Ugo Volli
KEYWORDS Divine face, Exodus, Moses, Maimonides, Metaphors in the Bible, body metaphors.
ABSTRACT In this article I will talk about the role of the face in the Hebrew text of the Bible, in particular reference to the attribution, certainly problematic but very widespread and persistent, of a “face” to the Divinity. The paper starts from the examination of the role of body metaphors in the naming of abstract entities and qualities, then proceeds to the examination of facial metaphors in biblical Hebrew and goes on to examine those concerning the divine face, focusing in particular on the episode of the book of the Exodus in which Moses asks to see the divine “glory”, but this is denied him because “nobody can see my face and live”. I analyze in particular the interpretations that have been given by some masters of the Jewish tradition such as Rashi, Maimonides, Sforno.
1. Metafore corporee e facciali nelle scritture ebraiche
In quasi tutte le culture, qualità, azioni e concetti “sottili” sono compresi in riferimento al corpo, spostati cioè dal campo astratto del pensiero a quello concreto dei dati corporei, delle esperienze concrete, degli oggetti e delle azioni fisiche. Vigono relazioni linguistiche (spesso inconsapevoli ma determinanti per la forma dell’espressione) fra intelligenza e vista, rabbia e fegato, forza e muscoli, ecc. Questi spostamenti dal concettuale al corporeo sono pressoché universali, sia per quel che riguarda la loro estensione culturale, sia per il campo d’applicazione. Essi costituiscono una parte importante di quel fenomeno linguistico che Lakoff & Jonsohn (1980) hanno denominato “metafore ontologiche” o “strutturali”.
Se si guarda alle origini etimologiche della nostra terminologia intellettuale, è molto difficile trovare denominazioni che non risentano di questa generazione corporea, a partire da “idea” (← vedere), “pensare” (← pesare), “comprendere” (← prendere con), “concetto” (← concepire), “passioni” (← patire), “teoria” (theaomai, guardare), “riflessione” (← riflesso) “essere su” o “giù”, “spiegare [← svolgere]… Questi sono solo alcuni esempi scelti a caso in lingua italiana, che testimoniano della natura metaforica (← metà phorein, spostare) del nostro lessico intellettuale, anche se queste metafore sono state nel tempo più o meno tutte naturalizzate (natura ← nascita) o catacresizzate (Ricoeur 1975) e dunque non sono più percepite come tali, anche se questa origine materiale continua ad agire quantomeno nell’organizzazione dell’asse del sistema del lessico teorico. Un’indagine sui linguaggi particolari delle diverse discipline scientifiche e teoriche mostra facilmente che questa condizione metaforica del lessico intellettuale è del tutto comune anche nel discorso scientifico che pure ha statuito significati esatti per i propri concetti; lo stesso accade a maggior ragione studiando altre basi linguistiche. Il lessico intellettuale dunque è tutto secondario, attinto per astrazione e per metafora all’esperienza primaria dell’uso quotidiano del corpo.
Un aspetto peculiare di questa grande determinazione materiale si ritrova nel rapporto fra concetti, emozioni e entità astratte e parti del corpo umano, che vengono pensate come sedi caratteristiche di queste attività sottili. Nelle varie culture esistono cioè spesso delle localizzazioni somatiche di esperienze o funzioni caratteristiche del sistema cognitivo e passionale; non è detto che si tratti di metafore o piuttosto di metonimie (che Aristotele – Retorica, libro III – considera metafore particolari), perché la loro base può essere eziologica: una funzione intellettuale o passionale può essere attribuita a una parte del corpo perché si crede che si svolga proprio lì, sia prodotta proprio da quella parte del corpo. Ma significativamente non sempre tale somatizzazione è unitaria: noi diamo per scontato che la sede del nostro “pensiero” sia “nella testa”, mentre i “sentimenti” positivi (come l’”amore” e la “compassione”) starebbero nel “cuore”, le “passioni” negative (come la “rabbia”) nella “pancia” (ma anche “sullo” “stomaco” e “nel” “fegato”) e inoltre possiamo avere o meno la “spina dorsale” della dignità e le “palle” della volontà, essere “in gamba”, “aver fegato” (nel senso di coraggio, parola la cui etimologia rimanda però al cuore, com’è confermato da locuzioni come “cuor di leone”), essere “uomo di pancia” (nel senso dell’importanza e dell’onore, che in ebraico si direbbe kavod che a sua volta rimanda al fegato), perdere “la faccia” ecc. Anche molte azioni fisiche e sociali sono descritte attraverso queste metafore: da “gusto” (per esempio musicale o artistico, anche se paradossalmente si gusta una musica con le orecchie e una pittura con gli occhi, e non con le papille gustative della bocca) a “rimasticare” (un’idea, che pure è legata etimologicamente alla vista e non alla bocca), “vedere” o “intuire” (metafore visive per qualcosa di invisibile com’è un concetto, che rimanda metaforicamente a un neonato) a “sputare” (per esempio: parole velenose), “abbracciare” (una posizione), “stringere” (un accordo, anche se in inglese, come in ebraico si usa la metafora del “tagliare” che rimane nella cultura materiale italiana, almeno nella sua variante contadina col gesto che alla conclusione di un contratto verbale consiste nella stretta di mano dei contraenti, che viene “spezzata” da un testimone).
Una metaforica del corpo è sottintesa dalla maggior parte della semantica di tutti i linguaggi ed essa è molteplice, segmentando in maniera arbitraria i concetti in gioco. In altre culture questa topologia è spesso molto diversa; per fare solo un esempio nella maggior parte del mondo greco il pensiero era collocato “nel cuore” e non nel cervello, mentre le passioni si ponevano “nel diaframma”. Altre localizzazioni sono ancora più complesse, come i “bernoccoli” sul cranio della frenologia ottocentesca. Per fare solo un esempio fra i moltissimi possibili, in un passaggio del Talmud babilonese (trattato “Shabbat”, foglio 33b) leggiamo incidentalmente, come premessa proverbiale a un ragionamento su argomenti medici, che
אַף עַל פִּי שֶׁכְּלָיוֹת יוֹעֲצוֹת, וְלֵב מֵבִין, וְלָשׁוֹן מְחַתֵּךְ — פֶּה גּוֹמֵר
i reni consigliano, il cuore capisce, e la lingua modella la voce che emerge dalla bocca, tuttavia, la bocca ne completa [il senso].
