Luca Zevi si confessa con Matteo Di Figlia per la rivista Keshet. Difende il matrimonio ebraico (endogamia), ma sostiene che la dirigenza ebraica oggi sia integralista. Il diritto di Israele a esistere viene dalla Shoah. Un ebreo insomma che non ha ancora letto George Bensoussan (clicca qui)
Riguardo al dibattito su Israele nel corso della Prima Repubblica, mi racconta la sua esperienza a partire dal momento che ritiene più significativo?
Essendo nato nel mondo libero, mi considero membro della generazione forse più fortunata di quasi seimila anni di storia ebraica. È una generazione che nasce immediatamente dopo la Shoah, dunque in un’epoca nella quale le pulsioni antisemitiche sono forzatamente inibite: una specie di sospensione a fronte di quello che nessun negazionismo è riuscito finora a negare come il più spaventoso crimine della storia umana. Questo significa non avere mai sofferto, nel corso della mia vita, per il fatto di essere ebreo.
L’altra ragione, non meno importante, di questa grande fortuna è la nascita, poco più di un anno prima della mia, dello Stato di Israele: il coronamento del sogno plurimillenario di riavere una patria ebraica, un porto sicuro dove poter riparare nel caso in cui la situazione nel mio Paese fosse cambiata in peggio, un luogo nel quale di tutto avrei potuto essere imputato, meno che di essere ebreo. Una sensazione di ‘spalle protette’ che purtroppo non avevano conosciuto i miei antenati per due millenni e in particolare i sei milioni di correligionari appena sterminati nei Lager nazisti.
Non solo non soffrivo alcuna forma di discriminazione in Italia, a casa mia, ma partecipavo all’entusiasmo di vedere finalmente risorgere uno Stato ebraico. Un entusiasmo che ha evitato il precipitare del popolo ebraico in una depressione plurisecolare ― come era accaduto all’indomani della cacciata dalla Spagna a seguito della Reconquista cristiana ―, a causa della necessità di mobilitarsi immediatamente a sostegno dei fratelli che, con il coraggio della disperazione di tutti noi, combattevano eroicamente nel Vicino Oriente perché la Shoah non potesse davvero verificarsi ‘mai più’ in alcun angolo del mondo.
Anche se il ruolo storico della fondazione dello Stato di Israele nel 1948 fosse stato solo questo ― impedire alla generazione dei miei genitori di abbandonarsi a un pianto inarrestabile per quanto era appena accaduto ―, ne sarebbe comunque valsa la pena. Voglio sottolinearlo oggi con particolare vigore, in un momento in cui il drammatico arenarsi del processo di pace in Medio Oriente lascia intravedere la prospettiva tragica (speriamo smentita) di una popolazione israeliana che, pur rimanendo certamente fino all’ultimo uno scudo per qualunque ebreo in pericolo a qualsivoglia latitudine, rischia di trasformarsi nel giro di qualche decennio nella comunità ebraica a più alto rischio di sopravvivenza. Se così dovesse essere (ripeto, Dio ce ne scampi!), anche lo Stato di Israele finirebbe nell’interminabile elenco dei tentativi, falliti dagli ebrei, di diventare ‘normali’.
Al senso di sicurezza si coniugava, nel corso di quei primi decenni della mia esistenza, una sensazione di orgoglio per le caratteristiche marcatamente laiche e socialiste dello Stato di Israele, che infatti nei suoi (e miei) primi vent’anni di vita godeva della simpatia e del sostegno delle forze ‘progressiste’ internazionali.
Un idillio cui pone termine bruscamente, nel giugno del 1967, la Guerra dei sei giorni, che noi ebrei vivemmo come un’aggressione al giovane Stato non ancora ventenne da parte delle nazioni arabe confinanti. La sinistra comunista, maggioritaria in Italia e appiattita sulla politica imperiale sovietica, vi lesse al contrario un’aggressione agli Stati arabi neo-indipendenti da parte di uno Stato di Israele longa manus delle potenze imperialistiche occidentali.
Per noi ebrei il risultato di quel conflitto fu la miracolosa sopravvivenza di una creatura nata da poco, che nel giro di meno di due decenni aveva rischiato di soccombere per la seconda volta; per gli esponenti della sinistra comunista, nella quale peraltro molti di noi militavano, una vittoria della reazione imperialista sugli Stati arabi, visti come espressione della lotta di emancipazione dei Paesi del Terzo mondo.
