Elèna Mortara Di Veroli, “La biblioteca di Babele. Premesse metodologiche ad una bibliografia di lingua e letteratura ebraica”, in Quaderni di Libri e Riviste d’Italia. La cultura ebraica nell’editoria italiana (1955-1990), n. 27, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali – Divisione Editoria, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1992, pp. 89-103.
Elèna Mortara Di Veroli
“Noi ebrei” – ha scritto Martin Buber nel l938 – “siamo una comunità basata sulla memoria. È stata la memoria comune a tenerci uniti e a farci sopravvivere”. Ma in uno studio abbastanza recente dedicato al tema dello Zakhor, della memoria ebraica, lo storico ebreo americano Y.H.Yerushalmi si è domandato: “se la memoria del passato è stata sempre una componente fondamentale dell’esperienza ebraica, perché non è mai stato compito dello storico quello di custodirla e tramandarla?”. “In effetti” – conclude nel suo saggio Yerushalmi – “le moderne concezioni ebraiche del passato non sono state formate dalla storiografia: ben più decisivo, in questo senso, il contributo della letteratura e dell’ideologia”.
Il fondamentale ruolo svolto dalla letteratura nella dinamica della memoria collettiva ebraica, cosi esplicitamente riconosciuto oggi dagli stessi studi storici, non può che costituire un iniziale motivo di riflessione per chi si appresti a consultare la sezione linguistico-letteraria di questa bibliografia.
Eppure, nell’accingermi ad illustrare i principi informatori cui mi sono ispirata nella preparazione del repertorio della letteratura ebraica pubblicata in Italia – cui segue un capitolo bibliografico meno esteso dedicato alla lingua, o alle lingue, del mondo ebraico – mio primo compito sarà quello di comunicare, oltre all’importanza vitale di tale settore bibliografico nella cultura ebraica, anche i nodi critici e i non facili, ma indubbiamente stimolanti, problemi metodologici che si sono dovuti affrontare.
Un indizio della complessità offerta da questo settore di bibliografia ebraica – molto ampio e sotto certi aspetti (se concesso dirlo) anche il più problematico di tutto il nostro volume – è offerto dalla stessa impossibilità di fare ricorso per esso ai normali supporti bibliografici offerti agli studiosi dall’editoria italiana. Si consideri a titolo esemplificativo quel classico strumento di consultazione costituito dai cataloghi dei libri in commercio dell’Associazione Italiana Editori. Qui, nel volume organizzato per soggetti, uno studioso – consultando le voci “Ebrei”, “Ebraismo”, “Antisemitismo”, “Israele” e “Palestina” – troverà una comoda rete di rimandi sui libri relativi a vari settori, storico-ideologici, della cultura ebraica, e di li potrà partire per tracciare una prima mappa consistente (anche se certo non esaustiva) di quanto attualmente offerto ai lettori italiani. Analogo supporto si è avuto, del resto, per le opere incluse nella seconda parte di questa sezione, relative alla lingua ebraica. Ma una voce che copra la sezione letteraria non esiste. Chi consulti la voce “Letteratura” nel Catalogo per Soggetti già citato, alla voce “Letteratura ebraica” troverà, infatti, solo pochi titoli sulla letteratura in lingua ebraica, la quale tuttavia non costituisce davvero tutta la letteratura del popolo ebraico nei suoi millenni di esistenza diasporica. Nella speranza di poter cominciare ad allargare il discorso, si cercherà allora, tra tutte le letterature, la voce “Letteratura yiddish”, per scoprire, invero con sorpresa, che essa non è neppure citata (un fantasma del mondo letterario…). E qui, di fronte a questo vuoto, il ricercatore sarà costretto a fermarsi. Una voce che riguardi l’insieme delle “letteratura ebraica”, diasporica e non, quella che potrebbe definirsi la “Judaica letteraria”, in questi cataloghi di consultazione generale non esiste, né forse – va detto apertamente – ancora potrebbe, allo stato attuale dell’elaborazione critica.
Emerge allora quello che il vero problema critico: la definizione di ciò che si intende per “letteratura ebraica”.
Esiste una identità letteraria ebraica? E’ possibile definire l’ebraicità di un libro? Che cos’è che fa di un libro, un libro ebraico? Il fatto che sia di uno scrittore ebreo o che tratti di tematiche ebraiche? Ebreo deve essere l’autore? Il personaggio? La concezione? L’ambiente? E quand’è che lo scrittore può considerarsi ebreo? Scrivere una bibliografia della letteratura ebraica – ci si consenta l’esagerazione – equivale a scrivere un’opera di filosofia, anzi di filosofie. Bisogna, infatti, rispondere alle domande: che cosa un ebreo? che cosa l’ebraismo? E poiché dare una risposta univoca a queste domande è poco ebraico, occorrerà avere la flessibilità di includere, o escludere il tale o il tal altro libro, secondo gli umori, le epoche, i convincimenti. In breve, la bibliografia della letteratura ebraica è un’opera in continua trasformazione, nella quale si può entrare, uscire e rientrare, a seconda delle risposte che si vuol dare a quegli interrogativi.