E’ interessante notare che la divisione fra “consiglio” e comprensione” o quella fra “modellamento” e “realizzazione del senso” di una parola nel nostro lessico e anche in quello ebraico non sono rappresentate da singole unità lessicali, ma risultano ben specificate da localizzazioni
La struttura di senso di queste collocazioni corporee è molto ricca. Come ho accennato, abbiamo localizzazioni (“il cuore mi dice”) ma anche metafore (“un uomo cordiale” o “di fegato”) e metonimie (“il piè veloce Achille”, “una bella testa”). In genere queste figure riguardano il corpo, ma spesso investono soprattutto il volto (“perdere la faccia”) e i suoi organi: “avere fiuto” negli affari, uno “sguardo acuto” in filosofia, “prestare orecchio” agli altri, “me ne faccio un baffo”, “parlo una lingua”, “un paesaggio ridente” “buona mira”, “sbavare per un incarico” “un faccia a faccia tempestoso”, “un paesaggio mozzafiato” ecc. Un sistema semantico/metaforico affine al volto perché le è sovraordinato e particolarmente ricco è quello della testa/capo, da cui vengono “in testa”, nel senso di all’inizio ecc., “testa di ponte” “testata” di giornale, di corteo “testatina di una pagina”, “capo-” (gruppo, squadra, reparto, anno, luogo ecc.). Sul lessema “testa” abbiamo uno studio ben noto di Greimas (1966), che cerca di definire l’estensione lessicale di questo termine nei suoi diversi usi usando semi astratti quali “estremità”, “superatività” ecc. ; invece fattualmente il processo è andato senza dubbio nel senso inverso, dall’estensione metaforica di un oggetto concreto alla sua definizione astratta. E’ interessante a questo proposito anche confrontare il trattamento della collera in Greimas (1983) e in Lakoff, il primo secondo un trattamento definitorio per tratti, il secondo con uno metaforico da un prototipo.
Sulla metafora e in generale sulle figure retoriche vi è una grande produzione teorica che cerca di caratterizzarne la casistica molto ricca e complessa secondo meccanismi linguistici e semiotici sempre più sofisticati, ma per questo discorso non ci serve altro se non l’idea di base, già proposta da Aristotele (Poetica, 21, 1457b 5-10; 22, 1459a 5-10. Per un commento Ricoeur 1975) della metafora come implicita analogia: quando parlo di gambe del tavolo o del braccio di una gru, indico semplicemente le parti di questi oggetti che sono simili o svolgono una funzione analoga a quella dei nostri arti. In genere non badiamo a queste figure corporee perché esse sono catacresizzate, hanno perso peso semantico, e quindi non riconosciamo il carattere metaforico (e l’eventuale riferimento corporeo di certe espressioni, fino a che per qualche ragione esso viene riattivato. Spesso questa è una recupero che fa parte del fascino della poesia (“gli occhi ridenti e fuggitivi”) e della sua capacità di tematizzare la forma del suo discorso, come ha insegnato Jakobson.
2. Metafore facciali nella lingua ebraica
L’ebraico, e soprattutto l’ebraico biblico, ha una forte predilezione per le metafore corporee (come il famoso “braccio disteso” di Dio [Ez 20: 34-35], su cui tornerò) e in particolare per quelle facciali, che usa non solo per nominare situazioni, fatti, oggetti, ma anche per costruire termini sincategorematici o di relazione. In questo paragrafo ne considero alcune.
Partiamo da פנים (panim, “faccia”), che grammaticalmente è un pluralia tantum, cioè grammaticalmente sembrerebbe indicare “i volti”, ma questo tratto plurale non è attualizzato semanticamente perché non esiste l’unità singolare corrispondente; del resto in ebraico vi sono numerose entità che compaiono solo al plurale o al duale, come שמיים, shamaim, “cielo” o מים, maim, “acqua”. E’ una radica diffusissima, la Bibbia ebraica (o Tanach, come essa viene denominata in ebraico)ha 2128 occorrenze (più 135 del verbo פָָנָה panah su cui tornerò) su un totale di 305.000 parole con molteplici significati più o meno metaforici.
Da questa parola vengono infatti termini diffusissimi come לפני (lifnè, “davanti”o “prima”, con valore preposizionale che letteralmente si potrebbe leggere come “alla faccia” o “verso la faccia”), mentre il valore avverbiale della stessa unità semantica è reso con lepanìm לפנים). Queste parole hanno un’etimologia semplice ma interessante. Si scompongono in li o le (ל) cioè la comunissima preposizione “a, per, verso” (come l’inglese to) e “faccia, viso” פנים panim. “Davanti” è dunque dalla parte della faccia o verso la faccia, il che è ragionevole prendendo il punto di vista del soggetto, ma costituisce un problema torico per l’orientamento dell’esperienza del tempo, su cui tornerò subito. La differenza fra l’espressione avverbiale e quella preposizionale deriva dal fatto che in quest’ultima il lessema per “faccia” compare allo “stato costrutto” che è la modificazione che in ebraico subiscono le parole quando sono seguite da un complemento di denominazione e dunque fanno parte di un’espressione composta, il che testimonia che l’origine etimologica della parola come unione di una preposizione e di un sostantivo è ancora ben presente alla lingua.