Naturalmente le due letture in qualche modo erano vere entrambe: non c’è dubbio che Israele abbia rischiato di non sopravvivere a quella guerra; è anche vero però che a quel punto, più per mancanza di alternative che per scelta, Israele si è sempre più legato all’Occidente in quanto osteggiato da un mondo sovietico che aveva deciso di giocare la carta della penetrazione nel mondo arabo attraverso l’appoggio ai giovani Stati post-coloniali.
E allora ecco la doppia militanza. Da un lato ero un ebreo profondamente identificato con Israele; dall’altro ero militante di una nuova sinistra con forti accenti terzomondisti, che guardava con comprensibile simpatia ai popoli oppressi che si ribellavano e tentavano di conquistare la propria indipendenza contro il campo neo-colonialista, di cui Israele non poteva non far parte pena la propria sopravvivenza.
Questa necessità, purtroppo, da allora non è mai venuta meno, costringendo Israele, come tutti gli Stati del mondo, a scendere a compromessi con i principi per difendere il proprio diritto a esistere. Valga per tutti la questione del genocidio degli armeni: chi dovrebbe per primo non solo riconoscere, ma denunciare con la massima fermezza quel tentativo di cancellazione di un popolo, se non coloro che poco dopo hanno subito ben più tragicamente lo stesso destino, e dunque in primis lo Stato nato dalle ceneri del più imponente sterminio della storia? Eppure Israele non può farlo, perché in questo modo metterebbe a repentaglio l’alleanza con la Turchia, un lusso che non può in nessun modo concedersi.
A partire dalla Guerra dei sei giorni, in noi ebrei schierati a sinistra si è ingenerata questa sorta di schizofrenia che a tutt’oggi è ben lungi dall’essersi ricomposta.
Cioè l’essere di sinistra, e contemporaneamente condividere le ragioni di Israele …
Nel 1982 questa lacerazione conosce una fase di particolare acutezza. In un momento in cui il terrorismo palestinese non era particolarmente virulento, il governo di Gerusalemme decise di invadere il Libano con l’obiettivo dichiarato di procedere a una ‘soluzione finale’ del problema palestinese.
Una decisione che spaccò in due anzitutto la popolazione israeliana, ma generò una forte indignazione anche in larghi settori della diaspora ebraica. Espressione di quell’indignazione è un appello, pubblicato sul quotidiano La Repubblica, che promuovemmo con Primo Levi, Edith Bruck, Natalia Ginzburg, Giacoma Limentani e tanti altri ebrei italiani per chiedere, proprio in quanto ebrei orgogliosi delle nostre tradizioni, il ritiro immediato delle truppe israeliane dal Libano. Le stragi di Sabra e Chatila, perpetrate da cristiani libanesi sotto lo sguardo complice dell’esercito israeliano invasore, non fecero che rinfocolare lo sdegno, in Israele e nella diaspora.
Anche in quella circostanza, che aveva visto per la prima volta degli ebrei della diaspora criticare apertamente le scelte di un governo di Israele, ricevemmo dalla sinistra italiana brutte sorprese: non solo il linguaggio della stampa ‘progressista’ nel condannare l’invasione israeliana del Libano era inaccettabile (c’era un gusto veramente sadico nell’usare a sproposito termini quali “nazista” o “sterminio”, dettato forse da un bisogno di scaricarsi la coscienza dalle complicità dell’Italia fascista con la Germania nazista), ma la nostra lacerantissima decisione di criticare apertamente e in quanto ebrei la politica del governo israeliano ― anche a seguito della straordinaria mobilitazione pacifista nelle piazze israeliane ― non venne letta per quello che era, un atto di coraggio in nome dei grandi valori umanistici propri alla tradizione ebraica, ma come l’anticamera di una sorta di rottura del nostro rapporto con lo Stato ebraico, al quale tutti gli ebrei di sinistra avrebbero dovuto sottoporsi.
Ancora un atteggiamento irresponsabile, che condusse all’allontanamento di ulteriori esponenti dell’ebraismo italiano ― dopo quello massiccio seguito alla guerra del ’67 ―, come Giorgio Israel, scandalizzato da una sorta di obbligo di partito a firmare il nostro appello contro l’invasione del Libano nel 1982, o all’evoluzione (involuzione?) politica di Fiamma Nirenstein, il cui passato atteggiamento radicalmente critico si è trasformato nel tempo in una altrettanto radicale difesa unilaterale e assoluta delle ragioni dello Stato di Israele.