Il problema di una definizione di “libro ebraico” fu discusso nell’America del secondo dopoguerra specie intorno a quella metà degli anni Cinquanta da cui parte questa nostra bibliografia. Erano quegli gli anni in cui – sulla doppia spinta dello shock per le persecuzioni in Europa e del benessere del dopoguerra – si preparavano i grandi successi della letteratura ebraico-americana e, in una fase di recupero del passato e della memoria, fiorivano alcune tra le prime importanti raccolte antologiche della letteratura ebraica mondiale. Il dibattito si sarebbe poi diffuso anche in altre comunità diasporiche (si pensi all’attenzione sorta in Francia intorno alle proposte dello scrittore Albert Memmi, il quale suggeriva l’introduzione di nuove terminologie per definire i vari aspetti, da quello istituzionale-religioso al puramente psicologico-esistenziale, del vivere ebraico).
In Italia, la qualità assai limitata dell’approfondimento relativo a queste tematiche si manifesta con immediata evidenza, come naturale, nella stessa povertà del linguaggio. Rivelatrice in questo senso la ambigua indeterminazione dell’espressione “letteratura ebraica”, ove l’aggettivo “ebraica” può riferirsi sia ad un’opera scritta in ebraico che a un prodotto della cultura ebraica in altra lingua. Manca cioè, in italiano, quella distinzione, almeno parzialmente chiarificatrice, tra Hebrew (di lingua ebraica) e Jewish (del popolo ebraico) o hébreux/juif, che troviamo invece in altre lingue europee, quali l’inglese, il francese e il tedesco, e naturalmente in ebraico.
Tali distinzioni in italiano non esistono. Se, infatti, esaminiamo i corrispondenti aggettivi ebraico e giudaico, noteremo che la loro differenza semantica, contrariamente a quanto succede nelle altre lingue citate, è tutt’altro che chiara. Nel linguaggio dotto, infatti, la differenza tra i due termini passa per una distinzione di carattere storicistico, rispondente all’intento, di probabile origine ecclesiastica, di separare due fasi della storia e identità ebraica, da un lato quella precedente alla distruzione del Tempio e alla dispersione, in cui si sarebbe sviluppato l’“Ebraismo”, e dall’altro quella successiva a tali eventi, in cui si sarebbe sviluppato il “Giudaismo”; una simile distinzione, introducendo un’idea di radicale interruzione nell’Ebraismo, risulta tuttavia sostanzialmente estranea allo spirito ebraico e all’uso attuale della lingua da parte degli stessi ebrei. Di fatto, nell’uso corrente il termine “giudaico” sussiste come sinonimo dell’aggettivo “ebraico”, ma con un carico di sfumatura spregiativa, effetto del suo prolungato uso negativo da parte della cultura antisemita. Soltanto in un’accezione, il termine viene usato con funzione di sostantivo, assumendo, nell’espressione “giudaico romanesco”, significato di lingua, per indicare la parlata degli ebrei di Roma. In conclusione, questa sovrapposizione di significati, questa confusione e indeterminatezza lessicale, e in sostanza questi limiti espressivi ben evidenziano il mancato chiarimento concettuale della cultura italiana in relazione ai caratteri (compositi) dell’identità ebraica. Sarebbe tuttavia improprio imputare le difficoltà di una definizione di letteratura ebraica a una simile confusione terminologica, la quale non è la causa, bensì l’effetto – o la manifestazione linguistica più evidente – del problema che stiamo affrontando.
Il primo vero nodo critico in una definizione di letteratura ebraica è legato al carattere cosmopolita dell’esperienza ebraica, la quale è stata essenzialmente nei secoli, e fin dalle sue prime origini, un’esperienza diasporica (secondo il pensiero radicale di Isaac B. Singer a questo proposito, il meglio del vivere ebraico sarebbe invero scaturito da questa esperienza di esilio: “soltanto in esilio l’ebreo cresciuto spiritualmente”). Da ciò è derivata una condizione di plurilinguismo, che ha caratterizzato il mondo ebraico nei suoi millenni di storia e che ancora oggi sussiste per buona parte di questo mondo, nonostante la (ri)nascita dello Stato d’Israele e il fondamentale recupero della lingua della Bibbia come lingua nazionale. Nel corso di questi secoli, la letteratura ebraica ha dunque adottato anche i segni e i suoni di lingue-altre rispetto all’ebraico originale, rifrangendosi in una infinità di lingue dell’esilio, spesso semplicemente le lingue dei paesi di adozione (dall’aramaico già presente nelle pagine della Bibbia, al greco del periodo ellenistico, all’arabo di Maimonide e dei grandi secoli di influenza islamica, alle varie lingue d’Europa, d’America e degli altri paesi del mondo); in altri contesti invece, àl dove la vita comunitaria è stata più consistente o meno aperta al mondo circostante, modulandosi in idiomi particolari, vere e proprie lingue ebraico-diasporiche, quali lo yiddish del mondo dell’Europa orientale ashkenazita e il ladino dell’ebraismo sefardita (o in Italia, benché con altre dimensioni di rilievo, il già citato dialetto giudaico-romanesco, che ha anch’esso prodotto una sua pur limitata letteratura).
Su di una di queste lingue, lo yiddish, ha scritto Kafka: “Esso si compone solo di parole straniere… Lo jiddish percorso da un capo all’altro da migrazioni di popoli. Tutto questo tedesco, ebraico, francese, inglese, slavo, olandese, rumeno e persino latino che vive in esso… ci vuole una certa energia a tenere unite le varie lingue in questa forma”.