Ciò che è certamente caratteristico e più interessante è che dal senso spaziale di “davanti” si passi a quello temporale di “prima”, come se sulla retta del tempo si camminasse all’indietro, vedendo davanti a noi solo il passato, secondo l’immagine di Benjamin (1940) sull’angelo della IX “tesi di filosofia della storia”:
Es gibt ein Bild von Klee, das Angelus Novus heißt. Ein Engel ist darauf dargestellt, der aussieht, als wäre er im Begriff, sich von etwas zu entfernen, worauf er starrt. Seine Augen sind aufgerissen, sein Mund steht offen und seine Flügel sind ausgespannt. Der Engel der Geschichte muß so aussehen. Er hat das Antlitz der Vergangenheit zugewendet. Wo eine Kette von Begebenheiten vor uns erscheint, da sieht er eine einzige Katastrophe, die unablässig Trümmer auf Trümmer häuft und sie ihm vor die Füße schleudert. Er möchte wohl verweilen, die Toten wecken und das Zerschlagene zusammenfügen. Aber ein Sturm weht vom Paradiese her, der sich in seinen Flügeln verfangen hat und so stark ist, daß der Engel sie nicht mehr schließen kann. Dieser Sturm treibt ihn unaufhaltsam in die Zukunft, der er den Rücken kehrt, während der Trümmerhaufen vor ihm zum Himmel wächst. Das, was wir den Fortschritt nennen, ist dieser Sturm.[1]
Questo orientamento fondamentale è confermato dal fatto che “dopo” (avverbio) si traduce con achàr (אחר), cui corrisponde la preposizione לאחר leachàr, sempre con l’inserimento della preposizione “a, verso” li / le (ל). Achàr però è anche “dietro”: quindi in ebraico il prima è davanti e il dopo è dietro. Forse questo si spiega con l’idea dell'”attardarsi, restare indietro, seguire” per esempio in un cammino (tutti verbi che si formano a partire da questa radice) – ma tale orientamento spaziale a un parlante italiano appare problematico, visto che noi per esempio “ci lasciamo il passato dietro le spalle” o “guardiamo avanti al futuro”. Per completare l’asse semantico, vale la pena di notare che in ebraico acharon אחרון , derivante dalla stessa radice, significa “ultimo” (mentre il primo è rishon ראשון, che deriva da “testa, capo”). Va notato infine che le stesse consonanti di achàr (אחר) si possono leggere achèr, che significa “altro, diverso”. Dato che in ebraico le vocali sono aggiunte dopo, solo nei testi che devono essere agevolati, per stranieri, principianti o bambini, per un parlante ebraico risulta evidente che ciò implichi un legame semantico, come del resto attesta uno dei più autorevoli dizionari etimologici dell’ebraico biblico, quello raccolto a partire dai commenti dal grande studioso e fondatore dell’ortodossia moderna Samson Rapael Hirsh (Clark 1999: 8). Per la sua rilevanza rispetto all’apparizione divina di Es. 33, la parola interessa anche a Maimonide (1186-1190, 1: 38):
Dietro [achor] è un termine equivoco. E’ il termine che designa il lato posteriore […] Talora è un avverbio di tempo, con il senso di “dopo” […] Indica il fatto che un qualche individuo segue e imita le tracce di una certa condotta di vita.
Derivano da panim, con meccanismi di composizione analoghi, anche altre parole diffuse nell’ebraico biblico, e in parte anche in quello moderno, comeמפני (mifnè “a causa di”, “per via di”, letteralmente “dalla faccia”), con l’uso della preposizione mi מ che può diventare congiunzione causativa: מפני ש (mifnè she- “poiché”). Lo stesso meccanismo si applica a בפנים ( bifnim, “dentro”) con l’uso della preposizioneב be, “in”Ma abbiamo anche degli usi sostantivi che si raggruppano intorno a un nodo semantico in cui “faccia” sta per persona, come per esempio in קבלת פנים (kabbalat panim, “accoglienza”); uno in cui “faccia” sta per “superficie” come in פני המים (pené hamaim, “superficie dell’acqua”) o “interno” (per esempio di un oggetto o di una casa פנימי (penimi). E’ interessante il fatto che, come l’italiano “volto”, participio passato da “volgere”, anche פנים è in relazione con una radice verbale piuttosto diffusa (פָָנָה, panah) che significa “girare”, “voltare”, dirigersi. Vale la pena di riportare infine la ricerca che dedica ancora a questa parola ancora Maimonide (1186-1190, 1: 37) che vi è interessato per la stessa ragione per cui ne analizzeremo in seguito il senso, vale a dire la sua attribuzione a Dio nel cap. 33 dell’Esodo. Devo omettere purtroppo gli esempi scritturali citati:
Faccia [panim] è termine equivoco e la più parte della sua equivocità è in relazione al suo uso metaforico. E’ un termine che indica la faccia di ogni animale […] E’ anche un termine che indica l’ira […] Con questo significato lo si usa spesso per indicare lira di Dio e la sua rabbia […] E’ anche un termine che indica la presenza e il fermarsi di un individuo. […] Faccia è anche avverbio di luogo, che in arabo si rende con le locuzioni “in tua presenza”, “nelle tue mani”. Molti sono gli usi di questo significato in rapporto a Dio […] Faccia è anche in ebraico un avverbio di tempo, con il significato di “prima” o “in antico” […] Faccia è anche un termine per indicare la cura e il riguardo. […] Secondo questo significato si dice anche “il Signore ti guardi in faccia e ti dia pace” [è un verso della benedizione sacerdotale o birkhat kohanim di Num 6: 26, UV] – ossia la Provvidenza ti accompagni.
Un’altra parola importante, al centro della costellazione metaforica dell’ebraico è פה (peh, “bocca”), che ha 497 occorrenze nel Tanach. Ne derivano espressioni come “a memoria” בעל פה (be-‘al peh, lett. “sulla bocca”) che può significare anche anche “orale” come nella locuzione diffusissima תורה בעל פה (Torah she-bealpeh ,“Torà orale”), cioè il Talmud e in genere la tradizione religiosa di Israele, che è pensata integrare la תורה שבכתב, Torah she-bikhtav la Torah scritta (letteralmente, che è nella scrittura). E poi ancora: “all’unanimità” פה אחד (peh ehad “con un’unica bocca”, mentre la parola italiana allude all’unità di un’anima), “imboccatura di un pozzo” (peh shel bar פה של באר) o di una grotta (פה מערה peh ma’rah), con la stessa metafora dell’italiano.עַל פִּי (al pi, letteralmente “sulla bocca” ma anche לפי, lepì letteralmente “alla bocca”)è la traduzione della nostra locuzione preposizionale “secondo…”, “in accordo a”. Con l’aggiunta di un lessema af che ritroveremo presto, אַף עַל פִּי (af al qualche voilta con l’aggiunta di pi)esso viene a significare “nonostante”.
