Umberto Piperno – Rabbino capo di Trieste
Nella tradizione ebraica i dolori individuali e collettivi vengono incanalati in “schemi della memoria” che ripropongono, senza alcuna coscienza storica, il collegamento tra fatti apparentemente estranei tra loro: questo percorso vuole proporci una chiave di lettura che imponga al singolo, come ad una comunità, la ricerca di nuove soluzioni per ritrovare l’armonia o almeno l’equilibrio.
Ci apprestiamo, come ogni anno a “celebrare” Tu biShvat e la giornata della Memoria con uno spirito diverso da quello degli anni passati; (innanzitutto non ci piace il verbo “celebrare”). Non è ebraico, piuttosto ricordiamo, agiamo, compiamo le mizvoth. A Tu biShvat, la festa rabbinica più sionista del calendario, mangiamo frutta e la benediciamo con grande attenzione. Celebriamo un “Seder” istituito nel XV secolo per ricordare che l’uomo non è il padrone della terra, ne può al massimo essere il custode.
Ogni anno con la scuola usciamo in cortile e piantiamo un albero. Quell’albero rappresenta la continuità. L’albero della vita in mezzo al giardino venne dato all’umanità intera per crescere, fruttificare. Questo albero è l’albero della Torà; ogni bastone è un ez ha chaiim, il legno che sostiene il Sefer Tora’. Ogni albero della nostra comunità è una speranza, così come si digiuna in caso di perdita. Non possiamo confondere il 27 gennaio, nato per disposizione del Parlamento per ricordare lo sterminio del popolo ebraico, con il 10 di Tevet, giorno dell’Assedio alle mura di Gerusalemme in cui recitiamo il Qaddish in memoria dei nostri cari periti nella Shoà di cui non sappiamo la data di morte . Per questo stesso motivo non digiuniamo a Jom ha Shoà ve ha Ghevurà, perché insieme al dolore della Shoà esaltiamo la rinascita, la rivolta del ghetto di Varsavia.
Non possiamo digiunare nel mese di Nissan, il mese della libertà, seppure non conquistata, ma percepita come tale quando si ha coscienza della tragedia; così la vera festa della primavera nella Torà è Pesach; malgrado ciò siamo ottimisti e festeggiamo l’inizio del germoglio, la potenza più che l’atto, il germoglio e non il raccolto. Tutto ciò si può applicare alla vita travagliata dell’ebreo in diaspora e perfino a quella della nostra comunità. Gli alberi sono le persone, i nostri bambini che dovrebbero crescere diritti e pieni di virtù. Parallelamente nei giorni di memoria e del dolore piangiamo gli alberi abbattuti, distrutti, portati via, senza più ritorno. Per questi piangiamo, digiuniamo ricercando il motivo nel nostro comportamento, nelle nostre omissioni, come diciamo nella tefillà: “Per le nostre numerose colpe è stato distrutto il Santuario e per i nostri errori è stato bruciato l’Hekhal”. Tutti siamo corresponsabili dell’incendio, tutti siamo chiamati a spegnere. Quando cade has veshalom invece un sefer torà, non digiuna tutta la comunità ma solo i presenti in quel tempio. “E’ caduta la corona del nostro capo”, ci sono situazioni in cui chi assiste è responsabile come chi ha provocato la caduta.
Ogni persona è un sefer torà, ogni bambino un albero da curare, far crescere, nella speranza che arrivi il momento di gustarne i frutti. Quest’anno una bambina non farà non noi il seder di tu bishvat, né pianterà il suo bulbo. Questa pausa di riflessione comune ed individuale avrà molti pregi, tra cui quello di consentire la teshuvà di chi ha commesso un errore. Tutti i genitori debbono esercitare pressioni per far tornare questa bambina, sperando che ciò invogli altri due genitori che non hanno scelto la scuola ebraica per la loro figlia a scegliere la strada ebraica invece di facili giustificazioni. Ricordiamo quindi il Sefer Torà per rialzarlo da terra, per ornarci della sua corona sulle nostre teste con una gioia eterna.