Sono parole che potrebbero adattarsi alla descrizione dell’insieme dell’universo linguistico ebraico diasporico: anch’esso attraversato da un capo all’altro da migrazioni di popoli, ci vuole una certa energia per tenerlo unito…
Quanto agli effetti di tale dispersione sulla cultura ebraica, ecco ancora il pensiero di Kafka, qui nel ricordo del suo giovane amico praghese Janouch:
“Chiesi il significato della parola diaspora. Kafka rispose che il vocabolo greco per la dispersione del popolo ebraico. In ebraico si dice galut. / E spiegò: ‘Il popolo ebraico è disperso come è dispersa una seminagione. Come il seme attira le sostanze che lo circondano, le accumula in sé e fa progredire la propria crescita, così gli ebrei sono destinati ad accogliere in sé le energie dell’umanità, a purificarle e a portarle in alto'” (aggiungeva poi Kafka, con parole profetiche, che rivelano la sua capacità di congiungere cultura biblica con sensibilità nei confronti delle ombre angosciose del suo tempo: “Mosè è ancora di attualità. Come Abiram e Dathan si opposero a Mosè con le parole: Lo naalé! – Noi non saliremo! – così il mondo si oppone con le grida dell’antisemitismo. Per non salire verso l’umano ci si butta nel buio abisso della zoologica dottrina razzista. Si percuote l’ebreo e si ammazza l’uomo”. Parole che non sembra oggi potersi commentare se non con il silenzio e la preghiera).
Tornando tuttavia al discorso sulla letteratura, si osservi come da questa condizione di plurilinguismo, da questa possibilità di scambi e di sintesi culturali che tanto aveva colpito Kafka, da questa appartenenza a più di una letteratura, nasce uno dei fascini più segreti della letteratura ebraica diasporica, la sua multiforme natura di vera “biblioteca di Babele”. Ma se questo vero, non possiamo dimenticare che l’energia segreta che ha permesso a questo universo babelico di rimanere unito è rappresentata, in termini linguistici, dalla costante sopravvivenza nei secoli della lingua in cui hanno trovato espressione i valori primigeni e costituenti del mondo ebraico. Ci riferiamo, come ovvio, all’ebraico, scrigno prezioso, che ha conservato intatto nel tempo gli insegnamenti della Torà, sorgente prima di ogni sapienza ebraica e di ogni contributo dell’ebraismo alla cultura universale. Per quanto dispersi in terre lontane, i semi dell’ebraismo sono nati dalla stessa pianta. E dalla tensione e dal coesistere di queste polarità – la diversità dei terreni in cui i semi hanno attecchito e l’unità primigenia e mai dimenticata – che sembrano oggi sprigionarsi la forza e il fascino ultimo della cultura ebraica nel mondo, e della sua letteratura.
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Come selezionare dunque gli scrittori e le opere da includere in una bibliografia della letteratura ebraica? Mancando l’elemento di una sola lingua unitaria, su cui si fonda in genere ogni definizione di letteratura, e mancando d’altra parte il costante referente di un unico spazio nazionale, quale criterio meglio si adatta ai complessi caratteri identità ebraica?
È significativo che Giorgio Romano, cui si deve la pionieristica Bibliografia Italo-Ebraica (1848-1977) che è stata di tanto aiuto in questa nostra ricerca (e che, a metà degli anni Ottanta, con generosità non esitò a comunicarmi i frutti della sua ricerca in corso per gli anni successivi), abbia sentito l’esigenza di discutere questi problemi in una raccolta di saggi, Ebrei nella Letteratura, nata proprio dall’esperienza di preparazione di quella bibliografia. In uno di questi scritti, dedicato a “L’elemento ebraico nell’opera di scrittori ebrei italiani”, questo studioso onesto e sensibile ammette che la “definizione di quello che è l’elemento ebraico nell’opera di uno scrittore … è tra le più difficili e controverse”; “l’unico elemento sicuro”, conclude Romano, “che si possa adottare come criterio di scelta è quello dell’argomento: la tematica ebraica nelle opere di scrittori ebrei”: questo dunque il criterio suggerito da Giorgio Romano, e da altri con lui, per una definizione di letteratura ebraica.
Sulla saggezza di questi criteri non vi sono certo dubbi. E tuttavia mi sembra che chi si avvicina a una bibliografia della letteratura ebraica mondiale possa essere mosso da curiosità che vanno oltre i limiti di questa definizione. E di ciò anche si è cercato, almeno tendenzialmente, di tenere conto nella preparazione di questo repertorio bibliografico della letteratura: nella quale sono prevalentemente incluse opere letterarie – di scrittori ebrei e non – in cui compaiono elementi di tematica ebraica, ma si è anche cercato di inserire qualche “indizio” della varietà di voci ebraiche emerse nella letteratura mondiale, quand’anche esse non abbiano apertamente affrontato nella loro opera tali tematiche. Si tratta in questi casi di indizi di percorso talora appena suggeriti, nomi importanti – non certo tutti quelli che si sarebbe potuto citare – segnalati magari con un’unica opera indicativa, come fossero tracce lasciate in un’immaginaria caccia al tesoro, a indicare il moltiplicarsi di aperture e di percorsi-altri di cui è fatta, nella sua poliedrica complessità, la letteratura degli scrittori ebrei.
