La parte culminante della nostra parashà è l’episodio del vitello d’oro e la contrattazione di Mosè con D-o, per far perdonare il popolo.
In questo lungo brano della Torà, possiamo notare come un uomo, attraverso il suo comportamento, riesca a far cambiare un decreto che D-o aveva già emanato nei confronti di Israele.
La tefillà è il mezzo che ha la forza di cambiare persino le sentenze divine. La tefillà non deve essere un qualcosa di meccanico o automatico, che noi recitiamo soltanto perché dobbiamo assolvere il nostro dovere, ma un qualcosa di estremamente forte, tanto da sfondare le barriere che ci dividono da una dimensione sacra.
“al taas tefillatekhà keva ellà rachamim vetachanunim lifnè ha Makom – non fare della tua preghiera una cosa consueta, ma richiesta e supplica davanti all’Eterno”(avot 2); è così che i maestri della mishnà ci ammoniscono.
La tefillà, non solo quella di Mosè sul Monte Sinai, ma quella di ogni essere umano, deve essere pronunciata con estrema concentrazione: la cavvanà.
Nella tradizione dei maestri della mishnà, si usava essere in sinagoga un’ora prima dell’inizio della tefillà, per concentrarsi: “chakhamim rishonim hajù shoim shaà achat lifnè ha tefillà – gli antichi maestri stavano (in sinagoga) un’ora prima dell’inizio della preghiera”. Questo perché, quando un ebreo vuole esprimere a D-o le sue necessità, riesce soltanto quando è particolarmente concentrato.
Nei jamim noraim – i giorni penitenziali, rosh ha shanà e kippur – diciamo che la tefillà, insieme alla zedakà ed alla teshuvà, hanno la potenza di cambiare ciò che D-o avrebbe deciso di mandare di non buono agli uomini.
L’episodio del “vitello d’oro” e la conseguente tefillà di Mosè, ne sono l’esempio lampante della forza di un uomo, di ottenere il bene per gli altri, cambiando persino una decisione divina.
Shabbat shalom