Nella Parashà di Ki Tetzè leggiamo: “Farai delle frange rituali ai quattro angoli [letteralmente ali, kanaf in ebraico] del vestito con cui ti copri. Quando un uomo sposa una donna e si unisce a lei…” (Devarim 22:12, 13). Questi due versetti nei quali vengono riportate queste mitzvot – per un uomo di aggiungere frange ad ogni vestito a quattro angoli che indossa e per un uomo di fidanzarsi con una donna – si susseguono. C’è una connessione?
Un modo per poter spiegare questa giustapposizione passa dall’analisi di un’interessante usanza sefardita ed italiana che è diventata parte di molte cerimonie nuziali ashkenazite, soprattutto in Israele.
Il matrimonio ebraico tradizionale si compone di due cerimonie distinte: La prima, il fidanzamento (o kiddushin), la cui caratteristica principale è che lo sposo consegna un anello alla sposa davanti a due testimoni, dichiarando: “Ecco, tu sei consacrata a me con questo anello, secondo le leggi di Moshè e di Israele”. Da quel momento in poi, la coppia non può più intraprendere altre relazioni sentimentali. In epoca mishnaica, e probabilmente anche in seguito, gli sposi dopo questa cerimonia vivevano separatamente. Le rispettive famiglie si conoscevano, lo sposo si occupava di trovare una casa per la nuova famiglia e la sposa si occupava di preparare il suo corredo. Generalmente, dopo un anno, si svolgeva la seconda cerimonia, il matrimonio vero e proprio (nissuin). Lo sposo accompagnava quindi la sposa nella nuova casa, offriva un banchetto per familiari e amici, venivano recitate le sette benedizioni nuziali e poi, nell’intimità della loro nuova dimora, il matrimonio veniva consumato.
In epoca amoraica successiva (200-750 d.e.v.), i Chachamim ritenevano che fosse poco pratico tenere una coppia separata per un anno intero, quindi le due cerimonie vennero unificate. Per preservare la natura separata di ciascuna cerimonia, però, venne inserita la lettura ad alta voce della ketubbà, il contratto nuziale tramite cui il marito si impegna ad amare e rispettare la moglie e nel quale sono specificati tutti gli obblighi del marito nei confronti della moglie. Il baldacchino nuziale simboleggia la nuova casa in cui la coppia sta per entrare. L’usanza sefardita prevede che la sposa doni prima del matrimonio un nuovo tallit con i tzitziot al promesso sposo; lo sposo si avvolge nel tallit per la prima volta prima del matrimonio sotto il baldacchino nuziale. Poco prima di indossare il tallit, lo sposo pronuncia una berachà speciale (shehecheyanu), ringraziando D-o per avergli concesso il privilegio di celebrare questo evento. Questa berachà segna sia l’acquisizione del nuovo tallit sia l’avvento del nuovo matrimonio. Lo sposo, durante la cerimonia, copre con il nuovo tallit anche la moglie; entrambi rimangono insieme sotto il tallit e sotto il baldacchino nuziale, dove ascoltano le sette benedizioni nuziali che concludono le cerimonie.
Due domande sorgono spontanee. Innanzitutto, un singolo oggetto non può essere utilizzato per due mitzvot – e qui il tallit viene utilizzato sia per la benedizione di un nuovo indumento che per la benedizione di un nuovo matrimonio. In secondo luogo, come si può paragonare l’acquisizione di un nuovo indumento all’acquisizione di un nuovo compagno di vita? L’origine dell’usanza del tallit viene fatta derivare dalla meghillà di Rut. Quando Rut, sinceramente poi convertita, incontra Boaz di notte nel silo – dove in effetti lo informa di essere pronta a sposarlo – si fa riconoscere come “Rut, la tua serva, sulla quale hai steso le tue ali, kanaf, [o più letteralmente “angolo di protezione”], perché tu sei il [mio] redentore” (Rut 3:9). Pertanto, attraverso la parola ebraica kanaf, usata anche per la mitzvà dello tzitzit, le frange simboleggiano sia i 613 comandamenti – le “ali” che permettono a ogni ebreo di librarsi verso le sfere celesti sia la protezione offerta dall’Onnipotente. Ecco perché Boaz usa la stessa parola nel lodare Rut per aver abbandonato la sua patria e la sua famiglia per mettersi “sotto le ali protettive [angoli] del Signore, D-o d’Israele” (Rut 2:12).