Quest’ultimo gruppo di opere costituisce indubbiamente il settore più controverso di ogni bibliografia della letteratura ebraica. Il grosso problema di fondo, d’altronde – va detto con molta chiarezza – è che esiste un filone “non ebraico” nella letteratura “ebraica”. L’autore può essere ebreo solo di nascita, o non ebreo, ma voler trattare di argomenti ebraici; la lingua non sarà l’ebraico; le opinioni saranno per lo più tratte da pensatori non ebrei, e così via. Si potrà sempre sostenere che molta parte della letteratura ebraica è intrinsecamente non ebraica. Ma l’immagine speculare di questo problema è altrettanto vera, ed è quella anche che più ci interessa, ed è il filone ebraico della letteratura non ebraica, l’elemento ebraico o il risvolto ebraico della letteratura in genere. Se questa, la letteratura in genere, risale per mille rivoli verso la prima, così la prima, la letteratura ebraica, risale per mille rami verso la seconda. E in fondo la letteratura ebraica da qui trae il suo interesse e la sua complessità: da questa capacità di dialogare con altrui filosofie, altrui mondi e altrui storie.
La nostra scelta nasce, dunqu, da un tentativo di comunicare questa ricchezza e complessità e di mediare tra le due possibili opposte tendenze critiche, restrittiva o omni-inclusiva. Nella nostra selezione troveranno allora posto i seguenti tipi di testi: a) una scelta la più comprensiva delle opere di scrittori ebrei, pubblicate dall’editoria italiana negli ultimi trent’anni, che esplicitamente si riferiscono – in toto o in parte – a esperienze e tematiche ebraiche; b) testi di scrittori non ebrei che hanno affrontato tematiche o personaggi ebraici: un filone, pure questo, di grande interesse – che include opere quali Il Mercante di Venezia di Shakespeare o l’Ulisse di Joyce – e attraverso cui è possibile ricostruire una parziale storia dell’immagine dell’ebreo, e del suo ruolo simbolico, nella cultura occidentale ; c) infine, una scelta indicativa di opere che, pur senza riferimenti espliciti all’ebraicità, al mondo, ai personaggi ebraici, sono firmate da scrittori riconosciuti come ebrei dalla critica internazionale.
La totale esclusione di quest’ultimo filone di letteratura comporterebbe, infatti, una visione falsata dello stesso mondo ebraico, oltre che una comprensione limitata del suo ruolo nel mondo letterario, specialmente moderno. Ne deriverebbero anche degli assurdi, quali l’inclusione di opere critiche relative a scrittori di origine ebraica esaminati dai critici alla luce della loro ebraicità, ma magari non inclusi poi con alcuna loro opera nella bibliografia. Sarebbe piuttosto incongruente, ad esempio, accogliere lo studio del critico americano Stuart Hughes, che affronta lo spinoso problema identità ebraica di alcuni dei più noti scrittori italiani del Novecento, e non includere poi una scelta almeno indicativa delle opere di costoro, anche dei più assimilati, tra le fonti primarie. Autori come Svevo e Saba, nei cui scritti la componente ebraica risulta spesso, più che manifesta, implicita, saranno dunque presenti nella nostra bibliografia, non soltanto perché senza questi, e altri nomi, non si comprenderebbe l’entità del contributo ebraico alla letteratura italiana del nostro secolo, ma perché attraverso una analisi delle loro opere è possibile anche capire i caratteri di un mondo spesso al limite della assimilazione quale quello ebraico italiano. Analogamente dicasi per il teatro di Pinter – sulle cui “radici” ebraiche “sepolte” è uscito recentemente uno studio in Italia – , e così via.
(Si osservi anche che, mentre uno scrittore italiano non ha bisogno di affrontare i drammi e i dilemmi dell’italianità o di ambientare le sue storie tra personaggi italiani per essere considerato tale, allo scrittore ebreo soltanto verrebbe negato quel diritto alla non manifesta consapevolezza o al disinteresse verso se stesso in quanto appartenente a un determinato gruppo, che viene invece concesso a qualunque scrittore di qualsiasi cultura. Ritorniamo così ai complessi problemi dell’identità letteraria ebraica, dalla cui discussione eravamo partiti).
D’altra parte, però, quando l’autore ebreo è parso nella sua opera poco ebraicamente coinvolto, quando i raggi del suo io interiore (per usare ancora una immagine di Kafka) non sono sembrati includere che scarsi accenni a questa sua identità, si è allora per lo più limitata la scelta a poche opere rappresentative, per segnalarne la presenza, suggerire nuovi possibili filoni di ricerca per il lettore, senza caricare di titoli di scarso rilievo ebraico la bibliografia.
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Nella organizzazione e classificazione del materiale bibliografico qui raccolto, il criterio seguito è stato quello di una suddivisione delle opere per generi letterari, principio che si è combinato con quello di tipo cronologico: i testi di epoca antica o medioevale sono stati cioè separati da quelli di epoca moderna e contemporanea.