Una dimostrazione della flessibilità metaforica del termine si trova nell’interpretazione del verso 28 del capitolo 25 di Genesi:
וַיֶּאֱהַב יִצְחָק אֶת-עֵשָׂו, כִּי-צַיִד בְּפִיו ,
che molto letteralmente significa “Giacobbe amava Esaù, per la selvaggina nella sua bocca”. Vi è un’ambiguità nel pronome possessivo, che può riferirsi a Isacco o a Esaù, ma soprattutto non è scontato il senso dell’espressione “selvaggina nella bocca”: la traduzione della CEI intende “perché la cacciagione era di suo gusto”, dove la bocca (di Esaù) è la sede del piacere sensoriale del gusto. Lo stesso asse metaforico può essere spostato sul padre, come fa la traduzione canonica ebraica in italiano di A.S. Toaff in (Di Segni 1995): “Isacco, al quale piaceva la caccia, prediligeva Esaù”. Un’interpretazione assai diversa è quella della Vulgata, che scrive “eo quod de venationibus illius vesceretur” tratta probabilmente dalla LXX “ὅτι ἡ θήρα αὐτοῦ βρῶσις αὐτῷ”, (“perché mangiava la sua cacciagione”) dove la bocca (di Isacco) viene intesa come il luogo dell’atto della nutrizione, secondo una tradizione interpretativa che è presente anche nel Targum, l’antica traduzione/spiegazione orale della Torah in aramaico, messa per iscritto intorno al I secolo. Ma vi è anche un importante Midrash ebraico di epoca talmudica, Bereshit Rabbah (LXIII, 10), che invece interpreta: “nella bocca di Esaù. Egli infatti intrappolava suo padre, ingannandolo con le sue parole.” (Questo è il riassunto dell’autorevolissimo commento di Rashi di Troyes (XI secolo; trad. it.1985: 206)
Siamo arrivati così a un campo di proiezione importantissimo nel nostro ambito, quello della parola. Oltre che dalla bocca esso è espresso dalle sue parti rilevanti: “labbro”si dice שפה sefà (175 occorrenze nel Tanach) ed esprime anche la facoltà di parola e il linguaggio; “lingua”(tanto l’organo nella bocca quanto lo strumento di comunicazione) si dice לשון lashon (117 occorrenze). Da questo lessema viene “maldicenza” לשון הרע, lashon harah (letteralmente “lingua malvagia”).È significativo che una vicinanza fisica e funzionale produca un significato simile. In italiano naturalmente usiamo “lingua inglese” ma non “labbro inglese” Si può aggiungere ancora רוח, ruach (388 ricorrenze), che come spiritus in latino (da spirare) e άνεμος, anemos in greco significa sia “vento” che “spirito”, probabilmente partendo dal senso del “fiato”, “respiro” (che si dice anche neshimah, נשימה mentre “anima” è neshamah, נשמה). A questo proposito rimando ai capitoli 60 e 61 della prima parte di (Maimonide 1186-1190). Una figura particolarmente importante legata al fiato, alla bocca, alle labbra e alla lingua è “voce”, kol, קול che ha 507 occorrenze nella Bibbia, anch’essa con significati metaforici nell’ordine del dire e dell’ordinare. Alla voce e alla parola corrisponde come in italiano un verbo “ascoltare” che significa anche “intendere, capire,badare, obbedire” ecc. : שמע, shama . Nella Bibbia ebraica vi sono 1160 occorrenze di questa radice.
L’inventario delle metafore che attingono a parti del volto può proseguire con אף, af (“naso”, “narice” e di qui “ira”), derivante da una forma verbale ָאנף, anafa, col significato di “arrabbiarsi”; al duale apaim, אפהים, “narici” può significare “faccia”. Quest’ultimo lessema viene usato soprattutto per definire l’atto liturgico della “prostrazione” (“cadere sulla faccia”) nefilat apaim, נפילת אפיים. Ma con la stessa ortografia e la stessa pronuncia di af vi è anche una congiunzione spesso avversativa (“anche”, “benché”) da cui il già citato אף על פי כן, af al pi ken, “nondimeno”. In italiano è difficile percepire un legame semantico, che invece in ebraico emerge dall’immagine dell’ira che si esprimerebbe fisioniomicamente dalla contrazione delle narici. Nella Bibbia ebraica il verbo ha 14 occorrenze, il nome 276 e la congiunzione 134 .
Vi è poi occhio ain (887 occorrenze) עין da cui faccia a faccia עין בעין ain beain; malocchio ain rah עין רעה. Per Maimonide 1186-1190 ain “designa [anche] la fonte […] l’occhio che vede […] il provvedere a qualcuno. Se ad ‘occhi’ è unita la parola ‘vedere’ o ‘avere una visione’ […] tutto questo significa una percezione intellettuale, non una percezione sensibile, perché tutti i sensi comportano un’affezione e un’impressione e Dio opera un’azione ma non è oggetto di affezione”.
Iperonimo rispetto a “volto” è assai frequente (599 occorrenze) “testa”, rosh, ראש (c’è una variante aramaica rara, che nel Tanach si ritrova solo in 14 occorrenze e invece è frequente nei testi talmudici: resh ֵרֵאשׁ). Vengono da qui anche: il nome di una pianta velenosa, rosh, scritta con le stesse lettere; “capodanno” rosh hashanà, ראש השנה; “inizio, principio”, reshit , ראשית . In generale questa parola è molto usata, come in italiano e in molte altre lingue, per indicare l’inizio e la guida.
Quella dei rimanti al viso, ai suoi iponimi e iperonimi costtuisce insomma in ebraico una rete metaforica molto ricca. Alle parole che ho citato, le concordanze attribuiscono in tutto circa 6.000 occorrenze su un totale di 304,901 parole contenute nella Bibbia ebraica (circa il 2% coperte però solo da una decina di unità su un lessico complessivo di di 8674 lessemi diversi, di cui però un quarto sono nomi propri, lasciando 6,259 parole comuni). Questo fortissimo impatto della terminologia del volto, circa venti volte superiore a quel che accadrebbe in caso di una distribuzione casuale, che si riscontra in un testo in genere così poco interessato alle descrizioni dettagliate di persone e cose (un fatto su cui è insuperata la riflessione di Auerbach 1946), ci porta a riflettere sulle implicazioni implicite di questo linguaggio metaforico.
Per esempio, i primi due versetti della Torà, il Pentateuco, si leggono normalmente in traduzione così:1 In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Ma in ebraico abbiamo due volte la radice di faccia, una quella di testa, una quella di respiro, com’è evidenziato qui di seguito con il neretto:
בְּרֵאשִׁ֖ית בָּרָ֣א אֱלֹהִ֑ים אֵ֥ת הַשָּׁמַ֖יִם וְאֵ֥ת הָאָֽרֶץ׃ וְהָאָרֶץ, הָיְתָה תֹהוּ וָבֹהוּ וְחֹשֶׁךְ עַל-פְּנֵי תְהוֹם; וְרוּחַ אֱלֹהִים מְרַחֶפֶת עַל-פְּנֵי הַמָּיִם.
