotto il profilo storico che logico.
La Santa Sede aveva perfetta coscienza della diversità fra il razzismo hitleriano e quello fascista: non a caso si oppose al primo (biologistico) e accettò il secondo (spiritualistico). Perciò, anche se non avesse conosciuto la portata della Shoah, sapeva che una tragedia stava colpendo gli ebrei: altrimenti perché, da cosa e da chi avrebbe «salvato» ebrei? Ma qui pare che ci si dica che, se la Santa Sede avesse saputo che gli ebrei venivano massacrati, si sarebbe vergognata di infliggere loro ulteriori dispiaceri; mentre, poiché credeva che fossero soltanto «moderatamente» perseguitati, riteneva lecito tenersi i loro bimbi. Poiché si parla tanto del valore sacramentale del battesimo, viene da chiedersi quale sarebbe il fondamento teologico di una simile visione etica. Ecco allora che il tentativo di spiegare o giustificare il comportamento della Santa Sede nei confronti dei bambini «giudei» parlando di inconsapevolezza della Shoah finisce con l’offrire un’immagine del suo comportamento grottesca più ancora che efferata.
Ma perché tanta insistenza a parlare soltanto di Shoah? Perché ormai la Shoah, vista come un evento unico e senza confronti, viene identificata con l’antisemitismo stesso. Tutte le altre forme di ostilità antiebraica sono dimenticate o derubricate a eventi minori, magari riservando loro termini diversi, come «antigiudaismo» per l’antisemitismo cristiano. Sono trucchi verbali mediocri, cui conviene opporre soltanto l’ammonimento di Marc Bloch secondo cui «se le scienze dovessero, per ciascuna delle loro conquiste, cercarsi nuovi appellativi, quanti battesimi e perdite di tempo nel regno delle accademie!». La conseguenza è che la storia del «disprezzo, dell’ostilità e della persecuzione contro gli ebrei in quanto ebrei» — l’«antisemitismo», ma se il termine non piace si faccia uso del simbolo «x» — anziché essere considerata come un fenomeno storico unitario, articolato in dinamiche e manifestazioni anche molto differenti e di varia gravità, viene scomposta in pezzi disgiunti, anzi in due pezzi: l’antisemitismo «vero», quello dei nazisti, e il resto, di importanza marginale.
Questa distinzione ha ispirato gli interventi di Lucetta Scaraffia ed Ernesto Galli della Loggia. Secondo quest’ultimo, l’«Olocausto» «e la sua successiva concettualizzazione hanno posto l’antisemitismo su basi completamente nuove. Ne hanno fatto cioè un dato storico completamente diverso che in passato, rendendolo, anzitutto sul piano emotivo, qualcosa di ripugnante e impraticabile in ogni sua pur minima, e anche remota e solo supposta, premessa» (magari così fosse!). E prima? «Atteggiamenti di indifferenza, antipatia, repulsa storico-religiosa, diffidenza sociale», cose «riprovevoli» ma «storicamente distinte» perché appartenenti a un ordine che nulla ha a che fare con le camere a gas. Tralasciamo di parlare degli esempi cui Galli della Loggia ricorre per «dimostrare» come si rischi di considerare fatti di antisemitismo cose banalmente riprovevoli: dal rifiuto di Natalia Ginzburg di pubblicare Primo Levi — ma a chi diamine può venire in mente di considerare antisemitismo una probabile rivalità letteraria? — all’invito di Croce agli ebrei ad assimilarsi — che invece non era innocente. Gli chiederemo piuttosto cosa si debba pensare di chi scriveva: «Se insieme con il positivismo, il libero pensiero e il Momigliano [che si era suicidato] morissero tutti i Giudei che continuano l’opera dei Giudei che hanno crocefisso Nostro Signore, non è vero che tutto il mondo starebbe meglio? Sarebbe una liberazione». Si penserà che era un indifferente? Un antipatizzante? Uno che provava repulsa storico-religiosa? (Per inciso, era Agostino Gemelli). E che dire delle prediche radiofoniche postbelliche — quando della Shoah si sapeva tutto — di padre Lombardi, «microfono di Dio», che citava l’«Olocausto» come prova del «terribile destino» di quel «popolo eletto diventato reietto»; e aggiungeva — guarda caso! — «salva sempre la libertà dei singoli di convertirsi a Gesù e uscire da quel corpo condannato»? Un altro maleducato?
