Il giovane rabbino che ha aperto (qui) il dibattito che agita molti, risponde a Irene Kajon (qui)
Pierpaolo Pinhas Punturello
Sono assolutamente felice che la mia analisi sulla presenza dei gherim in Italia sia stata accolta dalla signora Kajon con rispetto e simpatia. Ripeto che però si trattava di una riflessione in quanto rabbino di Comunità e maestro e non era, la mia, una testimonianza del percorso personale in quanto ebreo per scelta, testimonianza che a dirla tutta non è stata mai sofferta e non definirei neanche toccante. Ad ogni modo credo che le mie esperienze personali rispetto al ghiur aiutino poco nella valutazione del fenomeno che vorrei si affrontasse. In definitiva io sono sì un ebreo per scelta, ma sono anche un rabbino che per tanti anni ha avuto l’onore e l’onere di servire una piccola ma significativa Comunità, quella di Napoli.
Il rispetto e la simpatia che la signora Kajon ha avuto per il mio scritto, le ha fatto anche indirizzare le mie parole verso direzioni che personalmente non ho dato e che tra l’altro sono distanti dalla mia persona, dalla mai storia, dalle mie idee, dall’ebraismo che non solo vivo e pratico ma anche insegno.
Se vogliamo valutare il fenomeno delle conversioni nella sua totalità e nel suo legame complesso e complessivo con le comunità ebraiche di Italia e con i “nati ebrei , dobbiamo valutare tutte le sfumature della identità ebraica e non possiamo assolutamente dimenticare che chi è ebreo per scelta ed ha scelto di esserlo con consapevolezza lo ha fatto principalmente seguendo un ideale religioso e spirituale: non si diventa ebrei perché si ama Woody Allen o si scrive una saggio su Hannah Arendt. Si sceglie l’ebraismo perché si è legati alla Torà, cosa che può creare nella signora Kajon meno simpatie per me, ma non potrei mentire a lei come a tanti altri. E’ poi sottolineata nel suo scritto la mia appartenenza all’ortodossia, cosa vera, verissima, come è vero che anche per reform e conservative il ghiur passa per l’accettazione delle mitzvot e non per un legame storico, culturale, familiare o culinario con l’Ebraismo. Non è questa certo la sede, ma se c’è una distanza fra ortodossia ebraica e mondo conservative o reform non va cercata nell’idea sostanziale del ghiur quanto nella idea delle mitzvot e della loro applicazione, ma tutti i gherim, ortodossi, conservative o reform devono accettare una kabbalat mitzvot, che si differenzia nel suo genere e di quel “genere” potremmo parlarne a lungo.
Chi si converte all’ebraismo, si converte ad una religione e ne abbraccia contemporaneamente storia ed identità, ma per chi si converte senza alcuna connessione religiosa non esiste storia e non esiste identità: sono ebreo per scelta perché credo nel Dio di Israele in quanto Dio dell’Universo e sono ebreo come lei cara signora Kajon perché il mio destino ed il suo destino sono indissolubilmente legati, come quello di Rut e Noemi, quando Rut afferma: “ il tuo popolo è il mio popolo, il tuo Dio è il mio Dio” ( Rut. 1, 16) In maniera modernamente identitaria Rut pone il popolo, l’appartenenza nazionale (forse laica?) prima di Dio, ma Dio non può non esserci nelle affermazioni, nella vita e nella pratica di chi ha scelto Israele come propria casa e casa dei propri figli. Potremmo stare per ore ed ore a parlare della vita o dell’identità ebraica di Herzl o della ipotesi di folle di chassidim che lo hanno seguito, come potremmo stare ore a discutere dell’identità ebraica di Buber, di Kafka, dei sionisti tedeschi come Blumenfeld o della tragedia identitaria di Stefan Zweig, ma questo aiuterebbe la vita delle piccole o piccolissime comunità italiane dove se ancora esiste una decente ( ripeto l’uso del termine) vita ebraica, questa è reale anche grazie ai gherim ed al loro apporto religioso, identitario ma anche banalmente numerico?
Il punto identitario non è racchiuso solo nelle mura della Sinagoga, ma passa per essa così come passa per il futuro dell’Ebraismo che se si fossilizza nella sola appartenenza senza agire per l’appartenenza rischia di diventare sciovinismo ebraico, rischia di essere un elitarismo identitario e non una identità complessa e viva come quella alla quale noi apparteniamo e per la quale siamo chiamati entrambi alla responsabilità. Sono accusato, pur con simpatia e rispetto, di aver espresso me stesso con una punta di superiorità, credo allora di essermi espresso male o di essere stato letto male, poco importa. Sicuramente io credo in un ebraismo superiore, che però non è sciovinista e non è razzista, è una legge di vita, di ogni vita, laica o religiosa che sia. Un ebraismo che non è un “fantasma di giudaismo” parafrasando Kafka ed il suo rapporto con la Sinagoga, quella stessa Sinagoga dove è stata salvaguardata, nostro malgrado, la cultura alla quale apparteniamo.
Probabilmente mi si farà notare che nelle Sinagoghe è stata salvaguardata la sola cultura religiosa e non certo gli altri aspetti dell’ebraismo, eppure una ebrea laica, qualche decennio fa si rese conto che verso gli uomini che hanno conservato questa cultura nella sua identità e nella sua storia spirituale, bisognava avere un “grande debito di gratitudine” . La donna in questione era Hannah Arendt, la stessa donna che fu accusata dall’amico Ghershom Scholem di non possedere ahavat Israel ed al quale ella rispose: “Non sono animata da alcun amore di questo genere e ciò per due ragioni: nella mia vita non ho mai amato nessun popolo o collettività-né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la classe operaia[…] Questo “amore per gli ebrei” mi sembrerebbe, essendo io stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto. Non posso amare me stessa o qualcosa che so essere parte essenziale della mia persona.”
Mi si perdoni, cara signora Kajon, se le rispondo usando le stesse parole di Hanna Arendt, ma dalle colline di Gerusalemme dove abito con mia moglie ed i miei quattro figli, le dico che io non amo il mio popolo, bensì vivo, studio, lavoro e mi adopero affinché cresca, si sviluppi, progredisca, con il resto della Umanità, ovunque esso si trovi, in Israele, come a Roma, come a Milano, come a New York, come a Napoli. E quando uso la parola popolo, non bado né ai nomi né ai cognomi, questo probabilmente fa di me un pariah, un pariah consapevole nella sua scelta di vita ed ancora una volta mi si perdoni la citazione dagli scritti di Hannah Arendt: “Tutte le vantate qualità ebraiche – il “cuore ebraico”, l’umanità, lo humour, l’intelligenza disinteressata – sono qualità del pariah. Tutti i difetti ebraici – la mancanza di tatto, la stupidità politica, i complessi di inferiorità e l’avidità di denaro – sono caratteristiche dei nuovi ricchi. Ci sono sempre stati ebrei convinti che non valesse le pena scambiare la loro umanità e la loro innata capacità di comprendere la realtà con la grettezza dello spirito di casta.[…]”.
Cara Signora i convertiti sono come spine, perché a volte sono ebrei consapevoli, talmente tanto da saper leggere qualcosa d’altro oltre il Talmud.