La studiosa di storia e letteratura ebraica: la sua complessità ammette tutto tranne l’aut aut
Elena Loewenthal – La Stampa – 15 Luglio 2025
«Tutto sta in essa: voltala e rivoltala» è il primo principio della tradizione ebraica sul testo sacro. Apparente imperativo reiterato, questo invito al capovolgimento della Torah che sta alle radici della ricerca – teologica, filologica, umana e divina – è in realtà uno straordinario e paradossale comandamento di libertà. La libertà di leggere, cioè ascoltare il testo dettato da Dio a Mosè in cima al monte Sinai, leggere e ripetere (studio in ebraico è anche sinonimo di una ripetizione mai eguale a se stessa, perché proprio nel tornare su ciò che è già stato detto si trova la novità, il non ancora detto).
La tradizione ebraica intesa come dinamica di un patrimonio che si riceve dalla generazione precedente e si consegna a quella successiva con il “plusvalore” dell’accezione nuova, di un nesso ancora da scoprire, di domande ancora mai poste, si snoda letteralmente di generazione in generazione, di maestro in discepolo che a sua volta diventa maestro. Anche il grande Baruch Spinoza si innesta a modo suo in questa tradizione scrivendo una impeccabile grammatica della lingua ebraica ed esponendo un altro principio che guida quella ricerca dentro la parola rivelata che non è mai fine a se stessa ma essenziale per comprendere il testo e moltiplicarne i significati – come le scintille che un martello produce colpendo la pietra. La Torah, ci dice il filosofo, è perfetta in quanto parola del Dio vivente, ma anche imperfetta perché dettata a una creatura imperfetta qual è l’uomo. A sua misura e a misura di quello che (ancora) non siamo in grado di capire.
Queste premesse, che la tradizione dipana in un’infinità di parole che generano a loro volta parole e altre domande senza soluzione di continuità, sono essenziali per accostarsi a un testo sacro e “problematico” (forse il testo più problematico di tutti i tempi!) come è la Torah – cioè il Pentateuco e per estensione tutto l’Antico Testamento. Torah è una parola femminile che di suo rimanda al significato di “cosa che si è gettata” ed evoca l’immagine di Dio che in un certo senso “scaglia” la sua parola verso e addosso all’uomo. Per questo e tanto altro la Torah è un testo come nessun altro, che chiama il lettore prima ancora che i fedeli a un esercizio di complessità, in bilico fra quella libertà di interpretazione che è un vero e proprio dettato interno al testo (basti aggiungere che il participio “incise” detto delle tavole della legge può anche leggersi come “libertà” – basta pronunciare diversamente la sequenza di consonanti…) e la consapevolezza della propria imperfezione. Cioè del fatto che, come ha detto un rabbino, per quanto si studi e si ripeta non si è neanche ancora arrivati a pagina due…
La lettura che ha dato Vito Mancuso di alcuni passi della Torah in funzione di un’attualità drammatica, piena di errori e di ingiustizie, pare invece collocarsi al di fuori di questi principi che sono in fondo pienamente universali. La libertà che il testo apre all’interpretazione e la consapevolezza della nostra imperfezione portano infatti inevitabilmente a una conseguenza che non è tanto e soltanto di ordine filologico: la Torah è un testo infinitamente complesso, che ammette ogni libertà di lettura tranne l’aut/aut. Il testo dice molte cose, racconta molte storie – d’amore e di guerra, di giustizia e di orrore. Manda a noi tanti messaggi, a volte contraddittori. Ma non ammette lo “scarto” – quel procedimento che porta Mancuso a invitare alla “pesca” di ciò che pare più umano e più giusto e tralasciare quanto è più scomodo e financo inaccettabile in quel grande racconto dell’umanità che è la Bibbia. Non si tratta infatti di scegliere ma di accettare il testo per quello che è e che racconta e partire da questa “accettazione” del testo per dipanarne l’infinità di sensi e significati che esso contiene. Che sia ciò che con una certa approssimazione Mancuso definisce “israelismo” – una sorta di deriva violenta per la quale trae un neologismo dal sapore dispregiativo da un nome che nella Bibbia è ben altro (quasi a dire che lo stato d’Israele in sé e per sé sia il frutto di una devianza e non la sintesi coerente di un percorso in cui la tradizione ebraica si innesta nella storia). Che sia il senso opposto e “buono” per cui chiama in causa un testo di Amos Oz: si tratta di “Cari Fanatici” là dove il grande scrittore fa riferimento a un ostrakon trovato a Khirbet Qalifa (e non semplicemente Khirbet come scrive Mancuso, che per paradosso in ebraico e in arabo significa genericamente “rovina”) che rimanda alla tutela degli oppressi e dei derelitti – ma che come scrive Oz stesso è un testo dal significato controverso e molto congetturale.
Ecco, nel confronto con la Bibbia il presupposto indispensabile per tutti e non solo per la tradizione ebraica è un amalgama di libertà, riconoscimento della nostra imperfezione e coscienza della complessità di un testo che ti lascia tutta la libertà di questo mondo tranne una: quella di togliere o aggiungere, di scegliere o scartare. Di dire che lì è buona e là meno. Prendere o lasciare, voltare e rivoltare ma senza giudicare – né il prima né il dopo del testo stesso.