כי תהיינה לאיש שתי נשים האחת אהובה והאחת שנואה וילדו לו בנים האהובה והשנואה והיה הבן הבכור לשניאה. והיה ביום הנחילו את בניו את אשר יהיה לו לא יוכל לבכר את בן האהובה על פני בן השנואה הבכר. כי את הבכר בן השנואה יכיר לתת לו פי שנים בכל אשר ימצא לו כי הוא ראשית אנו לו משפט הבכורה.
“Qualora un uomo abbia due mogli, una che ama e l’altra per la quale prova avversione, e queste gli abbiano generato figli – sia quella amata che quella disprezzata – e il primogenito appartiene a quella che disprezza – allora, quando dovrà trasmettere in eredità ai figli ciò che possiede, non potrà attribuire il diritto di primogenitura al figlio della moglie che ama a fronte del figlio di quella che detesta che è il vero primogenito. Egli dovrà invece riconoscere come primogenito il figlio della donna che detesta dandogli una porzione doppia di tutto quello che si troverà ad avere, perché lui è il primo frutto del suo vigore e a lui spetta la normativa del primogenito” (Devarim 21, 15-17).
La Parashat Ki Tetzè è una Parashah che definiremmo “legislativa”: contiene ben 74 Mitzwòt. Di esse il brano relativo ai diritti del primogenito suscita attenzione. I commentatori stessi affermano che esso fa riferimento a una società molto antica, di tipo patriarcale. I versetti parlano di poligamia, un istituto abbandonato da secoli. Ma colpisce noi moderni anche il mishpat ha-bekhorah, “la normativa del primogenito” per cui questi ha diritto a parte doppia dell’eredità spettante a ciascuno dei suoi fratelli.
Troviamo un’espressione analoga nella Parashah di Shabbat scorso, dove si parla di mishpat ha-kohanim (18,3). E in effetti c’è chi spiega questa regola con il fatto che nell’epoca che precedette il Vitello d’Oro i primogeniti erano i depositari del culto, avevano la funzione di Kohanim per il resto della famiglia. Come tali non si dedicavano ad attività produttive materiali e avevano bisogno di vedersi garantito il sostentamento a priori. Proprio come in epoca più tarda i Kohanim che vivevano di decime e offerte.
Il Midrash racconta di quando i figli di Ishma’el si presentarono da Alessandro Magno rivendicando per se stessi il diritto di primogenitura nei confronti di noi Ebrei. “La Terra di Israele è nostra non meno di quanto appartiene a voi, dal momento che siamo tutti figli di Avraham. Non è forse scritto nella vostra Torah che il padre ‘non potrà attribuire il diritto di primogenitura al figlio della moglie che ama (Itzchaq) a fronte del figlio di quella che detesta (Ishm’ael) che è il vero primogenito’”? Gli Ebrei risposero: “Anche noi abbiamo un versetto che prova il nostro assunto: ‘E Avraham donò tutto ciò che aveva a Itzchaq’(Bereshit 25,5)”. Gli Ishmaeliti domandarono: “E dov’è il documento che comprova che si è trattato di una donazione in vita e non di una successione?” Gli Ebrei risposero: “E’ scritto subito dopo: ‘E anche ai figli delle concubine Avraham fece dei doni” (v.6). Gli Ishmaeliti batterono in ritirata (Bereshit Rabbà 61,7; cfr. Sanhedrin 91a).
Nel suo ultimo libro “Not in God’s Name” (2015), l’ex Rabbino Capo del Regno Unito Rav Jonathan Sacks, una delle figure di maggiore spicco nel pensiero ebraico contemporaneo, affronta il problema della violenza religiosa. Freud, sulla scia del pensiero greco, colloca nel complesso di Edipo l’origine degli umani conflitti. Essi risalirebbero al difficile rapporto fra genitori e figli. Rav Sacks rivaluta invece la teoria di René Girard che individua il problema nella rivalità fra fratelli. Tale rivalità si esprime anzitutto nel desiderio di imitazione reciproca, per cui ciascuno dei fratelli desidera ciò che hanno gli altri. E’ la visione ebraica del problema. A partire dal libro di Bereshit la Torah è il racconto della progressiva emancipazione della famiglia israelitica da questo complesso, presupposto necessario perché possa divenire un popolo. I nostri Maestri ammoniscono: לא ישנה אדם לבן בין הבנים אפילו בדבר מועט שלא יבוא לידי קנאה (“un padre non faccia neppure la minima differenza fra un figlio e gli altri, onde non suscitare la loro gelosia”. Tur, Choshen Mishpat 282).
Anche i rapporti fra le tre fedi monoteistiche sono stati viziati per secoli dalle stesse problematiche. Rivalità fraterne, desiderio di imitazione reciproca e necessità di affermare il credo del proprio gruppo a scapito degli altri hanno pesantemente condizionato anzitutto lo studio dei testi sacri comuni. Testi che, se adeguatamente analizzati, mettono in luce il proposito di conciliazione fra le religioni piuttosto che la reciproca contrapposizione. Rav Sacks sostiene la necessità di una rilettura della Bibbia da parte di tutti che riequilibri le cose, sforzandosi di dimostrare come nei vari episodi l’elezione di uno dei fratelli non comporti per forza il rigetto dell’altro. Egli giunge così a formulare una teologia “a doppio binario”: un primo patto, quello dei Figli di Noach, fra D. e le nazioni del mondo basato sulla nozione di giustizia e un secondo patto, con i figli di Avraham, fondato sull’amore. La scelta si motiva con il fatto che un’umanità senza distinzioni degenera nell’individualismo assoluto o nell’imperialismo distruttivo di ogni libertà, come è evidenziato dall’episodio della Torre di Babele. Questo è inserito fra i due patti a testimoniare le conseguenze del totalitarismo ante litteram degli imperi antichi.
Libro affascinante e potente, la sua tesi lascia tuttavia il lettore con una vena di scetticismo. E’ davvero convinto l’autore che cristiani e musulmani si persuadano a loro volta ad accettare la sua lettura del testo biblico e a rinunciare a ogni prevaricazione nei confronti dei loro “fratelli maggiori” sulla base del fatto che i “fratelli minori” non sono in realtà oggetto di rigetto? Basta forse questo contentino a tacitare ogni ambizione di questi alla primogenitura e ogni ricorso alla violenza, fisica o psicologica? E soprattutto: saranno pronti a riconoscere che la primogenitura di Israele cui aspirano è di natura soltanto spirituale e comporta la rinuncia a qualsiasi volontà di potenza e di sopraffazione nei confronti di chiunque altro?