Beninteso, non è detto che queste presenze di elementi riconducibili al volto siano avvertite come tali, o perché sono in parte riassorbite in espressioni complesse (come bereshit che dà alla radice rosh, “testa” una desinenza astrattiva it, paragonabile al suffisso -zione in italiano, e il prefisso di stato in luogo be; o come al-pené letteralmente “sulla faccia dell’acqua”, inteso immediatamente come “sulla superficie”); o perché sfruttano un lessico già in partenza metaforico (come ruach Elo-him, che può essere già su una base puramente lessicale “vento divino” come pure “fiato di Dio” o “spirito di Dio”).
Dal punto di vista semiotico però la consapevolezza del parlante non ha una particolare importanza, perché almeno a partire da Saussure, Jekobson e Lévi Strauss sappiamo che la struttura linguistica agisce non solo nonostante il fatto che i parlanti non ne siano consapevoli, ma proprio in parte a causa di questa sua condizione inconscia. Dunque le metafore del volto sono attive e contribuiscono a dare all’ebraico la sua peculiare concretezza espressiva e il suo altrettanto caratteristico dinamismo, così spesso sottolineati da linguisti e teologi (a questo proposito mi limito a rimandare a Boman 1954). Il problema di questo sistema metaforico diventa però molto più grave quando esso investe la presenza divina nelle Scritture e dunque la teologia.
2. Il volto divino
Fin qui infatti abbiamo esaminato solamente alcuni dati linguistici, seppur estratti da un testo che viene pensato come sacro; quel che rende interessante e forse imbarazzante questa larga base metaforica, è che essa è applicata dal testo sistematicamente alla divinità, autorizzando dunque o forse imponenendo un’immagine antropomorfa della divinità. Questa corporeità del divino è negata nella maniera più categorica dal terzo dei principi di fede proposto da Mosè Maimonide (1166-1168) nel suo commento alla Mishnà. La parte che contiene i 13 principi è il commento al decimo capitolo del trattato “Sanhedrin” della Mishnà, noto col titolo Perek Helek ( il testo ebraico è qui:https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Rambam-Helek-Holzer-HB33111.pdf , quello inglese da cui ho tradotto la citazione seguente, tratta dalla The Jewish Quarterly Review, Vol. 19:1 (October, 1906), pp. 24-58 si può consultare qui: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Rambam-Helek-Abelson_(English).pdf )
Il terzo principio fondamentale: dobbiamo credere che sia incorporeo, che la sua unità sia fisica né potenzialmente né effettivamente. Nessuno degli attributi della materia può essere predicato da Lui, né movimento, né riposo per esempio. Non possono riferirsi a Lui accidentalmente o essenzialmente. Ecco perché i nostri saggi gli negarono la composizione e la separazione e dissero: “In alto non c’è né seduta né in piedi, né desiderio né stanchezza” (Talmud babilonese trattato Hagigah 15a), cioè, né composizione né separazione, e disse: “In alto non c’è né sedersi o stare in piedi, né desiderare né stanchezza ”(Hagigah 15a), cioè, né composizione né separazione, come attesta l’uso biblico di queste parole. Il profeta chiese: “A chi puoi paragonare Dio, a chi potrebbe assomigliare?” (Is. 40:18). Se fosse un corpo, sarebbe come gli altri corpi. Ogni volta che la Scrittura lo descrive in termini corporei come camminare, stare in piedi, seduti, parlare e simili, parla metaforicamente. Così i nostri saggi dissero: “La Torah parla in linguaggio umano” (Berakhot 31b). Questo terzo principio fondamentale è insegnato nel versetto biblico: “Non hai visto alcuna immagine” (Deut. 4:15). Questo verso significa dire che non si può concepire Lui come se fosse un’immagine come quelle di Baal, poiché, come abbiamo mostrato, non ha alcun corpo, in realtà o potenzialmente.
Questa complessa formulazione è stata poi abbreviata nella forma liturgicamente più diffusa sotto il titolo אני ממין Ani Maamin (“Io credo”) così:
3) Io credo con fede completa che il Creatore, benedetto sia il Suo Nome, è incorporeo, che non ha alcun carattere antropomorfo, e che non ha assolutamente un’immagine reale. (https://it.chabad.org/library/article_cdo/aid/1741073/jewish/Ani-Maamin-Io-credo.htm)
In realtà la posizione di Maimonide, pur essendo stata progressivamente e generalmente accettata come un presupposto fondamentale della propria concezione religiosa dall’ebraismo a partire dal medioevo, non fu invece sempre totalmente o parzialmente condivisa da un certo numero di altri pensatori ebraici, anche molto autorevoli. (Per una discussione rimando a Berman 2020 e Shapiro 2004). Il fatto è che nel testo della Torah ritornano di continuo delle locuzioni che la contraddicono. Non si tratta solo del “braccio potente” cui ho accennato, ma del fatto che a Dio sono spesso attribuite qualità corporee come “scendere” verso al terra e dunque avere posizione (così per esempio nell’episodio della Torre di Babele, Gen 11:7 o all’inizio della liberazione dall’Egitto in Es 3: 18), “camminare” nel Giardino dell’Eden (Gen 3: 8), apparire ad Abramo (Gen 18:1) e a Mosè (Es 3), “guardare l’accampamento egiziano” (Es 14: 24), ecc. Prima di trarre qualche conseguenza di questo linguaggio, è interessante esaminare un po’ meglio qualche passo in cui compare in maniera più esplicita il volto divino.
Partiamo dall’espressione dell’ira divina, che è sempre descritta a partire dal naso, il quale nel testo biblico può assumere aspetti straordinari. Così per esempio, nel Salmo 18 il fiato delle narici divine (cioè l’ira) scuote la terra; il fumo esce dalle narici e il fuoco dalla bocca. Si tratta di descrizioni potentemente concrete, anche se spesso filtrate in parte dall’eufemismo delle traduzioni più “religiose”.
7. Nella mia angoscia invocai il Signore, gridai al mio Dio. Egli udì la mia voce dal suo tempio, il mio grido giunse a lui, ai suoi orecchi. 8. La terra tremò e si scosse; vacillarono le fondamenta dei monti, si scossero perché egli era sdegnato
Dopo di che appare una evocazione dell’ira estremamente concreta, nelle forma di una descrizione del volto
עָלָה עָשָׁן בְּאַפּוֹ – וְאֵשׁ-מִפִּיו תֹּאכֵל; גֶּחָלִים בָּעֲרוּ מִמֶּנּו
9 Un fumo saliva dalle sue narici; un fuoco consumante gli usciva dalla bocca e ne venivano fuori carboni ardenti
Seguono altre immagini antropomorfe, anche se meno pertinenti al tema di ricerca di questo articolo:
10. Allora piegò i cieli e discese, con una nube sotto i suoi piedi 11. Salì sopra un cherubino e volò librandosi sulle ali del vento […] 14 Il Signore tuonò dal cielo e l’Altissimo emise la sua voce […] Allora apparvero le profondità del mare, si scoprirono le fondamenta del mondo, alla tua minaccia, Signore, al soffio di vento delle tue narici.
