Leggendo la parashah Ki Tavò mettiamo in pratica due mitzwot: oltre a leggere la parashat ha-shavua, soddisfiamo quanto richiesto dalla taqqanah di Ezrà, di leggere le tokhakhot (avvertimenti) di Ki Tavò prima di Rosh ha-shanah. Secondo gli acharonim questo avveniva anche quando in Israele la pratica era quella di leggere la Torah secondo un ciclo triennale, e nei tre anni la parashah di Ki Tavò, seguendo il ciclo abituale, sarebbe stata letta pertanto un’unica volta. Prima di Rosh ha-shanah infatti veniva organizzata una lettura speciale, simile a quella delle parashot Zakhor e Parah, che leggiamo in aggiunta alla parashah settimanale.
Il verso che conclude le tokhakhot (Devarim 28,69) afferma che questo patto è aggiuntivo rispetto a quello stipulato sul monte Sinai: “queste sono le parole del patto che il Signore comandò a Mosè di stabilire con i figli di Israele nella terra di Moav oltre al patto che aveva stabilito con loro presso Chorev”. Perché serve un ulteriore patto? Forse non bastava il primo? La risposta a questa domanda la troveremo la prossima settimana nell’apertura della parashah di Nitzawim (Devarim 29, 13-14): “Ma non soltanto con voi Io stabilisco questo patto e questo anatema, ma con quelli che sono qui con noi oggi presenti davanti al Signore nostro D. ed anche con quelli che non sono oggi qui con noi”. Il patto del Sinai era vincolante solo per coloro che vivevano in quella generazione, mentre quello di ‘Arvot Moav, stipulato nelle ultime parashot della Torah, è valido per tutte le generazioni a venire. Anche confrontando le tokhachot di Ki Tavò e quelle di Bechuqqotai salta all’occhio una differenza sostanziale fra i due brani: quelle di Bechuqqotai sono espresse al plurale, essendo rivolte ad ogni singolo membro del popolo ebraico, mentre quelle di Ki Tavò sono al singolare. Questa volta il patto viene sancito con il kelal Israel, con tutto il popolo ebraico dai tempi di Avraham avinu, sino a quando arriverà il mashiach.
Ma questo non è sufficiente a rendere le leggi della Torah vincolanti per tutte le generazioni future. Questo avviene solo nel momento in cui il popolo ebraico diviene una nazione. Solo allora il principio secondo cui “kol Israel ‘arevim zeh bazeh – ciascun ebreo è garante dell’altro” inizia a funzionare. Se il patto viene stretto con una nazione è possibile stipularlo anche con le anime che ancora non sono venute al mondo (Netzach Israel 12). Chi vuole crescere a livello personale ad un certo punto non può non preoccuparsi dell’altro. I chakhamim in vari passi hanno mostrato la priorità della dimensione collettiva: per esempio una persona in lutto dovrà gioire di Yom Tov, perché la situazione gioiosa generale prende il sopravvento sul lutto, che è una questione individuale. Rabbì Eli’ezer liberò uno schiavo per poter svolgere la tefillah in pubblico, sebbene quest’ultima fosse solo un’istituzione rabbinica. In ogni generazione abbiamo degli individui che scelgono deliberatamente di non praticare le mitzwot. Chi compie questa scelta, certamente legittima, deve essere consapevole di agire in contrasto con la propria natura più intima, perché, volente o nolente, è parte integrante del kelal Israel. Il Ba’al halakhot ghedolot arriva ad includere le tokhakhot di Ki Tavò fra le 613 mitzwot della Torah.
Ma dov’è la mitzwah? In fondo, per quanto possa essere terribile, la Torah non fa altro che descrivere ciò che avverrà se non rispetteremo le mitzwot! Spiega il Rasa”g che la mitzwah di cui si parla è quella della ‘arevut. Il No’am Elimelekh spiega questo concetto partendo da un versetto in Shir ha-shirim (2,14): ki kolekh ‘arev – poiché la tua voce è soave. Il compito, non da poco, è quello di renderci “soavi l’un l’altro”, anziché sopportarci a stento. Rav Dessler in Mikhtav meElihau riporta un interessante insegnamento a nome dell’Arì. La domanda è perché Rosh ha-shanah, diversamente dagli altri mo’adim, dura due giorni. Di Rosh ha-shanah, spiega l’Arì, in realtà si hanno due tipi di giudizi, uno più duro, il primo giorno, in cui ciascuno è giudicato individualmente, e l’altro, più lieve, il secondo giorno, in cui l’individuo è giudicato come parte di una collettività. Quando preghiamo facendo parte di un minian il nostro apporto non è migliorativo solo a livello quantitativo, ma anche qualitativo. Quando preghiamo pertanto cerchiamo di farlo in quanto parte integrante di una comunità e di una collettività! Se vediamo una faccia nuova al Bet ha-keneset, accogliamola con un sorriso, non costa nulla! Preoccupiamoci se sappiamo di un anziano solo o in difficoltà. Il migliorare la vita altrui cambierà in meglio anche la nostra vita. Il decreto di Ezrà ci ricorda di questo impegno assunto a livello nazionale alla vigilia delle giornate clou nel nostro calendario. Anche se forse non lo diamo a vedere, siamo fatti così, e il nostro compito è regolarci di conseguenza.