“Il mio modo di resistere: abitare a duecento metri dall’inferno”
Gli occhi chiari sembrano guardare nel vuoto. In realtà inseguono qualcosa che la donna vede benissimo, la proiezione della memoria e dell’orrore che la invade. La voce ferma e gentile racconta un albero genealogico in cui sono concentrati secoli di ferite europee. Il passato fa di me una rom ungherese della Transilvania, il presente dice che sono l’unica ebrea di Auschwitz». Prima di lei, l’ultimo si chiamava Gruber, è morto qualche anno fa. Poi il nulla, il nessuno. «Prendere casa a pochi metri dalla porta dell’inferno è stata una scelta volontaria, un atto di ribellione contro chi preferisce dimenticare». E contro chi fa dell’Olocausto un business redditizio. «Essere ebrei e andare a vivere laggiù da soli richiede una forte dose di fede e incoscienza. Eppure, ora che i testimoni spariscono uno dopo l’altro, essere ebrei a Auschwitz è una straordinaria vittoria contro l’oblio».
Si presenta come Chantal, Chantal Maas, ma il vero nome è Cheana. È nata in Romania, a Cluj Napola, cinquantre anni fa. «Mia madre è stata uccisa quando ero bambina, durante il pogrom sovietico. Sono rimasta senza famiglia: nel 1958 mi hanno affidato all’ambasciata belga, così sono cresciuta qui a Bruxelles». Gli studi, un lavoro da giornalista e fotografa, il matrimonio, una figlia e un figlio ora grandi. La vita in una discreta casa nei pressi del parco reale di Laeken, con una banda di cani e gatti che se la spassano d’amore e d’accordo in un giardino arruffato alla stregua del loro pelo. «Il nonno mi ha trasmesso la Shoah come eredità personale senza darmi le istruzioni per l’uso. Ero schiacciata dalle domande e sono andata a cercarmi le risposte». Da principio non intendeva visitare i campi di sterminio. «Avevo paura della mia reazione, non mi sentivo pronta. Immaginavo che sarei diventata aggressiva. Ma non andare sarebbe stato come mancare di rispetto alle vittime». Così un sabato Chantal si è incamminata col suo clarinetto verso lo Stammlager. «Era presto, non c’era un’anima. Il primo incontro l’ho avuto con tre neonazisti davanti ai forni crematori. È stato uno choc. Ancora peggio la reazione dei pochi altri visitatori di fronte alle provocazioni. Abbassavano lo sguardo, che coraggiosi!». Le è parso, in quel momento, che il filo della memoria si stesse sfaldando. S’è chiesta cosa potesse fare se non diventare lei stessa il testimone della tragedia, il piccolo motore della riconciliazione. Lei, «un’ebrea viva ad Auschwitz».
Non ci sono state difficoltà burocratiche. Chantal affitta per duecento euro al mese un piccolo appartamento nel cuore di quella che in polacco si chiama Oswiecim e lì ha trasferito tutto ciò che le era rimasto in Transilvania. «Ho caricato su un furgone ogni cosa, anche quelle di poco valore, doveva essere un viaggio simbolico che marcasse un nuovo inizio». L’otto agosto scorso le è stata riconosciuta la residenza. «Hanno messo su una bella facciata, dicono di essere contenti di avere un’ebrea in città. In realtà io sono il loro alibi: sebbene il primo papa non antisemita fosse di Cracovia, non si può discutere della Shoah con tutti i polacchi, non li fa sentire bene nella loro pelle. Hanno un senso di colpa profondo che cercano di cancellare mettendo in bella mostra la loro martirologia nazionale». Ogni giorno è scandito dalle ossessioni della memoria. «I simboli sono pesanti – confessa Chantal – La terra, le pietre e anche il sole sono impregnate di raccapriccio. Gli odori… Il riscaldamento è a carbone e i fumi saturano l’aria, oggi come allora quando i forni lavoravano a ciclo continuo. Come si può fare la doccia a Auschwitz? Io ci sono riuscita solo due volte». Una vita sospesa, a tratti tormentata dai fantasmi. «Le sere sono tristi, le notti troppo lunghe. Anche quando mi addormento facilmente, mi risveglio all’improvviso fra i sudori. Il silenzio può essere insopportabile. Il più piccolo suono fa sussultare. Sono le associazioni di idee terribili che scattano senza preavviso in questi luoghi». Nessuna minaccia in città, «solo frasi spiacevoli quando capita». Talvolta Cheana si sente gli occhi addosso, «non gli scappa nulla di ciò che faccio». Cerca gli altri ebrei, «perchè non è possibile che non ce ne siano, devono essere nascosti, non si dichiarano perchè hanno paura». Lei, invece, non ne ha. «Non mi fermo davanti a così poco – dice mentre si accende l’ennesima Gitane – Sono i neonazisti che non hanno coraggio. Sanno che non li temo e se ne stanno alla larga, come scandalizzati dall’idea che io sia lì indifesa e pronta al dialogo».
Quando calano le tenebre, Chantal si chiude nell’unica casa ebrea di Auschwitz. Su uno scaffale c’è il menorah, vicino all’entrata è appesa la mezuzzah. Tiene a bada gli spettri che le tentano lo spirito, scrive versi sull’Olocausto, glorifica l’accettazione della cultura degli altri e inveisce contro gli «adulti capricciosi/indifferenti/in cerca di nuovi/giocattoli da demolire». Dà tempo al tempo e «guarda nel suo cuore». Legge, scatta foto che mette su un sito internet (www.tolerance-au-feminin.com), ferma pensieri e esperienze su un diario online (est.skynetblogs.be). Lavora a un Piano, al progetto della sua vita: «Vorrei costruire una casa di legno, piccola, come nella tradizione ebraica. Un luogo aperto a tutti, l’antitesi del museo mangiasoldi, dove parlare del senso del giudaismo e confrontare le fedi dell’uomo nel nome della tolleranza». Il business di Auschwitz la disgusta. L’espressione di Chantal si fa ombrosa quando descrive il traffico «senza senso» degli stranieri che arrivano da Cracovia coi tour operator. «Visitano le mostre, guardano i documentari sugli schermi, e quasi non si accorgano di essere in un campo di sterminio». A Birkenau, protesta, «vanno a vedere un set cinematografico, li senti dire “guarda, è qui che hanno girato Schindler’s List». Hollywood si mette la coscienza in pace girando pellicole sulla Shoah. Lo stato polacco incassa, si fa pagare le mostre, il parcheggio, le guide…».
Con la sua costruzione di legno questa donna di ferro vuole cambiare il mondo. Ma non ha i soldi. «Ho venduto la casa in Transilvania – confessa – ora cerco i ventimila euro per comprare il terreno». I polacchi non glieli danno, le propongono di creare una fondazione nella quale non potrebbe avere voce in capitolo in quanto straniera. «Non ci sto – sbotta – non gli lascio il controllo. Peccato che, fuori dal paese, nessuno sia ancora andato oltre il sostegno morale». Il sindaco le ha proposto di lavorare al museo. Ha rifiutato. Non ambisce a essere una foglia di fico. Tirerà avanti da sola. «Quando avevo vent’anni non volevo sentire parlare del mio passato – sussurra – Adesso me lo sono preso sulle spalle e ho una bandiera, sono l’unica ebrea in un luogo dove ne sono morti più di un milione. E, viva, sfido chi vuole far finta che non sia successo nulla».
MARCO ZATTERIN – BRUXELLES
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