Da questo tipo di organizzazione sono emersi molti elementi su cui vale la pena di riflettere. Innanzitutto, per quanto riguarda i generi letterari, si è evidenziato l’enorme sviluppo della narrativa rispetto alla poesia e al teatro; d’altra parte è risultata nel suo insieme confermata la moderna tendenza al superamento delle barriere tra i generi letterari, a proposito della quale Roland Barthes sosteneva, in anni recenti (1973): “attualmente si può immaginare la produzione di qualsiasi cosa e, sia quel che sarà, essa riceverà il nome di “testo”… A nostro avviso, un certo testo potrà essere considerato di volta in volta romanzo oppure saggio. La barriera tra i generi letterari sta per essere abbattuta”. Un esempio sintomatico di questo muoversi della scrittura moderna verso nuove forme è rappresentato dai libri di Edmond Jabès, nelle cui pagine vi è una tale osmosi e alternanza di poesia, prosa lirica e riflessione, da scompaginare qualunque classificazione per generi letterari (privilegiando l’elemento che sembra prevalere, e cioè quello poetico, con la sola esclusione di un’intervista collocata nella parte bibliografica dedicata alla critica, tutta la sua opera è stata raccolta nel settore “Poesia”).
Interessanti appaiono anche le indicazioni che scaturiscono dalla analisi e classificazione delle opere di narrativa. Dopo molte riflessioni, la soluzione più coerente è sembrata quella di unire, in un unico settore bibliografico, alle opere di vera e propria “fiction” (narrativa di fantasia) quelle di memorialistica e di saggistica d’autore (mentre alla critica letteraria e alla biografia sono dedicati settori appositi), perché una suddivisione all’interno di questi filoni di scrittura risultava spesso problematica e avrebbe costretto il lettore a frequenti consultazioni incrociate tra le varie categorie.
L’elemento che emerge con più evidenza dalla analisi della narrativa pubblicata nel dopoguerra è l’ampliarsi sterminato della memorialistica nella letteratura ebraica degli ultimi anni. Ne sono causa, sia in Italia che all’estero, la drammaticità delle ultime vicende ebraiche, le tragiche esperienze delle persecuzioni, la frattura creatasi tra il mondo del prima e quello del dopo, le terribili ferite e le cesure. Vi è un fiume di ricordi che scorre, un serbatoio di memorie che non vogliono scomparire, e che sono state in questi anni portate alla superficie dalla letteratura: la quale viene effettivamente ad assumere quella funzione vitale di trasmissione della memoria e di creazione di una coscienza ebraica collettiva, nata dallo stratificarsi del ricordo, da cui eravamo partiti in queste riflessioni introduttive. In realtà, molta della narrativa ebraica contemporanea sembra affondare le sue radici nei territori sconvolti della memoria.
In molti casi il rapporto è del tutto esplicito, e la narrativa si fa vera e propria memorialistica; si pensi al Primo Levi di Se questo un uomo e La tregua, alla Ginzburg di Lessico famigliare, agli scritti di Edith Bruck e di Bassani, a quasi tutta la narrativa di Alberto Vigevani e Giorgio Voghera; si pensi ancora, fuori d’Italia, allo stesso raccontare, in bilico tra fantasia e memoria, di Isaac Bashevis Singer, alla scrittura evocativa di Wiesel, alla narrativa autobiografica di Canetti. Era possibile separare queste pagine di memorialistica dalle molte altre meno note e meno artisticamente risolte testimonianze di vita uscite in questi anni? In base a quale principio si doveva dunque disgiungere la “narrativa” dalla “memorialistica”? Ed era giusto scindere, ad esempio, i Diari di Kafka o i resoconti di viaggio di Canetti dal resto della loro opera? Si è alla fine deciso di mantenere unito tutto questo ricchissimo materiale (fatta esclusione per gli Epistolari, inclusi nella voce “Epistolari e Biografie”), oltre che per smembrare il meno possibile l’opera dei vari autori, sì da renderne più agevole la ricerca, anche per evidenziare la crescente osmosi venutasi a creare tra questi generi letterari nel corso del Novecento. (Un’ultima notazione vorrei aggiungere a proposito della moderna tendenza alla memorialistica. Quando Paolo Milano, il “lettore di professione”, nella introduzione alla sua raccolta di articoli di critica letteraria degli anni Cinquanta esprimeva la sua personale predilezione per questo genere di letteratura, egli non faceva che rivelare, con la sua sensibilità di lettore raffinato, una tendenza che per vari motivi è stata di molta parte della nostra cultura in questi anni: forse per una ricerca di autenticità di voce e di esperienza, per un bisogno di autoanalisi e di confessione.)
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Se invece passiamo ad esaminare il materiale bibliografico raccolto dal punto di vista del suo sviluppo cronologico, cioè sul piano diacronico, colpisce l’enorme preponderanza della letteratura moderna e contemporanea rispetto a quella antica e medioevale presente nella nostra editoria.
Ma qui si impone una precisazione. Non sarebbe in realtà possibile capire il vero svolgersi della tradizione letteraria ebraica, se non ci si rendesse conto di come esiste nell’ebraismo una tradizione del racconto, una tradizione “aggadica” (dalla parola ebraica aggadà, cioè “narrativa, racconto”), che ha la sua fonte prima nella stessa Bibbia. In questa sezione bibliografica tale filone letterario non compare che in minima parte, in quanto prevalentemente incluso nella sezione dedicata al pensiero. Ne scaturisce, ove ci si limitasse a considerare solo la sezione bibliografica letteraria, il rischio di una visione indubbiamente sbilanciata della letteratura ebraica nel tempo.
