In Voci di un giorno d’estate lo scrittore newyorkese racconta la comunità ebraica e l’immigrazione
In un giorno d’estate Benjamin Fedorov, un ebreo americano della upper class, mentre assiste ad una partita di baseball del figlio Mike, ripercorre – attraverso una serie di flashback – la sua vita passata. I colpi secchi della mazza da baseball, colonna sonora di questo romanzo, scandiscono – come un metronomo – le ‘intermittenze del cuore’ di Benjamin. I ricordi si affacciano attraverso voci e volti di persone che hanno segnato la sua vita: Leah, la donna con cui ha avuto una intensa storia d’amore a Parigi, nel 1945; Louis, il fratello tanto diverso da lui; Peggy, la ragazza di buona famiglia tutta house and garden, divenuta sua moglie; Israel Fedorov, suo padre, giunto a Ellis Island a sei anni, dopo un lungo viaggio da Kiev, che per tutta la vita aveva servito ed onorato la sua nuova patria perché “era divenuto americano nei bassifondi di New York, dove i ragazzi giocavano al baseball con palle di stoffa, con mazze fatte in casa, e senza guanti. Israel s’era fatto americano afferrando la palla a mani nude negli anni tra il 1895 e il 1910”.
Benjamin di fronte alle certezze di Israel si era sempre sentito smarrito: “ non c’era una chiesa o una sinagoga o un culto in cui egli credesse abbastanza per avviare automaticamente suo figlio, e il figlio di suo figlio, sulla strada di un mito plurimillenario ”.
Benjamin ama l’America, per questo Paese ha combattuto, come ha fatto il padre, ma l’amore di Benjamin è tormentato e ambivalente perché la sua America è sì quella del sogno americano, ma anche quella di chi ha permesso nel 1927 l’assassinio di Sacco e Vanzetti ( “ipocriti santi puritani di Boston, orgogliosi di sé perché ammazzano due poveri operai italiani” ), è l’America degli anni ’60 con le feste in una grande e bella casa “con la solita stravagante mescolanza di età e professioni: attori, uomini politici, gente dell’università di Yale, coppiette di giovani sposi che lavoravano per riviste o case editrici e nessuno sa chi erano Sacco e Vanzetti”. E’ l’America di J.F.K e dell’assassinio di J.F.K., è l’America della comunità ebraica divisa tra ferventi patrioti, ciecamente conformisti perché convinti di avere solo doveri verso il Paese che li ha accolti, e una generazione ebraica molto più laica e critica. Benjamin si sente un po’ apolide, un po’ senza radici, non conosce neppure bene i riti della religione cui appartiene, durante il funerale del padre si rende conto di ignorare il nome del paese in cui il vecchio era nato – non glielo aveva mai chiesto! – ma, proprio in quel frangente, con stupore, si trova a recitare, riemersa da profondità a lui stesso ignote, un’antica preghiera ebraica: “ Per il tempio distrutto/Restiamo in solitudine e piangiamo/Per le mura abbattute/Restiamo in solitudine e piangiamo…”
Shaw ripercorre in modo lieve, pensoso e struggente, la vicenda personalissima di un quarantenne, ma anche quarant’anni e più di storia americana e, in particolare, della comunità ebraica statunitense tanto legata alle radici europee e alla dolorosa storia della persecuzione.
Voices of a summer day, il titolo originale, è stato scritto da Shaw nel 1965, all’apice del suo successo. Nato a New York nel 1913 è diventato famoso giovanissimo con l’atto unico Bury the dead, d’ispirazione pacifista, per poi lavorare a Hollywood come sceneggiatore. Solo nel dopoguerra si è dedicato completamente ai romanzi da The young lions del 1948 a Acceptable losses del 1982.
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