Per noi che continuammo, nonostante tutto, ad appartenere alla sinistra, iniziò in quel momento un durissimo lavoro di ‘educazione’ della nostra parte politica, portato avanti da gruppi ebraici ‘progressisti’ sorti in varie città: se oggi la sinistra, paradossalmente, è molto meno ostile a un Israele che ha perduto quasi tutti i connotati ‘socialisti’ di quanto non lo fosse quando quei connotati erano fortissimi, lo si deve certamente in primo luogo alla caduta dell’impero sovietico ― e al preoccupante declino della solidarietà nei confronti degli oppressi ―; ma lo si deve anche a quell’oscuro lavoro di persuasione sulle ragioni dell’esistenza dello Stato di Israele che è stato condotto da tanti ebrei italiani nel corso degli ultimi decenni, sulla scia di un processo di pace in Medio Oriente che, ancora alla svolta del millennio, sembrava destinato a giungere in tempi brevi a una conclusione positiva.
Una conclusione positiva che, invece, non è mai arrivata: le resistenze all’interno di Israele alla rinuncia ai territori occupati nel 1967 ― che conobbero nell’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995 l’episodio più tragico ―, da una parte, e l’incapacità della dirigenza palestinese di cogliere le occasioni probabilmente irripetibili che le venivano offerte di giungere alla proclamazione di una propria autonomia nazionale universalmente riconosciuta, dall’altra, condussero nel settembre del 2000 allo scoppio della seconda intifada, caratterizzata in primo luogo dalla moltiplicazione di azioni terroristiche contro la popolazione civile all’interno dello Stato di Israele.
In quel momento cambiò tutto: l’incagliamento del processo di pace e il dilagare delle stragi di civili israeliani, e delle rappresaglie conseguenti, determinarono inevitabilmente una crisi delle spinte pacifiste tanto nel campo israeliano, quanto in quello palestinese. E, si parva licet, dei gruppi pacifisti ebraici della diaspora, particolarmente attivi nel corso del ventennio segnato dalle grandi speranze accese dal processo di pace in Medio Oriente.
Quella crisi ci indusse al silenzio perché, a partire dal 1982, ci eravamo sempre mossi a sostegno del movimento pacifista israeliano, per cercare di farne prevalere le ragioni su quelle più intransigenti.
Ebbene, nel momento in cui quella componente, maggioritaria fino allo scoppio della seconda intifada, era stata di fatto spazzata via, a noi ‘ebrei progressisti’ non interessava, e continua a non interessarci, fare la parte dei ‘grilli parlanti’ che spiegano al governo israeliano, dalla propria comoda posizione diasporica, quale politica dovrebbe sviluppare per giungere alla pace.
Il 1982 è anche l’anno dell’attentato al tempio di Roma.
L’attentato alla sinagoga di Roma è stato un evento tragico per le sue conseguenze pratiche ― un bambino ucciso e numerosi feriti ― e per la reazione di rigetto nei confronti delle istituzioni e degli organi di informazione che generò negli ebrei romani. Contro le istituzioni, perché avevano accolto con particolare calore il leader dell’Olp Yasser Arafat, quando ancora sulla carta costitutiva di quell’organizzazione compariva l’obiettivo della distruzione dello Stato di Israele. Contro gli organi di informazione, che avevano usato frequentemente un linguaggio scandaloso che arrivava a paragonare l’esercito israeliano a quello nazista e l’operazione ‘Pace in Galilea’ allo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Come se ciò non bastasse, poco prima, nel corso di una manifestazione sindacale, una ‘scheggia’ del corteo aveva deposto una bara davanti alla sinagoga, con il chiaro intendimento di coinvolgere gli ebrei romani nella responsabilità delle scelte del governo di Israele.
Questa campagna martellante di omologazione delle vittime di ieri ai loro carnefici fu vissuta dagli ebrei romani come un’offesa imperdonabile al punto che giunsero a impedire l’accesso al quartiere ebraico, nel momento della disperazione per le conseguenze dell’azione criminale di un commando palestinese, a tutti i rappresentanti istituzionali, fino al Presidente della Repubblica Sandro Pertini, e a tutti i giornalisti per vari giorni, fino alla celebrazione dei funerali.