E’ infatti importante ricordare che se da un lato la Bibbia è la fonte di tutta la morale, il pensiero e l’insegnamento ebraico nei suoi aspetti halachico-normativi, essa è anche la sorgente primigenia della sua imponente tradizione poetico-narrativa e come tale, come altissima letteratura, può essere anche considerata: esemplari in questo senso sono le pagine dedicate da Auerbach al confronto tra Bibbia e Odissea, in apertura del suo importante studio di letteratura comparata Mimesis. E’ assai significativo, del resto, che il grande Rashi, nel suo fondamentale Commento al libro della Genesi, cominci la sua esegesi, e cioè la sua ricerca sul senso delle prime parole del Pentateuco (“In principio”), proprio partendo da un interrogativo che investe la funzione del racconto nella Bibbia. Per quale ragione, egli si domanda, la Torà, che in ebraico vuol dire “insegnamento”, non comincia con un comandamento a Israele, per il primo dei quali bisogna attendere addirittura fino al cap. 12 dell’Esodo, ma con il racconto della creazione?
Talmente forte è la propensione al racconto nella tradizione ebraica che persino il commento al racconto biblico si è spesso espresso nella forma di un nuovo racconto. Da questa attitudine mentale è nato lo straordinario patrimonio di cultura aggadica, di arte del racconto, profuso nella letteratura ebraica postbiblica.
Come già accennato, nella storia del pensiero ebraico è tradizionale distinguere tra letteratura halachica, normativa, e letteratura aggadica, narrativa. Tuttavia, in Dio alla ricerca dell’uomo il pensatore contemporaneo Abraham J. Heschel ha segnalato con forza l’intima connessione esistente tra questi due modi di espressione, queste due polarità inscindibili dell’anima ebraica.
Se tanto dell’insegnamento ebraico è dunque passato attraverso il narrare, va dunque ricordato che, di questo ricchissimo patrimonio di racconti della tradizione, orale e poi scritta, nella sezione letteraria sarà presente solo una piccola parte, di origine più recente, fondamentale tuttavia nell’evidenziare il ruolo davvero non secondario assunto dalla letteratura nel pensiero ebraico. Mi riferisco qui a opere quali i racconti dei Chassidim raccolti da Buber, e oggi nuovamente da Wiesel, alla traduzione dei racconti di Nachman di Breslav curata da Shalom Bahbout e Giacoma Limentani; per non parlare poi degli stessi racconti di Isaac B.Singer, che a ragione possono essere visti come un moderno sbocco di questa lunga tradizione narrativa.
Il racconto ebraico: sui suoi caratteri, e sul rapporto tra la sua antica storia e il raccontare moderno, ha scritto pagine illuminanti lo scrittore ebreo americano Saul Bellow, allorché negli anni Sessanta curò negli Stati Uniti una raccolta di racconti ebraici, inedita in Italia, Great Jewish Short Stories (1963), che si impone alla nostra attenzione per la buona scelta antologica e la sua significativa introduzione.
“Il messaggio dell’Antico Testamento”, scrive Bellow in quella introduzione, “non può essere facilmente separato dalle sue storie e metafore”. E pi ù oltre, con parole mirabili, nelle quali è contenuto il senso più alto del collegamento che esiste tra la tradizione biblica del racconto e la profonda fede nel narrare dello scrittore: “Perché vi è un potere nel racconto. Esso testimonia il valore, il significato di un individuo. Per un breve momento tutta la forza e tutto lo splendore del mondo sono concentrati su alcune figure umane”. “Nella sconfitta”, nota ancora Bellow (dopo aver ricordato le ultime parole di Amleto morente), “un racconto contiene la speranza del riscatto, della giustizia. Il narratore è capace di far sì che gli altri accettino la sua versione delle cose. E nei racconti della tradizione ebraica il mondo, e persino l’universo, hanno un significato umano. In verità, l’immaginazione ebraica è stata talvolta considerata colpevole di umanizzare troppo ogni cosa, di dare troppa importanza a noi, all’umanità, e di conferire alle apparenze esteriori troppi significati”. A queste accuse, Bellow contrappone una sola parola ebraica: bilbul. Non si tratta, cioè che di “una falsa accusa; letteralmente, una confusione”.
In questo testo critico che è, insieme, ricostruzione storica di un genere, riflessione sul proprio strumento espressivo e autobiografia, segue quindi la testimonianza personale, il proprio collegarsi di scrittore alla tradizione del racconto orale ricevuta in famiglia: “Per l’ultima generazione di ebrei dell’Europa orientale, la vita quotidiana senza racconti sarebbe stata inconcepibile. Mio padre soleva dire, ogni qualvolta gli chiedevo di spiegare qualcosa, ‘La cosa sta così. C’era un uomo che viveva…’, ‘C’era una volta uno studioso…’, ‘C’era una vedova con un figlio…’, ‘Un carrettiere procedeva su di una strada solitaria …’./ ‘Un vecchio viveva tutto solo nella foresta…’ (qui il racconto viene tutto trascritto da Bellow ). ‘Perciò, vedi, quando giunge il momento di morire…’, mio padre diceva, ‘nessuno è veramente pronto'” (ed ecco il tramutarsi del racconto in insegnamento, tramandato – nel ricordo e nel racconto, come la Bibbia prescrive – da una generazione all’altra).
