Nelle immagini di Hannah Altman fotografia ed ebraismo trovano una sintesi, attraverso la rappresentazione dei rituali di questa cultura legati alla quotidianità e ai momenti importanti della vita. Fotografie e autoritratti che ci portano in atmosfere dall’intensità crescente, con soluzioni sempre diverse
Hannah Altman a cominciato a lavorare a Kavana in seguito alla morte di un proprio caro, la nonna. È rimasta affascinata dagli oggetti che ha trovato svuotando la sua casa, molti dei quali legati alla cultura ebraica, e ha voluto creare una narrazione in cui le persone potessero riconoscersi. Un progetto – parola che non ama – che le ha consentito di incontrare tante altre donne e stabilire con loro una relazione che parte da una comunanza di origini che la fotografia sa evidenziare anche se non accompagnata dal verbo.
C’è qualcosa che nella tua ricerca è sempre rimasto costante?
La fascinazione per la luce del sole, che da adulta si è unita a una ricerca delle forme. Quando ero più giovane era meno strutturata. Anche gli autoritratti sono qualcosa di sempre presente: ricordo che alle superiori, in una lezione introduttiva alla fotografia, ci era stato dato il compito di realizzare un ritratto. Ho scattato autoritratti in cui ero nuda e mostravo la schiena. Per me era già qualcosa di naturale e di intuitivo, per gli altri era scandaloso – i professori mi scoraggiarono dal farlo di nuovo. Il mio primo lavoro a 19 anni è stato una serie di autoritratti con mia madre.
Kavana nasce in seguito alla scomparsa di tua nonna nel 2017. Come si è evoluto il progetto?
Abbiamo iniziato a svuotare i suoi armadi, trovando oggetti di ogni tipo: dai più preziosi ai più insignificanti, alcuni appartenevano alla cultura ebraica, altri no. Ho iniziato a creare una sorta di archivio, a ricostruire il mondo di mia nonna e la sua storia a partire da essi, con fotografie di documentazione, molto didascaliche. Più ci lavoravo più mi rendevo conto di voler approfondire e creare in ogni immagine una narrativa, in modo che l’oggetto rappresentato non fosse il fine, ma uno strumento. Il progetto ha continuato a evolvere nel tempo, con nuovi scatti. In realtà non sono molto orientata ai “progetti”: nel mio caso non si tratta di “alberi” diversi, ma di rami diversi, con motivi simili e focus differenti. E tutti i miei lavori hanno una narrativa ebraica, anche se a volte sono motivi invisibili.
Quanto c’è di religioso in questo lavoro?
L’ebraismo non è una religione, ma una cultura: puoi essere ateo, agnostico, ma comunque sei ebreo per appartenenza, origini. Non credo sia facile liberarsi di una cosa del genere e questo lo rende per me ancora più interessante. Oggetti e rituali, ebraici e non, vengono usati per preservare il passato e trasmetterlo anche alle nuove generazioni, volevo fare lo stesso con le mie fotografie. Da una semplice foto delle candele dello Shabbat, il giorno più importante della settimana in cui si riposa e in cui il tempo è sacro e sospeso, sono arrivata di scatto in scatto a quell’immagine in cui simbolicamente le candele bloccano le mie mani, raccontando l’atmosfera e la sensazione di quel giorno. È la mia immagine preferita, perché rappresenta al meglio un rituale.
Ci sono moltissime donne nelle tue fotografie. Chi sono?
Alcune sono parte della mia famiglia, ma anche sconosciute. È stata una scelta voluta: all’interno della comunità siamo tutti connessi e attraverso i rituali si può entrare subito in intimità anche con chi non si conosce. Il passaparola ha funzionato, ma anche gli annunci in centri comunitari ebraici. Ci sono donne, poi, che ho incontrato nei miei trasferimenti in altre città. È bello vedere come in queste immagini anche le persone ebree non interessate alla fotografia possano trovare qualcosa in cui riconoscersi e che può aiutare tutti a capire meglio la cultura ebraica.
HANNAH ALTMAN Artista ebrea americana del New Jersey, ha conseguito un Master of Fine Arts presso la Virginia Commonwealth University. Le sue fotografie interpretano le relazioni tra i gesti, il corpo, il lignaggio e lo spazio interiore attraverso il ritratto e l’autoritratto e l’utilizzo di oggetti simbolici, legati in particolare alla cultura ebraica.
Articolo pubblicato su WU 114 (giugno – luglio 2021). Segui Alessandra su IG
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