Tempio di via Eupili – Milano
La vita che attende gli ebrei nella Terra Promessa riserverà molte sfide ma anche molte ricompense e, nella Parashà di Ki Tavo Moshè accende i riflettori su entrambe le facce di questa medaglia. La Terra d’Israele è diversa da qualsiasi altro posto al mondo. È una terra intrisa di una personalità spirituale, di una costituzione delicata che non tollera il peccato. D’altra parte, evitare il peccato non basta. Vivere in Israele comporterà ulteriori obblighi, e in questa Parashà Moshè descrive una delle mitzvot che possono essere fatte solo in Israele, i Bikurim (le primizie). La mitzvà dei Bikurim si adempierà molto tempo dopo la morte di Moshè, dopo la conquista della Terra e la divisione tra le Tribù, dopo che le case saranno costruite, dopo che i campi, i frutteti e le vigne saranno stati piantati e dopo il primo raccolto. Questo, spiega Moshè, non sarà un prodotto ordinario; Questo è il frutto di Israele e richiederà un trattamento speciale.
Il primissimo frutto, il prodotto atteso con ansia, deve essere messo in un cesto e portato a Gerusalemme. Con questo prezioso raccolto in mano, al contadino viene comandato di recitare un testo specifico, raccontando una breve storia del popolo ebraico. Il rituale ha lo scopo di collocare la celebrazione del raccolto in un contesto storico e spirituale, culminando nel raccolto che simboleggia lo status di nazione libera e santa. Mentre leggiamo la descrizione di Moshè del rituale dei Bikurim potremmo considerare il contrasto con altre “primizie” menzionate nella Torà, le primizie, nel Giardino dell’Eden. La realtà in cui vivevano Adamo ed Eva era unica: La loro vicinanza a D-o, l’immediatezza del loro legame con la Sua Presenza e la simbiosi di quella spiritualità con il benessere del Giardino dell’Eden, trovano eco nella realtà in in cui gli ebrei sarebbero entrati attraversando il Giordano. Tuttavia, l’esperienza precedente, l’esperimento di affidare all’uomo i frutti nell’Eden, fu un fallimento, che terminò con il disastro e l’esilio. Un’attenta considerazione sulla cerimonia dei Bikurim ci dà la sensazione che la mitzvà che ci viene comandata per l’offerta delle primizie sia in qualche modo un “tikun”, un tipo di aggiustamento spirituale per l’appropriazione indebita di quei frutti del Giardino dell’Eden. Adamo ed Eva si erano lasciati convincere dal serpente che mangiare il frutto proibito li avrebbe in qualche modo trasformati in dei.[Bereshit 3:5]. Il rituale dei Bikurim è un contrasto diretto e inequivocabile a quel tipo di illusione egocentrica. I contadini ebrei prendono in mano il loro raccolto più prezioso e ricordano a se stessi come è stato. Piuttosto che autocongratularsi per la loro intraprendenza e successo, ringraziano D-o consapevolmente e in modo concreto.
In due commenti separati, Rashi chiarisce un secondo elemento del peccato nel Giardino dell’Eden. D-o chiamò l’uomo e disse: ‘Dove stai [cercando di nasconderti]?”Ho sentito la tua voce nel giardino’,’ [Adamo] ha risposto, ‘ho avuto paura perché ero nudo, quindi mi sono nascosto. ‘ [D-o] chiese: ‘Chi te l’ha detto che sei nudo? Hai mangiato dall’albero del quale ti avevo comandato di non mangiare?’ L’uomo rispose: ‘La donna che hai creato per stare con me, mi ha dato quello che ho mangiato dall’albero.’ (Bereshit 3:9-12) Il fatto stesso che D-o abbia ingaggiato una conversazione indica che nonostante quello che era successo non tutto era perduto, avrebbero potuto esserci ancora parole o gesti di pentimento, ma, invece di esprimere rimorso, Adamo punta il dito contro sua moglie, l’anima gemella fornita da D-o. In sostanza, Adamo incolpa tutti tranne se stesso. Invece di ringraziare per aver accanto la donna dei suoi sogni, Adamo tenta di scaricare tutta la colpa su di lei. Rashi definisce questo comportamento una mancanza di gratitudine, un mancato apprezzamento per ciò che D-o ha dato. Questa mancanza di gratitudine è una sorta di “peccato originale”. D-o ha creato l’uomo con limitazioni e debolezze. La vera prova nella trasgressione del mangiare il frutto proibito come la vera prova dell’uomo non è se fallirà o meno, perchè quasi inevitabilmente potrà succedere. La prova più grande non sta solo nell’assumersi la responsabilità delle proprie azioni e dei propri fallimenti ma nella capacità di riconoscere, apprezzare e rendere grazie per i doni che D-o ci dà.
Commentando la mitzvà dei Bikurim e i versi che compongono il testo del suo rituale, Rashi illustra come il contesto storico e teologico che si crea serva ad insegnarci ad essere grati e allo stesso tempo darci l’opportunità di esprimere quella gratitudine. La sofferenza spesso ci rende ciechi di fronte ai doni meravigliosi di D-o, pensiamo che sia tutto dovuto o scontato, e facciamo la stessa cosa anche con le altre persone. Dovremmo chiederci: Esprimiamo mai apprezzamento? Permettiamo all’altra persona di sentire il nostro apprezzamento?
Il frutto del Giardino dell’Eden, come il frutto della Terra, appartiene a D-o. Non si deve mai dimenticare la vera fonte del nostro sostentamento, non dobbiamo mai dare nulla per scontato. Il nostro compito è seminare bene e, se capiterà di fallire in quello che facciamo, prenderci le nostre responsabilità e non credere che sia finita. La possibilità di recuperare esiste sempre, ed è proprio nel mese di Elul che dobbiamo riflettere, in vista dell’anno nuovo, sulle nostre eventuali mancanze, lavorare per migliorarci e per iniziare il nuovo anno cambiando paradigma, diventando persone migliori, ringraziando per quello che abbiamo. Solo così i prossimi anni potranno essere anni felici e benedetti.