Non intendo certo trascrivere tutta l’introduzione di Saul Bellow, ma vorrei almeno segnalarne un altro aspetto importante. Dopo aver, dunque, evidenziato l’importanza del racconto nella tradizione ebraica e aver cercato di individuare gli elementi comuni di questa tradizione (tra questi, fondamentale per Bellow, la mescolanza di “riso e tremore” che caratterizzerebbe i racconti ebraici), in altre parti del saggio, e soprattutto nella conclusione, Bellow sembra voler invece sottolineare l’estrema varietà di questa letteratura: le molte lingue in cui si esprime, la libertà di cui lo scrittore deve godere e di cui effettivamente gode nei paesi liberi del mondo, in cui “gli scrittori ebrei possono scrivere esattamente come pare loro, in francese (Andrè Schwartz-Bart), italiano (Italo Svevo), in inglese, o in yiddish o ebraico”; fino a quella esaltazione conclusiva della natura accidentale della nostra stessa vita, con cui l’introduzione si conclude: “Chi era Babel? Da dove veniva? Egli era un accidente. Tutti noi siamo simili accidenti. Noi non facciamo la storia e la cultura. Semplicemente appariamo, non per nostra scelta. Facciamo ciò che possiamo con i mezzi a nostra disposizione. Dobbiamo accettare la mescolanza come la troviamo – l’impurità di essa, la tragedia di essa, la speranza di essa” (affermazioni che meglio si comprendono alla luce della narrativa dello stesso Bellow, e che acquistano ulteriore significato se viste nel contesto da cui nascono, come risposta al lamento di un altro scrittore ebreo americano, Meyer Levin, che in un racconto fa dire a un suo personaggio, ebreo della seconda generazione: “Ero uno straniero, che scriveva in una lingua straniera… Che cosa sono io? Nativo di qui, certamente. I miei genitori sono venuti in questo paese… loro erano i veri immigranti, i veri stranieri… Ma io, nato in America, cresciuto a base di hot dogs, non sono a mio agio in America. Ricorda questo: l’arte per essere universale deve avere confini ristretti. Un artista deve essere una perfetta unità di tempo e di luogo, a suo agio con se stesso, non estraneo… Chi sono io? Da dove vengo? Sono un accidente. Che diritto ho io di scribacchiare in questa lingua americana che non mi è più naturale di quanto lo sia per il cinese della lavanderia?”).
Una perfetta unità di tempo e di luogo, lo scrittore ebreo potrà difficilmente esserlo. Troppe le polarità, le esperienze, le stratificazioni di cultura che lo attraversano. Ed ecco allora l’esaltazione della mescolanza, ecco il valore morale di questa accettazione della propria “impurità”, ecco il trasformarsi di questa condizione – ebraica e universalmente umana – da motivo di tragedia in motivo di speranza.
Nella scelta di racconti ebraici da lui curata, Bellow inizia con un testo apocrifo della letteratura post-biblica, il Tobia, e dopo aver vagato per i tempi e per i luoghi, attingendo alle diverse voci della letteratura ebraica mondiale, ci fa ascoltare alcune tra le voci più rappresentative della narrativa ebraica moderna. Anche uno scrittore come Bellow, che ha talvolta espresso insofferenza di fronte alla propria inclusione entro i limiti di una categoria o definizione etnica come quella di “scrittore ebreo americano”, nel momento in cui si è posto di fronte al dilemma di in cosa consista la letteratura ebraica nel tempo, è stato in grado di offrirci un quadro affascinante di questa letteratura, attraverso una scelta di voci lontane nel tempo e dalle lingue pi diverse.
La nostra bibliografia non può essere altrettanto selettiva. Essa include ovviamente opere di livello diversissimo. Il suo compito è quello di aprire una finestra su un panorama sterminato, nel quale ogni lettore (guidato, ci auguriamo, da quello “intelletto d’amore” cui Dante tanto valore attribuiva nel percorso della conoscenza) potrà tracciare un proprio itinerario di esplorazione.
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Nonostante l’ampiezza del panorama di letteratura ebraica offerto dall’editoria italiana, questo repertorio bibliografico ha messo in evidenza l’esistenza di zone ancora oscure e inesplorate, di autori trascurati dalla nostra editoria. Persino in un settore ormai piuttosto popolare come quello della letteratura ebraico americana, sorprende notare l’assenza o la comparsa tardiva di alcuni nomi e opere importanti. A tutt’oggi (1991) manca ancora, ad esempio, una traduzione di quello che è considerato il primo romanzo di rilievo e di successo della narrativa ebraico americana, The Life of David Levinski (La vita di David Levinski) di Abraham Cahan, un pioniere della letteratura ebraica d’oltre oceano. Delmore Schwartz, che scrisse principalmente negli anni Trenta e Quaranta, è stato da noi pubblicato per la prima volta con un volume di suoi racconti nel 1990. Persino di uno scrittore noto come Chaim Potok, fino alla seconda metà degli anni Ottanta era stato tradotto solo il primo romanzo. Pochissimo presenti sono poi i poeti ebrei americani; scarsamente rappresentate sono anche le voci nuove della narrativa ebraica del nord-America (per non parlare poi di quella israeliana). E questo riguarda solo un aspetto, pur fortunato, della nostra bibliografia.