Il problema, teologico, prima ancora che linguistico o semiotico, è quanto queste immagini vanno prese sul serio e quanto invece sono immagini poetiche che vanno considerate puramente metaforiche. Il problema è particolarmente grave dato che si tratta di una scrittura considerata “ispirata” e ancor di più per una tradizione fortemente attaccata alla lettera del testo sacro come quella ebraica (su questo tema rimando al mio Volli 2019). Il fatto è che questo testo, con le sue modalità antropomorfe non è affatto isolato. Un altro esempio significativo è Isaia 30: 27-28
27. Ecco, il nome del Signore viene da lontano; la sua ira [letteralmente: naso] è ardente, grande è il suo furore; le sue labbra sono piene d’indignazione, la sua lingua è come un fuoco divorante; il suo fiato è come un torrente che straripa, che arriva fino al collo.[…]
הִנֵּה שֵׁם-יְהוָה, בָּא מִמֶּרְחָק, בֹּעֵר אַפּוֹ, וְכֹבֶד מַשָּׂאָה; שְׂפָתָיו מָלְאוּ זַעַם, וּלְשׁוֹנוֹ כְּאֵשׁ אֹכָלֶת.
וְרוּחוֹ כְּנַחַל שׁוֹטֵף, עַד-צַוָּאר [..]
Come si vede le metafore corporee sono molto diffuse, spesso hanno forme stereotipate come gli epiteti studiati da Malcolm Parry (1971) e poi considerati segni caratteristici della “letteratura orale” (Ong 1982). Essi non riguardano solo il volto ma spesso vi si associano. Per esempio la liberazione dell’Egitto è fatta da Dio “con mano potente” (Es, 13:2) e “braccio disteso” (Ez 20: 34-35):
וְהוֹצֵאתִי אֶתְכֶם, מִן-הָעַמִּים, וְקִבַּצְתִּי אֶתְכֶם, מִן-הָאֲרָצוֹת אֲשֶׁר נְפוֹצֹתֶם בָּם–בְּיָד חֲזָקָה וּבִזְרוֹעַ נְטוּיָה, וּבְחֵמָה שְׁפוּכָה.
וְהֵבֵאתִי אֶתְכֶם, אֶל-מִדְבַּר הָעַמִּים; וְנִשְׁפַּטְתִּי אִתְּכֶם שָׁם, פָּנִים אֶל-פָּנִים.
34 Poi vi farò uscire di mezzo ai popoli e vi radunerò da quei territori dove foste dispersi con mano forte, con braccio possente e con la mia ira traboccante 35 e vi condurrò nel deserto dei popoli e lì a faccia a faccia vi giudicherò.
L’aspetto più interessante per noi è proprio l’unione dell’uso espressivo della faccia con quello del corpo. La divinitàviene trattato in questi passi con un linguaggio analogo a quello di una sorta di maschera teatrale che colpisce la fantasia per i suoi tratti esagerati, che appartengono assieme al mondo fisico e a quello morale. Questa caratteristiche non sono affatto messe in discussione o tematizzate, la loro fisicità è data per scontata, senza essere mai teorizzata.
C’è però un celebre episodio dell’Esodo nel capitolo 33 che costituisce l’unica, enigmatica espressione di una riflessione implicita sull’antropomorfismo divino e in particolare sul volto. Dopo che Mosè ha represso l’episodio del vitello d’oro, chiede come premio a Dio di “vedere la sua gloria” (o “presenza”, la traduzione è resa incerta per il fatto che si tratta di un’altra metafora, la parola כבד kavod significa innanzitutto “peso” e rientra in una una radice che si applica molto largamente nel linguaggio biblico: dal fegato al cuore “indurito” del Faraone al precetto di onorare i genitori, all’“onore” e al “prestigio” che sono oggi il suo senso prevalente: La richiesta è formulata prima in modo più ossequiente e indiretto
יֹּאמֶר מֹשֶׁה אֶל-יְהוָה,[…] רְאֵה וְאַתָּה אָמַרְתָּ יְדַעְתִּיךָ בְשֵׁם, וְגַם-מָצָאתָ חֵן בְּעֵינָי.
( וְעַתָּה אִם-נָא מָצָאתִי חֵן בְּעֵינֶיךָ, הוֹדִעֵנִי נָא אֶת-דְּרָכֶךָ, וְאֵדָעֲךָ, לְמַעַן אֶמְצָא-חֵן בְּעֵינֶיךָ
12 Mosè disse al Signore: […] hai detto: Ti ho conosciuto per nome, anzi hai trovato grazia ai miei occhi. 13 Ora, ti prego, se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi, prego, fammi conoscere la tua via, così che io ti conosca, e trovi grazia ai tuoi occhi […]
Questa richiesta, che di fatto è straordinariamente ambiziosa, mirando alla verità di Dio, si presenta con esplicita umiltà e si propone come un percorso in qualche modo circolare dall’“ho trovato grazia”(matzhati hen)presso di te, ti sono stato gradito, il che è affermato per mezzo di un’enunciazione enunciata dell’interlocutore divino, cioè in sostanza richiamando come testimonianza una precedente dichiarazione di lode, al dubbio retorico se questa grazia sia stata davvero trovata fino all’enunciazione di un obiettivo finale apparentemente tautologico, di nuovo quello di “trovare grazia”. Si tratta di un espressione di gradimento di un inferiore da parte di un superiore tipica delle corti mediorientali antiche, che ritorna più di una volta nel testo biblico anche in contesti in cui Dio non appare, per esempio nel colloquio fra Giuseppe e i suoi fratelli. Qui si tratta di un’isotopia evidente e dal nostro punto di vista è interessante anche per il richiamo agli occhi. La grazia che si trova è il frutto di un comportamento e di un discorso appropriato, ma viene “dagli occhi”, è per così dire un fatto percettivo, non una deliberazione. Nel caso divino essa ha evidentemente grandi conseguenze sul destino del candidato.