Naturalmente fui preso di mira anch’io, come ebreo di sinistra firmatario dell’appello che, qualche mese prima, aveva criticato apertamente l’invasione israeliana del Libano.
In che senso lei fu preso di mira?
Quando mi giunse la notizia dell’attentato, mi precipitai alla sinagoga e lì qualcuno mi disse: “beh, sarai contento adesso”, quasi che criticare una particolare scelta del governo israeliano equivalesse a schierarsi dalla parte del terrorismo palestinese. Altri furono addirittura aggrediti fisicamente.
Noi firmatari dell’appello contro l’invasione del Libano fummo paragonati agli ebrei che, durante il regime fascista, avevano dato vita alla rivista La Nostra Bandiera con lo scopo dichiarato di definirsi italiani ebrei e non ebrei italiani.
Il nostro pronunciamento venne interpretato come una volontà di prendere le distanze da uno Stato di Israele che non andava più di moda, mentre in realtà produsse un avvicinamento all’ebraismo di molte persone di sinistra, mai in precedenza dichiaratesi ebree, che furono attratte proprio da una varietà di culture e posizioni politiche, presenti nell’ebraismo italiano, che non conoscevano e non sospettavano.
Le persone che in sinagoga nell’82 le rivolsero quelle battute, per chi votavano?
Votavano prevalentemente il Partito repubblicano, divenuto maggioritario fra gli ebrei dopo il ’67 per le sue posizioni coerentemente filoisraeliane, duramente combattute dalla sinistra comunista. L’altro partito che ha costituito un punto di riferimento importante è il Partito radicale, che sposava la difesa intransigente dei diritti dello Stato di Israele alla battaglia altrettanto intransigente per i diritti umani. L’attuale gruppo dirigente della comunità ebraica di Roma ha molto appreso dalla capacità di Marco Pannella & Co. nel condurre fino in fondo battaglie durissime anche in condizioni di assoluta minoranza. Dalla loro difesa dei diritti umani di chiunque, amico o nemico che sia, un po’ meno.
Mentre lei votava comunista?
Sì, ho votato per il Pci, per il Pds, per i Ds e ora per il Partito democratico, senza entusiasmo ma nella convinzione che il meno peggio sia comunque molto preferibile al peggio. A volte ho votato per il Partito radicale, quando si è candidato autonomamente o all’interno dello schieramento di sinistra (mai ovviamente, quando si è alleato con Berlusconi).
Non mi sono iscritto ad alcun partito, ma sono fiero che mio figlio militi nel Partito democratico e faccia parte dello staff dell’attuale presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti.
È aumentata negli ultimi anni l’identificazione degli ebrei italiani con lo Stato di Israele?
Tutti sentiamo che gli israeliani combattono anche per noi. Nel momento in cui, a volte, ho espresso delle posizioni critiche, l’ho fatto nel solo spirito di contribuire a un futuro di pace per i fratelli israeliani, non certo per tirarmi fuori.
Oggi è maturata in Italia una dirigenza ebraica caratterizzata da un’adesione tendenzialmente integralista alla tradizione ebraica e da un sostegno acritico a qualunque presa di posizione di qualunque governo di Israele.
La mia identità ebraica è più articolata e molteplice, ma non per questo più fragile. La condivido con tanti che si sono sentiti meglio rappresentati in passato da un’attitudine più problematica, e non per questo compromissoria.
Stesso discorso vale per il mio sostegno incondizionato all’esistenza dello Stato di Israele, che però può divenire critico nei confronti di singole scelte di singoli governi israeliani.
Oggi c’è una tendenza a tacciare di antisemitismo chiunque osi elevare una qualsivoglia critica a una qualsivoglia scelta di un qualsivoglia governo di Israele.
So bene quali pulsioni antisemitiche si celino troppo spesso dietro troppe fiere espressioni di antisionismo. Dunque considero decisamente antisemita qualunque messa in discussione della legittimità e della necessità storica dell’esistenza dello Stato di Israele.
Cionondimeno, considero legittima una critica equilibrata alle scelte di un governo israeliano, come di un qualsiasi altro governo, sia che provenga dall’interno del mondo ebraico, sia dall’esterno.
Ritiene sia stata intrapresa anche una diversa politica identitaria da parte della leadership comunitaria?
La componente oggi egemone all’interno del mondo ebraico italiano organizzato sta portando avanti una politica più restrittiva riguardo all’osservanza delle regole rituali e, in particolare, all’atteggiamento verso i matrimoni misti (con uno dei due coniugi non ebreo) e all’educazione ebraica dei figli nati da tali matrimoni.
