L’ultimo best-seller di Marek Halter pubblicato dalla Newton Compton. Il cabalista di Praga: il Maharal fra scienza e magia
Gianfranco Di Segni
Metti la parola cabalista nel titolo e avrai un successo assicurato. A quanto pare è questa la ricetta scelta per l’ultimo libro di Marek Halter, autore dell’indimenticabile “Abraham” di una ventina d’anni fa. Il cabalista di Praga (a differenza di altri cabalisti fittizi, seppur verosimili, come quello di Lisbona dello scrittore R. Zimler) è niente meno che il famoso Maharal, Rabbi Yehudà Loew (ca. 1520-1609), uno dei più grandi filosofi ebrei. Chi è stato a Praga, avrà certamente visto la statua a lui dedicata, in cui è raffigurata anche una giovane donna, probabilmente la nipote prediletta Eva, che è la vera protagonista del libro di Halter.
La voce narrante del romanzo è quella di Rabbi David Gans (1541-1613), uno studioso di vasti interessi culturali non solo ebraici, dall’astronomia alla matematica, dalla storia alla geografia, autore di numerose opere, riscoperto nel ’900 da André Neher che gli ha dedicato una monografia di 300 pagine. Su questa e su altre opere di Neher si è basato Halter per imbastire il suo romanzo storico. Nei fatti immaginati da Halter, Gans alla fine del ’500 è mandato in missione dall’imperatore asburgico Rodolfo II, un mecenate amante delle scienze (e amico degli ebrei), per convincere i più famosi scienziati dell’epoca a trasferirsi a Praga. Nel corso dei suoi viaggi Gans arriva a Venezia, appena dopo che l’Inquisizione veneziana ha arrestato Giordano Bruno (che poi sarà messo al rogo a Roma a Piazza Campo de’ Fiori), a Padova incontra Galileo, di cui frequenta i corsi universitari per un paio di mesi, e infine riesce a persuadere il danese Tycho Brahe, il più illustre astronomo dell’epoca, a proseguire le sue ricerche sulle orbite dei pianeti in un osservatorio costruito apposta per lui nei pressi di Praga. Qui si trasferirà anche Keplero, che alla morte di Brahe nel 1601 gli succederà come matematico imperiale. Sarà Keplero che con le sue leggi sul moto dei pianeti rivoluzionerà l’astronomia moderna, ponendo le basi per la grande sistematizzazione di Isaac Newton.
Alcuni eventi descritti da Halter sono veri: p.es. l’arrivo di Brahe e Keplero all’osservatorio di Praga, e anche il fatto che lo stesso Gans vi lavorò a più riprese osservando stelle e pianeti e conversando di scienza e di Talmud con entrambi questi illustri astronomi. Altri eventi sono inventati ma verosimili, come l’incontro fra Gans e Galileo: non risulta da nessuna fonte, ma è vero che Galileo ebbe studenti ebrei all’Università di Padova, come Rabbi Yosef Shelomo Del Medigo, che racconta di aver osservato il pianeta Marte “nel tubo di vetro di Rabbi Galileo” (notare che lo chiama Rabbi!). Del Medigo, in seguito, arriverà anche lui a Praga e la sua tomba si trova nel noto cimitero ebraico, poco lontano dalle tombe del Maharal e di Gans.
All’inizio del romanzo, Halter immagina che due allievi del Maharal, di cui uno è suo genero, si accordano per fare sposare fra loro i rispettivi figli (che ancora devono nascere!): la nipote Eva e Isaia Horowitz (quest’ultimo, presumibilmente, è colui che scrisse la famosissima opera di Kabbalà “Shenè Luchòt Haberìt”, da cui l’appellativo dell’autore “Shelà Hakadòsh” – ma il nome del padre e le date non corrispondono). Essendo un romanzo, non riveliamo se i due giovani si sposeranno o no.
Nella parte finale del romanzo, nell’anno 1600, di colpo appare il Golem. Il nome del Maharal è da tempo accostato alla leggenda della creazione del Golem, un automa prodotto dall’argilla attraverso la conoscenza della Kabbalà, il quale salva gli ebrei del ghetto dalle angherie e soprusi inflitti loro dalla popolazione non ebraica. Gli ebrei, che pure godevano della simpatia dell’imperatore, non avevano infatti vita facile a Praga, come nel resto d’Europa. L’attribuzione di questa leggenda al Maharal piuttosto che ad altri è stata messa in discussione da Gershom Scholem (ma Neher ne è più convinto). Halter non è il primo a parlare del Golem e del Maharal in forma romanzata. L’ha fatto prima di lui Elie Wiesel ne “Il Golem” (Giuntina 1986), in cui però la vicenda è anticipata al 1592 (e, a mio parere, con migliore riuscita letteraria). Ancora prima lo fece Gustav Meirink, in un romanzo pubblicato nel 1915 (Bompiani 1993, 2000) che a suo tempo fu elogiato addirittura da Franz Kafka.