La seconda parte della cerimonia nuziale – sotto il baldacchino nuziale – simboleggia la nuova casa. Ma qual è veramente la nuova casa di una giovane coppia? Nella tradizione ebraica sono i 613 comandamenti, le “ali di protezione” che D-o fornisce, simboleggiati anche dal tallit con i tzitziot, a dover diventare le mura spirituali della casa e della famiglia che gli sposi stanno costruendo insieme. La nostra unica vera casa è la casa di D-o, e questa è la casa fornita dal tallit e dalle sue “ali”, e dai quattro angoli del baldacchino nuziale.
La benedizione sul tallit è la benedizione sul rapporto matrimoniale; l’una deve definire l’altra. E quindi, il collegamento tra la mitzvà dello tzitzit e la mitzvà di sposarsi trova un’espressione degna di nota.
Il Sefer haChinuch, nel commentare la sacralità del matrimonio, osserva che il concetto stesso di matrimonio è nettamente opposto alla promiscuità sessuale (menzionata in precedenza in questa Parashà, Devarim 23:18). La scelta di una persona speciale, come descritto poeticamente per Adam nel Giardino dell’Eden, è l’ideale: Un uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una sola carne. (Bereshit 2:24) Un uomo, una donna; una relazione di esclusività.
In un certo senso, la natura del matrimonio rispecchia la relazione delineata in precedenza in Devarim riguardo al Bet haMikdash. Ci viene detto di servire D-o in un luogo scelto e speciale: Eliminate tutti i luoghi dove le nazioni che state scacciando adorano i loro dèi, [siano essi] sugli alti monti, sulle colline o sotto qualsiasi albero rigoglioso… Non potrete adorare D-o Onnipotente in questo modo. Questo potrete farlo solo nel luogo che D-o Onnipotente sceglierà tra tutte le vostre tribù, come luogo stabilito nel Suo nome. È lì che andrete a cercare la Sua presenza. (Devarim 12:2-5). Mentre gli idolatri cercavano la presenza divina sotto ogni albero, su ogni collina e luogo elevato, agli ebrei fu comandato di adorare D-o esclusivamente in un luogo centralizzato, un luogo in seguito identificato in Gerusalemme. Potremmo dire che la differenza tra l’approccio ebraico al culto e quello idolatra è la stessa che c’è tra la promiscuità e l’unione di due persone unite in santità. L’idolatria, in particolare per quanto riguarda l’elemento della gratificazione immediata, è promiscuità spirituale.
Quando una sposa e uno sposo gioiscono l’uno dell’altro, la loro felicità deriva in gran parte dalla gioia dell’esclusività, dalla consapevolezza che il partner scelto è l’unica persona con cui verrà condivisa la santità del matrimonio e la nostra intimità. Questa è la felicità che nasce dalla santità. In questo contesto, il Talmud ci insegna che non solo il marito ha il dovere di portare gioia e felicità alla sposa, ma che tutti coloro che partecipano alle nozze hanno il dovere di portare felicità alla nuova coppia. Infatti, il Talmud (Talmud Bavli Berachot 6b) arriva addirittura ad affermare che chiunque riesca a portare gioia agli sposi è considerato aver ricostruito “una delle rovine di Gerusalemme”. Come sappiamo, la rovina di Gerusalemme per antonomasia è il Bet haMikdash stesso, un edificio dedicato al rapporto esclusivo tra D-o e il Suo Popolo. Quando il popolo “tradì” D-o, come accadde durante l’era del Primo Bet haMikdash, o semplicemente diede per scontato il proprio rapporto con Lui, come accadde durante l’era del Secondo Bet haMikdash, il Tempio fu distrutto. A livello personale, il matrimonio, con la sua componente essenziale di esclusività, funge da metafora del rapporto tra l’uomo e D-o. In sostanza, è un microcosmo di questo rapporto. Quando marito e moglie trovano gioia nella santità del matrimonio, costruiscono non solo il proprio rapporto interpersonale, ma anche la comunità nel suo insieme, così come il rapporto tra l’uomo e D-o, tanto da diventare partner nella ricostruzione del Bet haMikdash.
Ogni casa ebraica è sacra. In un certo senso, ogni casa ebraica è un microcosmo del Bet haMikdash. La cerimonia nuziale serve, il giorno del matrimonio, a ricordarci l’importanza di quello che la coppia è chiamata a costruire. Il tallit, i tzitziot, una casa piena di gioia, di mitzvot e di chesed, piena di bambini a cui tramandare questi valori importanti e fondanti, sono i mattoni che fabbrichiamo ogni giorno che sono utili non solo a costruire un sano rapporto con D-o: sono i mattoni per costruire la continuità, una società più giusta e più equa e per ricostruire il Bet haMikdash, bimherà beyamenu, amen.