Il punto è che queste nefandezze erano l’ultima manifestazione di una storia secolare di antisemitismo, che ha sedimentato un armamentario di odio poi utilizzato metodicamente anche nel contesto dell’antisemitismo razziale e oggi nell’antisemitismo islamico e nell’antisionismo di certi ambienti postcomunisti: si pensi ai temi ricorrenti degli ebrei assetati di potere e di denaro, o che impastano le azzime con sangue di bambini cristiani sgozzati.
Invece di emettere superficiali sentenze storiografiche, sarebbe istruttivo studiare la storia della persecuzione e dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna medioevale, e la conseguente distruzione di una straordinaria esperienza storica; leggere i testi classici, da Amador de los Ríos a Baer, per misurare la metodicità con cui la Santa Inquisizione perseguì la distruzione dell’ebraismo di Spagna; compulsare i terribili elenchi di migliaia di bruciati sul rogo, che potrebbero servire a creare uno Yad Vashem spagnolo, e che si estendono su un arco temporale lungo soltanto per l’assenza degli strumenti teorico-pratici adatti alla pianificazione scientifica e industriale dello sterminio, che è poi l’unica vera specificità della Shoah. Come ha scritto lo storico Luis Suárez, «non vi furono gli orrori delle camere a gas, che sembrano essere i soli capaci di sconvolgerci oggi», ma vi fu «qualcosa di più terribile», cioè la sordità morale dei cristiani che, vedendo gli ebrei per le strade, nudi, scalzi e coperti di pidocchi, dicevano: «Ecco la disgrazia in cui cadono coloro che peccano d’incredulità».
Ma — si dirà — Pio XII non era Torquemada. Neppure Eichmann, l’abbiamo detto. La storia va visitata con equilibrio. Non è affatto secondario il modo in cui viene imposta la conversione: come alternativa alla morte, o con mezzi più civili. Ma il contesto progettuale è il medesimo: quello dell’estinzione dell’identità ebraica. Oggi, che questa tragica storia sembra essere dietro di noi — per gli sforzi generosi di coloro che da qualche decennio lavorano per cancellare i veleni del passato —, non dovrebbe essere più facile ammetterlo? A che giova negare e minimizzare, ridurre la storia dell’antisemitismo a una vicenda germanica, se non a gettare un macigno sulla via della comprensione reciproca? Se vogliamo far avanzare la comprensione reciproca e rivalutare le famose radici «giudaico-cristiane», non bisogna lanciare fra le ruote il bastone di una visione storica unilaterale e assolutoria; accusando altri di usare la storia per far polemiche correnti e poi consentendosi la stessa libertà con intenti opposti.
È sorprendente che Galli della Loggia usi l’argomento che non bisogna «giudicare il passato con il metro del presente», asserendo che il famoso documento appare «orribile» alla «sensibilità odierna», «di fronte al nostro sentimento morale odierno (insisto: odierno)». Meglio sarebbe stato non insistere. Difatti, mentre egli sacrosantamente (insisto: sacrosantamente) ogni giorno se la prende col relativismo etico, ora dice che il giudizio morale dipende dai tempi e dalle circostanze. Proprio qui era il caso di riporre nel cassetto i valori ed esprimersi come un relativista postmoderno? Difatti, egli non si limita a constatare una diversa sensibilità ma asserisce che non ci si deve rifiutare di dare un giudizio, bensì darlo a ragion veduta «tenuto conto delle circostanze e dei tempi». Relativismo etico, per l’appunto.
Per concludere. Questo dibattito è apparso più che altro come uno scontro all’interno del mondo cattolico. Nulla da obbiettare, se non fosse che il tema degli ebrei e dell’antisemitismo è stato usato come una clava. Ci si permetta di ricordare: gli ebrei hanno già dato. Ci si scontri a volontà, ma, per una volta, non sulla pelle degli ebrei. Anche questo sarebbe un contributo alla valorizzazione delle radici «giudaico-cristiane» dell’Europa.