Si tratta di una questione davvero complicata. Credo che la dichiarata ostilità a ogni forma di proselitismo, da un lato, e la pratica dell’endogamia, dall’altra, siano state dettate al popolo ebraico da altrettante necessità storiche. La particolarità degli ebrei, rispetto ad altri popoli discriminati e oppressi, risiede a mio parere nella capacità sempre dimostrata di fare di necessità virtù, di trasformare le molte imposizioni subite in altrettanti valori.
Gli ebrei nell’antica Roma praticavano il proselitismo come tutte le altre fedi. Una volta ricevuto, con la definitiva affermazione del cristianesimo in occidente, l’interdetto a farlo, hanno trasformato questa impossibilità di proporre il proprio credo al prossimo in rispetto dell’altro, in ricerca di un dialogo con l’altro per come l’altro è, non per assimilarlo a se stessi.
Quando mi è stato chiesto perché mi riconosco nella tradizione ebraica, ho sempre risposto: “perché gli ebrei non fanno proselitismo”. Mi sono occupato abbastanza di intolleranza per capire che quasi sempre alla radice del proselitismo c’è la pretesa che il proprio messaggio sia superiore a quello degli altri e che in nome di questa superiorità si abbia il diritto di cercare di persuadere gli altri ad abiurare la propria fede originaria per abbracciare la nostra, con le buone ma anche, fatalmente, con le cattive.
Di conseguenza, apprezzo profondamente la persistente attitudine degli ebrei, anche in un periodo nel quale in buona parte del mondo non ci sarebbe impedito, di continuare non solo a non incoraggiare, ma anche a disincentivare quanti esprimono il desiderio di convertirsi all’ebraismo. Un’attitudine che mi pare una dichiarazione di interesse verso l’aspirante converso per ciò che egli è e non per la possibilità che offre di essere assimilato a noi.
Nondimeno ritengo che anche questa attitudine vada declinata a seconda delle diverse contingenze storiche. In riferimento al nostro tempo, in particolare, dobbiamo rilevare che in buona parte del mondo negli ultimi decenni (certo, non sappiamo per quanto tempo ancora in futuro) la condizione ebraica non è disagiata e anzi, di fronte a trasformazioni e migrazioni vertiginose che stanno facendo a pezzi tutte le identità stanziali, il messaggio ebraico e soprattutto la lunga esperienza esistenziale a- stanziale degli ebrei, con il ‘pensiero mobile’ che ne è derivato, sono venuti a costituire per un numero non indifferente di non ebrei una sorta di bussola utile all’attraversamento di un mare in tempesta.
In questa condizione penso che dobbiamo continuare a non praticare alcuna forma di proselitismo, da un lato, e a proporre un lungo periodo di preparazione a chi chiede di entrare a far parte del popolo ebraico, se non altro perché possa comprendere appieno in cosa consiste la pratica quotidiana di un ‘monoteismo integrale’, da una parte, e che cosa ha comportato, e potrebbe di nuovo comportare in futuro, l’appartenenza a questo popolo (Auschwitz e dintorni).
Nel momento in cui, però, l’‘insano’ aspirante si mostri animato da sincero desiderio di prendere parte a tale singolare destino, sono favorevole ad accoglierlo con gioia.
Analogamente, per quanto riguarda l’endogamia: quando si è discriminati, si sa bene che inevitabilmente, in caso di unione fra un esponente della maggioranza dominante e uno della minoranza oppressa, la coppia opterà ‘saggiamente’ per il credo maggioritario (e privilegiato), interrompendo la catena di trasmissione della tradizione che è alla radice della sopravvivenza del popolo ebraico nei secoli e nei millenni, a onta di discriminazioni e persecuzioni. In tali condizioni di inferiorità il precetto dell’endogamia è dettato da pure ragioni di sopravvivenza, e qualunque critica al riguardo risulta puramente astratta e preconcetta.
La questione che si pone oggi (non certo per la prima volta nella storia) è: quando ci si trova a vivere un’epoca fortunata come quella che è toccata in sorte alla mia generazione, se un non ebreo intende unirsi a un’ebrea, o viceversa, accettando di dar vita a una famiglia ebraica ed educandone i figli seconda la tradizione, va accolto/a? A mio parere, una volta sinceratisi della serietà del suo impegno, la risposta è sì, tanto nell’eventualità che egli/ella intenda convertirsi all’ebraismo, quanto nel caso in cui voglia contribuire senza riserve alla costruzione di una famiglia ebraica senza procedere alla sua personale conversione.
