Rav Sacks scrive che il giorno di Kippur, senza ombra di dubbio la più sentita fra le nostre solennità, presenta degli aspetti paradossali. In assenza totale di cibo, è una giornata dedicata interamente alla preghiera e all’introspezione, mentre ripetutamente nelle nostre preghiere riconosciamo le nostre colpe e chiediamo ad H. di essere scritti nel libro della vita. Il suo impatto sull’immaginazione è imponente, tanto che le sinagoghe sono affollate, in ogni parte del mondo, più di ogni altra occasione nel calendario. Kippur ci impegna seriamente da un punto di vista emotivo, ma, – è innegabile – ci infonde un senso di purificazione, e questo è il motivo principale per cui oggi siamo qui.
Il perdono divino ci consente di essere onesti con noi stessi e valutare cosa siamo e come conduciamo la nostra vita. Riconosciamo le nostre mancanze e ammettiamo i nostri fallimenti. Questo non è il momento per cercare giustificazioni verbose. Non siamo perfetti, né come individui, né come popolo. Siamo degli imputati, ma sappiamo tutti perfettamente che il nostro giudice al contempo è un padre amorevole. D. è adirato, – e come non potrebbe esserlo? – ma perdona, e questo momento rappresenta, secondo la nostra tradizione, la massima espressione della capacità divina di perdonare. Avinu Malkenu – D. è nostro re, ma è anche nostro padre, pure se non siamo riusciti amorevolmente a fare quanto ci ha chiesto. Kippur è un’esperienza che può segnare profondamente la nostra vita: D. non ci chiede di non commettere errori, ma di riconoscerli, imparare da loro, crescere e cambiare dove possiamo.
L’ebraismo è un modo di vivere esigente, che ci mette continuamente alla prova, e in questo risiede la sua grandezza. Kippur, sebbene abbia delle radici antichissime, può però anche insegnare molto a noi moderni: la Torah nella parashah di Acharè Mot descrive dettagliatamente il rituale che il Sommo Sacerdote compieva nel giorno di Kippur; entrava nel Santissimo ed espiava i peccati della nazione, e così fu per gran parte del periodo biblico. Ma poi d’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, venne la tragedia: il fallimento della rivolta contro Roma condusse rapidamente alla distruzione del Bet ha-Miqdash. Tutti gli elementi che caratterizzavano un certo mondo, il Santuario, il Sommo Sacerdote, i sacrifici, il capro espiatorio, tutto questo non c’era più in modo irreparabile. E’ evidente che la distruzione del Tempio rappresentò per il popolo ebraico un dramma senza precedenti. E’ vero, Israele secoli prima ci era già passato, il primo Tempio era stato distrutto, ma il popolo era sopravvissuto a questa tragedia. I profeti portarono speranza. Le profezie sulla distruzione, che puntualmente si avverarono, avvalorarono quelle relative al ritorno. Ma questa volta l’ascesa di Roma appariva inarrestabile. La gravità della crisi fu confermata dal fallimento della rivolta di Bar Kokhbà. Così iniziò la lunga fase dell’esilio del popolo ebraico. Senza Santuario, senza Sommo Sacerdote, cosa ne sarebbe stato di Kippur, la massima espressione di un certo mondo che ormai non esisteva più? Proprio allora avvenne una rivoluzione in seno al pensiero ebraico. I Chakhamim, primo fra tutti R. Aqivà, arrivarono alla conclusione che, in assenza del Sommo Sacerdote, qualunque ebreo avrebbe potuto, attraverso la preghiera, il pentimento e la carità, giungere al medesimo risultato, l’espiazione delle colpe.
Ogni luogo nel quale gli ebrei si riuniscono per pregare svolge la stessa funzione del Tempio di Gerusalemme; ogni preghiera è paragonabile ad un sacrificio; ogni ebreo è un Sommo Sacerdote. L’effetto sul popolo ebraico non fu meno stupefacente. Un popolo ribelle, che cadeva continuamente nell’idolatria, suscitando ripetutamente l’ira dei profeti, riuscì a divenire il popolo più fedele della storia, un popolo che ha conservato la sua identità per due millenni in esilio pur essendo una minoranza dispersa, un gruppo che ha resistito all’assimilazione da parte della cultura dominante e alle spinte conversionistiche. Come è stato possibile che una tragedia religiosa desse luogo alla riscossa spirituale? Questo è dipeso proprio dall’assenza del Sommo Sacerdote. La responsabilità di raggiungere il perdono ricade ora su ogni ebreo, individualmente e collettivamente. La confessione delle colpe non è un fatto privato, che si svolge in un buio confessionale. La vera rivoluzione compiuta nel mondo ebraico è quella dell’attribuzione della responsabilità. La nostra società si muove esattamente nella direzione opposta, tendiamo ad attribuire tutto allo stato. L’accento è quasi sempre posto sui diritti, non sulle responsabilità. Se le cose vanno male, qualcun altro ci metterà una pezza. I risultati non possono essere migliori di quelli che, nel nostro piccolo, abbiamo ottenuto quando c’era il Sommo Sacerdote, sospendendo la responsabilità. Certo, i sintomi sono differenti, non ci troviamo più ad affrontare l’idolatria, ma i nostri nuovi problemi sono la rottura dei legami familiari, la perdita dell’idea di comunità, la diffusione del consumismo e del relativismo morale, ma dobbiamo essere franchi nel riconoscere che, pensando al nostro mondo, ci troviamo di fronte ad una società in declino. Per poterci riprendere dobbiamo insistere quanto possibile, sulla scorta dell’evoluzione del senso del giorno di Kippur, sull’idea di responsabilità morale. Più ne abbiamo, più possiamo crescere.
Shanah tovah e gmar chatimah tovah a tutti.