Fra il “trovar grazia” dichiarato in un passato molto prossimo e il “trovar grazia” per il futuro e magari per sempre, qui per Mosè si interpone la “conoscenza” di una “Via” o un “cammino” (un’ascesa, suggerisce Rav Hirsch in Clark 1999) non meglio precisato, se non per il suo accostamento alla conoscenza. Dal “conoscere le tue strade” potrebbe derivare “il conoscerti”. Anche “conoscere” in questo brano è un’isotopia frequentissima, un bisogno impellente da parte di qualcuno che ha appena rivendicato di essere “conosciuto per nome” da Dio: la salvezza viene dal sapere e dall’essere identificato. Questa complessità della grazia e del sapere che si avvolgono su se stessi ha forme linguistiche orientali e di corte, ma pone un problema teologico decisivo: che cosa vuol dire esattamente conoscere Dio? e quali sono le sue vie da imparare? non sono esse “diverse da quelle degli uomini”, come poi dirà Isaia 55: 6-9 e quindi inconoscibili? O si tratta della rete dei precetti che regola tutta la vita umana? Siamo in fondo al centro di una parte della Torah dedicata alle regole fondamentali dell’esistenza.
Essa si traduce poi però in una preghiera assai diretta, fin quasi alla sfrontatezza: “18. Gli disse: «Mostrami, ti prego la tua Gloria!»”
וַיֹּאמַר: הַרְאֵנִי נָא, אֶת-כְּבֹדֶךָ.
Dunque oltre alla conoscenza della via e quella della Divinità, vi è una gloria da farsi mostrare (che abbiamo appena visto essere una “pesantezza”, un “onore” o una considerazione, come ancora si usa oggi la parola in ebraico moderno). Ma sono la stessa cosa?
Maimonide (1186-90, 1: 54, riassumo qui velocemente l’analisi lunga e molto densa di questo capitolo) osserva che Mosè fece due richieste. Innanzitutto chiese di conoscere i “suoi attributi”. Questa richiesta è stata soddisfatta, come vedremo in seguito, sotto forma dei tredici attributi (Middot) elencati in Esodo 34: 6-7. Mosè fa quindi la richiesta personale di “conoscere la sua essenza e la sua vera realtà”. Nelle parole della Torah, “Mostrami, ora, la tua gloria”. La “gloria” di Dio (kavod) è qui interamente sinonimo della sua “faccia”. Questa richiesta viene respinta. Al suo posto, Maimonide ha la visione della “schiena di Dio”. Quella parola, secondo Maimonide, indica una conoscenza completa della creazione che fu poi data a Mosè e che “non è stata ottenuta da nessuno prima di lui né lo sarà da nessuno dopo di lui”.
La replica divina è molto interessante perché introduce un nuovo termine, ancora più astratto della gloria, “il mio bene” (tovì), che alcuni traducono esteticamente o estaticamente come “splendore”, altri eticamente, sia pur correndo il rischio di qualche difficoltà di comprensione, come “bontà” (come può la bontà passare davanti alla faccia di qualcuno?):
וַיֹּאמֶר, אֲנִי אַעֲבִיר כָּל-טוּבִי עַל-פָּנֶיךָ, וְקָרָאתִי בְשֵׁם יְהוָה, לְפָנֶיךָ; וְחַנֹּתִי אֶת-אֲשֶׁר אָחֹן, וְרִחַמְתִּי אֶת-אֲשֶׁר אֲרַחֵם.
33: 19 Rispose: «Farò passare davanti a te [al panecha, una locuzione che contiene il lessema “faccia”, come abbiamo visto] tutto il mio splendore [letteralmente: il mio bene] e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te [lifnecha, di nuovo la faccia].
La risposta si specifica poi in una promessa che sarà quella effettivamente mantenuta, ma sostituendo la dimensione dell’ascolto a quella della vista, con l’enunciazione di quelli che nella tradizione ebraica sono chiamati i “Tredici attributi” di Dio. Ma certamente “proclamare” o “chiamare” non è il corrispettivo di “mostrare” o “far conoscere”. La ragione data per questa decisione appare fortemente autoreferenziale:“Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia.” E però val la pena di notare che qui si richiama ancora una volta la “grazia” invocata da Mosè, accostandola però non alla “conoscenza” (magari “per nome”) ma alla “misericordia” che sarà l’asse principale della proclamazione degli attributi divini. L’isotopia proposta dalla prima domanda di Mosè è conservata, ma è anche ampliata nel senso della futura risposta.
Ma c’è un’altra ragione, ancora più significativa, che è presentata come un fatto o un principio generale:
וַיֹּאמֶר, לֹא תוּכַל לִרְאֹת אֶת-פָּנָי: כִּי לֹא-יִרְאַנִי הָאָדָם, וָחָי.
וַיֹּאמֶר יְהוָה, הִנֵּה מָקוֹם אִתִּי; וְנִצַּבְתָּ, עַל-הַצּוּר.
וְהָיָה בַּעֲבֹר כְּבֹדִי, וְשַׂמְתִּיךָ בְּנִקְרַת הַצּוּר; וְשַׂכֹּתִי כַפִּי עָלֶיךָ, עַד-עָבְרִי.
וַהֲסִרֹתִי, אֶת-כַּפִּי, וְרָאִיתָ, אֶת-אֲחֹרָי; וּפָנַי, לֹא יֵרָאוּ.
20 E disse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». [vedere il volto di qualcuno è dunque vederlo] 21 Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: 22 quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. 23 Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere».
Naturalmente c’è molto da commentare qui: innanzitutto quella “mano” che copre, quella gloria o via che dunque è il volto divino: così afferma per esempio Langerman 2019), e cioè, come suggerisce il testo, e nella tradizione è Abraham Bin Ezra a sottolinearlo (cit. in Cohen 1947), Dio stesso (e chi vede il suo volto dunque vede, cioè “conosce”, com’era stato chiesto al verso 13, Dio stesso e la sua via); quelle “spalle” che sono una traduzione possibile ma molto figurativa della parola ebraica ahar, che ho già discusso mostrandone l’ambiguità fra “dietro” e “dopo” e la parentela rispetto all’“altro”, e che in una celebre “Lezione talmudica” Emmanuel Lévinas (1968) ha interpretato come “tracce nella storia”. Maimonide (1186-1190: 1. 38) invece legge l’espressione come “e tu vedrai dietro di me”, e la spiega così: “ossia percepirai ciò che mi segue e mi è simile e dipende dalla mia volontà – cioè tutte le mie creature”.