Come spesso accade, l’automa creato dal Maharal alla fine va fuori di controllo. È il mito dell’apprendista stregone (vedi A. Neher, Faust e il Golem, Sansoni 1989, Giuntina 2005). Qui Halter inciampa un paio di volte. La leggenda narra che il Maharal inscrisse sulla fronte del Golem la parola ebraica Emet (verità): quando il Golem impazzì e iniziò a causare danni, il Maharal intervenne d’urgenza e tolse la prima lettera, così che rimase solo Met (morto). Halter ripetutamente parla di “quattro lettere” della parola Emet (p. 221): ma in ebraico la parola Emet si scrive con tre lettere (alef-mem-tav). Togliendo la alef, rimane appunto Met. Che Halter possa aver commesso un tale errore, lui figlio di un tipografo di libri ebraici, autore di numerosi saggi di Judaica, è impensabile. È più probabile che sia stato l’editore (o l’editor) a imporglielo. Avranno pensato che scrivere una frase come “le tre lettere della parola Emet” sarebbe risultata incomprensibile ai lettori, senza una nota a piè di pagina: ma si sa, le note, nei romanzi, allontanano i lettori.
Un altro grossolano inciampo, che è sicuramente un errore di Halter, è quando scrive che l’imperatore Rodolfo scrutava con il cannocchiale dalla finestra del palazzo reale nella stanza del Maharal per carpirgli i segreti con cui dava vita al Golem (pp. 260-261). Ma il cannocchiale fu inventato (o meglio, reinventato) da Galileo nel 1609, nove anni dopo lo svolgimento della vicenda come ipotizzato da Halter. Incidenti di percorso che capitano a chi scrive un romanzo storico senza essere uno storico di professione. Un altro errore è quando Halter chiama il famoso cabalista Luria (l’Arizal), il fondatore della Kabbalà moderna e del concetto di tzimtzùm (contrazione), con il nome di Solomon, invece che Isaac (p. 139). Rabbi Shelomò Luria è veramente esistito, ed è uno dei più grandi maestri del Talmud di tutti i tempi. Ma non è il fondatore della Kabbalà detta appunto “luriana”. Un’altra strana svista è l’aver scritto il Nome Ineffabile vocalizzato (in lettere latine): se non è un’iniziativa della traduttrice (che sicuramente è intervenuta in più punti), è abbastanza grave (p. 44). E così via.
Ma ciò che può sorprendere di più in questo romanzo è il fatto che Gans, scienziato, matematico e astronomo, possa parlare così tranquillamente della creazione del Golem. E in effetti, non c’è alcuna evidenza che Gans ne abbia trattato nei suoi scritti. Bisogna però pensare che quello era il “tempo dei maghi”, come è stato definito dal grande storico della scienza recentemente scomparso Paolo Rossi. Il confine fra magia e scienza non era così netto come nell’epoca successiva. E “l’ultimo dei maghi” (così lo chiamò il famoso economista Lord Keynes) fu niente meno che Isaac Newton, il padre fondatore della fisica moderna, che oltre a conseguire grandi successi nella scienza (le leggi della gravitazione universale e della meccanica, l’ottica, il calcolo infinitesimale), si occupò in maniera quasi ossessiva di alchimia e teologia. Se quindi non abbiamo prove che Gans si interessasse ai (presunti) tentativi del Maharal di creare il Golem, è però un fatto verosimile. Ma chissà, forse anche questa è stata una forzatura dell’editore di Halter: chi mai avrebbe comprato un romanzo che parlasse solo di Gans e del Maharal? Allora aggiungiamoci il Golem, che ormai a Praga è diventato un business: le statuine del Golem (rigorosamente Made in China) te le vendono a ogni angolo.
Nel finale, una sorpresa che non riveliamo. Basti dire che Halter interviene direttamente, raccontando di un incontro con un grande studioso di Talmud e Kabbalà, molto noto anche in Italia, che definisce “amico e complice” nella stesura di questo affascinante romanzo storico.
Da “Shalom” di settembre 2012