Interessante, anche se non sorprendente, poi vedere l’evoluzione del gusto e delle mode letterarie, e il mutare delle influenze politico-culturali. Uno scrittore quale Israel Zangwill, molto tradotto negli anni Venti e fino al 1932, è stato invece comparativamente abbastanza trascurato dall’editoria fino alla metà degli anni Ottanta; oggi, all’inizio degli anni Novanta, pare di assistere ad una sua parziale riscoperta. Poca attenzione sembra poi riservata attualmente agli studi su Dante e l’ebraismo, su cui invece erano apparsi alcuni titoli nel passato (siamo comunque in attesa della annunciata ristampa del classico studio di Cassuto su Dante e Manoello, presso il benemerito editore Carucci).
Anche nel settore linguistico, la produzione sembra piuttosto carente. Gli strumenti disponibili, in termini di grammatiche dell’ebraico o dizionari, sono quelli appena essenziali. Sembrerebbe che molto dell’apprendimento venga affidato ad altre vie che non a quelle offerte dall’editoria italiana: i viaggi? o magari pubblicazioni in inglese? o forse la viva voce di un maestro, secondo la tradizione ebraica?
Queste dunque alcune delle più evidenti carenze, in un panorama che comunque si segnala all’attenzione per la sua imponenza complessiva.
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La fortuna della letteratura ebraica in Italia si è, indubbiamente, andata espandendo a partire dal secondo dopoguerra. Basterà mettere a confronto due dati indicativi: da un lato, la scarsità di voci ebraiche pubblicate nell’anteguerra, in epoca fascista, in una rivista importante per la cultura italiana come “Omnibus”, che pure si proponeva di offrire un panorama il più ampio possibile sulla letteratura mondiale; dall’altro i risultati di un sondaggio di opinione promosso nel 1985 dall’inserto “Tuttolibri” del quotidiano “La Stampa” di Torino tra i suoi lettori, per stabilire quali fossero considerati, da un lato “il più importante”, dall’altro “il più amato” romanzo italiano del Novecento. Dalle numerosissime (oltre 20.000) risposte pervenute, risulta che, secondo i lettori italiani, il primo posto per importanza, tra i romanzi degli scrittori italiani del Novecento, va attribuito alla Coscienza di Zeno di Italo Svevo; posti di rilievo, tra i primi dieci, venivano poi assegnati a Carlo Levi per Cristo si fermato ad Eboli, a Primo Levi per Se questo un uomo e a Bassani, tra i più amati per Il giardino dei Finzi Contini; mentre un primo posto di antipatia era dato a Gli Indifferenti di Moravia (pur incluso anche nella rosa dei dieci considerati pi importanti) – tutti scrittori legati, nell’adesione o nel rifiuto, al mondo ebraico d’origine.
Osservava significativamente in quell’occasione un critico di “Tuttolibri”, Giorgio Calcagno, che sono stati gli scrittori periferici e collocati “in una posizione di marginalità” (il siciliano Tomasi di Lampedusa, il più “amato” per Il Gattopardo, e il triestino Italo Svevo), gli scrittori insomma di minoranza, che sembrano aver lasciato un segno nella cultura italiana del nostro tempo, assumendo agli occhi dei (quasi) posteri, a noi contemporanei, la statura di “autori del secolo”.
Siamo così giunti al tema di fondo e alla vera conclusione, alla riflessione, cioè, sulle motivazioni e i possibili risultati di una ricerca bibliografica di questo genere: che se da un lato può sembrare, come ogni bibliografia, quasi “claustrofobica”, facendo nascere il desiderio di quel “resto” che Riccardo Calimani ha felicemente evocato nella sua nota rubrica di segnalazioni librarie sul mensile ebraico Shalom, dall’altro si pone, oltre che come strumento di consultazione utile a molti fini, anche come occasione e documentata proposta di ricerca sul significato di un contributo di minoranza alla letteratura tutta di un paese. Il rigoglio della letteratura ebraica nel nostro secolo manifesta la ricchezza del mondo ebraico e l’entità dei suoi apporti di esperienza e valori al mondo moderno, ma è anche testimonianza bibliografica della funzione di stimolo e rinnovamento che una presenza minoritaria può assumere nei confronti del contesto in cui opera. In termini di cultura nazionale, attraverso una bibliografia di questo genere si sancisce l’acquisita consapevolezza della varietà di linguaggi, di memorie e di mondi che attraversano la cultura di una nazione; una consapevolezza che sembra oggi ormai condivisa anche dai politici più sensibili (“Il concetto di nazione è facile solo in apparenza. In realtà, dentro ci sono pi culture, linguaggi, più antropologismi, ci sono più memorie di quanto non si sospetti”, scriveva l’Assessore alla Pubblica Istruzione e Cultura della Provincia di Roma, Lina Di Rienzo Ciuffini, nel commentare il programma “Ebrei, storia di una minoranza”, svoltosi in alcune scuole secondarie romane nel corso del 1983).
Il repertorio bibliografico dell’editoria ebraica in Italia promosso dal Ministero dei Beni Culturali si muove, credo, in quest’ottica: di riconoscimento di una componente non trascurabile della cultura nazionale e di riflessione sul significato di un qualificato apporto di minoranza alla vita culturale di un paese. La presenza ebraica nel mondo contiene in sé, da sempre, questo interrogativo rivoluzionario. L’elenco di opere che segue non è che un significativo e tangibile riflesso “in forma di parole” del contributo di quell’Altro che, nella gioia e nel dolore, in ogni luogo e in ogni tempo convive, spesso ignorato, accanto a ciascuno di noi.
Elèna Mortara Di Veroli