Lei è religioso?
Non molto, ma sono profondamente grato a mia moglie per aver trasmesso ai miei figli la gioia di appartenere alla tradizione ebraica.
Quindi le sue frequentazioni del tempio…
Sono un ebreo romano tradizionale, che va in sinagoga soltanto per le grandi festività. Uno di quelli che fanno giustamente dire all’attuale rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni che la tradizione ebraica romana è costituita da tutto quello che non si fa!
Non faccio una bandiera di questo mio modo di essere e rispetto profondamente coloro che praticano e studiano più di me, soprattutto se non si propongono come modelli di comportamento, divenendo così intolleranti verso chi, come me, non ha le loro stesse abitudini.
Parla l’ebraico?
No, purtroppo, e sono felice che mia figlia abbia appena frequentato un corso intensivo di ebraico a Tel Aviv.
Il confronto di posizioni all’interno del mondo ebraico investe anche il terreno della memoria?
Certamente. Sono progettista del Museo Nazionale della Shoah di Roma perché, quando l’onorevole Veltroni era vice-presidente del consiglio e ministro dei Beni Culturali nel primo governo Prodi, maturammo insieme l’idea di un Museo delle Intolleranze e degli Stermini, un luogo nel quale non si sarebbero semplicemente celebrate le vittime e condannati i carnefici succedutisi nella storia, ma si sarebbe cercato di capire come, a ogni latitudine e in ogni popolo, siano andati e vadano generandosi continuamente fenomeni di intolleranza. Partivamo dalla convinzione che il rifiuto dell’altro costituisce una pulsione spontanea e che, se non lavoriamo seriamente, come individui e come collettività, a educarci alla promozione di una società accogliente e pluralista, rischiamo di replicare in altre forme le mostruosità del passato.
Quel progetto di memoria ‘universalistica’ si è poi trasformato, con lo stesso Veltroni sindaco di Roma, in Museo Nazionale della Shoah, nel conformare il quale cerco di far sì che il ricordo dello sterminio non assuma un carattere puramente celebrativo ma, al contrario, contribuisca a educare tutti noi a combattere intolleranze e discriminazioni che, purtroppo, sono drammaticamente presenti anche nel nostro tempo.
La Shoah è certamente il più spaventoso crimine della storia umana. Ma non è facendone un monumento che riscatteremo il tragico destino dei sei milioni di nostri fratelli sterminati nelle camere a gas. Onoreremo la loro memoria se sapremo trarre dal loro sacrificio un impulso inesauribile a comprendere le modalità di sviluppo dei processi di intolleranza per combatterli prima che sia troppo tardi, accettando la dura realtà che purtroppo anche coloro che si sono macchiati dei crimini più atroci, come ha spiegato Hannah Arendt, erano persone normali e molto simili a ciascuno di noi.
C’è una relazione tra questo modo di coltivare la memoria della Shoah e le sue posizioni sul conflitto mediorientale?
Noi ebrei, dopo la Shoah, avevamo diritto alla costituzione di un nostro Stato nella terra da cui è scaturita la nostra cultura e alla quale abbiamo continuato a fare riferimento nel corso di due millenni di diaspora. Il popolo palestinese, se vuole affacciarsi sulla scena della storia come soggetto responsabile, non può negare questo diritto.
Analogamente, però, noi ebrei non dobbiamo ignorare che l’esercizio di questo diritto ha comportato un danno per un altro popolo, che nella disgrazia non ha trovato alcuna reale solidarietà da parte dei suoi ‘fratelli arabi’, così come noi non la trovammo nel corso della seconda guerra mondiale da parte dei nostri ‘fratelli europei’. Di questo dobbiamo farci carico, cercando di addivenire a una soluzione nella quale anche quel danno possa in qualche modo essere risarcito.
Quello che abbiamo subito, in altri termini, ci ha dato dei diritti, ma come sempre anche dei doveri. La Shoah non può essere brandita a giustificazione di scelte sbagliate, ma deve fungere da lezione nella costruzione di un mondo nel quale i diritti di tutti gli individui e di tutti i popoli vengano riconosciuti e rispettati.
Dalla rivista Keshet 16