R.A. Segre
Lasciando da parte l’ostilità arabo-islamica contro gli ebrei e Israele, tre sembrano essere le principali ragioni che distinguono l’antisemitismo del passato da quello attuale. La prima è che di ebrei europei nei Paesi del Vecchio Continente non ve ne sono quasi più. La metà – 6 milioni sui 12 secondo le statistiche del 1939 – sono stati assassinati. Molti dei sopravvissuti sono emigrati fuori dall’Europa. E la maggioranza di quelli che oggi vivono in Italia, Francia e Germania non sono più di origine – e spesso di cultura – europea. In secondo luogo, questi ebrei oggi residenti in Europa hanno perduto il ruolo, la volontà e le ambizioni politiche e sociali del passato. L’assimilazione attraverso i matrimoni misti è aumentata, ma quella attraverso la conversione religiosa è finita. Il senso di identità fra coloro che si riconoscono come ebrei, anche se distanti dall’ebraismo, è invece cresciuto. In terzo luogo, mai prima nella storia d’Europa i governi sono stati così sensibili ai diritti degli ebrei rispettosi delle loro tradizioni.
C’è una differenza epocale fra l’essere ebrei perseguitati e indifesi, come nel passato, ed essere ebrei osteggiati, ma con la capacità di difendersi, come nel presente. L’esistenza di uno Stato ebraico sovrano costituzionalmente aperto a tutti gli ebrei, dotato di capacità di risposta, ha stabilito una volta per tutte il principio che la caccia agli ebrei – la caccia libera, gratuita, politicamente ed economicamente redditizia del passato – è finita. L’israelita non è più l’oggetto preferenziale della «banalità della violenza». Vorrei però far notare che l’antisemitismo presente in molti circoli liberali e progressisti è prodotto dal disappunto di vedersi privati, con la presenza di uno Stato di Israele, della nobile difesa – anche se per lo più solo a parole – di una categoria perseguitata. Questo ha contribuito, assieme ad altre ragioni, al trasferimento dell’attenzione protettiva sui palestinesi da parte di molti progressisti.
La cristallizzazione partigiana del senso critico non dovrebbe far dimenticare agli ebrei e agli europei quanto nobile e gratuito sia stato l’eroismo di coloro (oggi sappiamo anche di esempi di musulmani in Africa del Nord e nei Balcani) che nell’inferno nazista hanno osato proteggere gli ebrei. Di questo eroismo c’è un riconoscimento istituzionalizzato in Israele. In minor misura in Europa, dove crescono i centri del ricordo della Shoah. Ma il dovere di difendere questa terrificante memoria non dovrebbe alimentare sentimenti negativi dell’Europa verso se stessa e verso Israele. Non mi riferisco all’ignoranza della Shoah di cui le nuove generazioni europee e gli arabi hanno difficoltà a sentirsi in colpa. Sarebbe tuttavia utile che si sapesse di più sui campi di sterminio sparsi sull’intero territorio europeo nei quali non è morto il popolo ebraico, ma sono morti i valori dell’Europa. Sarebbe utile rendere i giovani più consapevoli del prezzo che la società europea ha pagato per questo sterminio e che continua a pagare per la sostituzione di 6 milioni dei suoi più integrati, produttivi, patriottici cittadini con 20 milioni di nuovi europei che della cultura dei valori dell’Europa sanno poco e in parte li osteggiano.
In questa ignoranza c’è un miscuglio di vergogna e di invidia che è una delle ragioni dell’anti-israelianismo europeo e arabo. Israele è il frutto delle idee europee dell’Ottocento e del Novecento. Disturba perché è un irritante memento di un Occidente senza complessi di colpa, pur restando cosciente dei propri difetti. Rappresenta nell’immaginario dei suoi avversari un tipo di Occidente che continua a fare figli perché crede nel futuro; una propaggine di Europa che non ha fallito. Israele disturba perché è un pezzo di quella cultura e di quella energia che per due secoli ha affascinato e attratto i popoli del mondo.
Israele non è l’Europa. Ma dello spirito dell’Europa e dei suoi valori è espressione viva e orgogliosa. Per questo soffre quando si sente amato solo per i suoi morti. Non ha bisogno di vittimismo. Ha bisogno di far capire, superando la cacofonia dei pregiudizi, quanto sia dannoso l’antisemitismo per chi lo pratica: una forma nuova di un veleno antico, più pericoloso oggi per gli europei e i musulmani che per gli ebrei stessi. È un veleno, una droga che comporta non solo criminalità, ma stortura del pensiero, traviamento della logica di potere. Il presidente francese, citando Bernanos, ha recentemente ricordato nella Basilica Lateranense che l’avvenire «non si subisce ma si crea». Che la speranza trova la sua più alta espressione «nella disperazione dominata». Israele, l’ebraismo lo sanno e da questa speranza traggono la loro forza.
Credo perciò sia giunto il momento di metter fine al vittimismo e di condividere con l’Europa, e se possibile col mondo arabo, questo senso di speranza. Gli ebrei e gli israeliani non hanno il monopolio della verità, né quello della giustizia e neppure di quell’acume economico che gli antisemiti attribuiscono loro. Hanno però più di altri popoli l’esperienza della sopravvivenza. Sono caratterizzati da una fede, da una cultura e da una storia che ha fatto di loro un fenomeno che ricorda i fiumi carsici. Sono una realtà viva che più volte è scomparsa dalla storia come sovranità politica per riapparirvi in mezzo alle rovine dei suoi persecutori.
Oggi che, dopo tanta sofferenza, ingiustizia, ignominia, gli ebrei sono riapparsi come soggetto responsabile e non più come oggetto imbelle sulla scena internazionale, ritengo abbiano il dovere, oltre all’interesse, di ricordare agli altri quanto l’umanità abbia patito e continui a patire per l’avvelenamento antisemita.
Il Giornale – domenica 27 gennaio 2008