Ma innanzitutto vale la pena di completare l’episodio con quel che sentì Mosè (Es. 34:6). C’è prima un intermezzo in cui Dio ordina a Mosè di tagliare due nuove tavole per sostituire le prime che ha lasciato cadere a terra e rotto di fronte all’evidenza dell’idolatria del vitello d’oro; Mosè esegue, risale sul monte e
5. Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. 6 Il Signore passò davanti a lui proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira [letteralmente: dalle narici lente] e ricco di grazia e di fedeltà, 7 che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione».
וַיֵּרֶד יְהוָה בֶּעָנָן, וַיִּתְיַצֵּב עִמּוֹ שָׁם; וַיִּקְרָא בְשֵׁם, יְהוָה.
וַיַּעֲבֹר יְהוָה עַל-פָּנָיו, וַיִּקְרָא, יְהוָה יְהוָה, אֵל רַחוּם וְחַנּוּן–אֶרֶךְ אַפַּיִם, וְרַב-חֶסֶד וֶאֱמֶת.
נֹצֵר חֶסֶד לָאֲלָפִים, נֹשֵׂא עָוֺן וָפֶשַׁע וְחַטָּאָה; וְנַקֵּה, לֹא יְנַקֶּה–פֹּקֵד עֲוֺן אָבוֹת עַל-בָּנִים וְעַל-בְּנֵי בָנִים, עַל-שִׁלֵּשִׁים וְעַל-רִבֵּעִים.
Non entro qui nel merito degli attributi (in ebraico “misure”, midot מידות) qui enunciate, che sono un tema estremamente complesso e rilevante, perché è il solo autentico passo di teologia contenuto nella Torah, oggetto di innumerevoli riflessioni nella storia del pensiero ebraico. E’ un passo biblico rilevantissimo anche sul piano liturgico, come lo interpreta il più autorevole commentatore ebraico (Rashi 1988 ad loc., v 19):
Farò passare dinnanzi a te. E’ giunto il momento in cui tu puoi vedere della mia gloria quel che ti consentirò di vedere, perché io voglio e debbo insegnarti un formulario di preghiera […] Per insegnarti la formula per implorare misericordia […] e nella stessa maniera in cui tu mi vedi, cioè avvolto nel talled [manto di preghiera] e proclamando i Tredici attributi divini
In effetti questo brano viene ripetuto decine di volte nella liturgia penitenziale di Iom Kippur, il Giorno dell’Espiazione. Quel che Rashi definisce “rispettoso antropomorfismo” nei confronti di Dio (commento al v. 22) e che arriva fino a interpretare il “Mi vedrai da dietro” del verso 23 come la visione della nuca su cui anche Dio ha annodato il laccio dei filatteri (tefillim) che ogni buon ebreo indossa ogni mattina per la preghiera, si giustifica secondo Rashi con la pedagogia dell’imitatio Dei che è uno dei cardini dell’etica e della religione ebraica, sancito anche dalla Torah:
קְדֹשִׁים תִּהְיוּ: כִּי קָדוֹשׁ, אֲנִי siate santi perché [o perfino: come] io sono santo. (Lev 19:2).
Quel che ci interessa più qui è l’intreccio fra insistenza sulle metafore fisiche della presenza divina e dichiarazione sull’impossibilità che questa sia vista: una tensione che è stata molto interpretata nella teologia e filosofia ebraica. Abbiamo da un lato la dichiarazione dell’impossibilità di vedere il Volto divino, che una tradizione filosofica che parte da Maimonide (1186-90, 1: 54, 1: 64) interpreta come “l’essenza” (dhāt) e la vera realtà (ḥaqīqa) del Divino e Nachmanide traduce nell’immagine della “rivelazione completa dello splendore divino” (cit. da Cohen 1947). Questa sarebbe la ragione principale dell’impossibilità: conoscere, comprendere, vedere significa anche in qualche misura prendere, aver potere su. Da questo punto di vista l’impossibilità di vedere va accostata alla proibizione di pronunciare il nome divino.(Per un’analisi più vasta su questo punto, rimando al mio Volli 2019; sul tema dell’impossibilità di vedere il volto in Maimonide, cfr. Langerman 2019 , Pessin 2012) .
Dall’altro troviamo in questo passo allo stesso tempo l’impiego sistematico di immagini antropomorfe (il volto, il retro, la mano, l’atto di passare per un luogo…). Se prendiamo alla lettera questo brano, sembrerebbe che l’impossibilità di vedere Dio non sia di natura logica, dello stesso genere per cui è logicamente impossibile vedere enti astratti quali la giustizia o la verità, ma piuttosto pratica o etica: sarebbe proibito vederlo, come non bisogna “scoprire la nudità” dei parenti (Lev 18: 7-19); o forse sarebbe solo materialmente impossibile farlo senza morirne, come sembra dire il testo, allo stesso modo per cui è impossibile stare nel fuoco (ma per miracolo nel Tanach ci riesce Daniele e nel Midrash anche Abramo) o buttarsi da un dirupo. Nachmanide (commentatore e cabalista spagnolo 1194-1270) spiega che “questo non significa che un uomo morrebbe in seguito alla visione divina, ma che prima di poter vedere Dio, la sua anima si separerebbe dal corpo (cit. in Cohen 1947). In sostanza, chiarisce ancora Sforno, non è che Dio dica che sia impossibile per lui manifestarsi, ma lo è per Mosè ricevere la manifestazione (ivi).
Comunque si interpreti questo passaggio, il suo chiarissimo senso esplicito è che gli esseri umani non possono vedere il volto di Dio e vivere, ma anche così troviamo una difficoltà testuale, un ossimoro se non una contraddizione, perché lo stesso testo dell’Esodo dice anche che Dio e Mosè parlano “faccia a faccia”. Poco prima dell’inizio dell’episodio che ho riassunto, infatti si legge:
וְדִבֶּר יְהוָה אֶל-מֹשֶׁה פָּנִים אֶל-פָּנִים, כַּאֲשֶׁר יְדַבֵּר אִישׁ אֶל-רֵעֵהוּ
Es 33:11 Così il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro.
(Fra l’altro l’espressione usata è letteralmente “il suo prossimo”, lo stesso vocabolo del celebre “ama il tuo prossimo come te stesso” in Lev 19: 18) Troviamo comunque qui una tensione (almeno linguistica) molto forte, che non è dissolta neppure dall’ipotesi che la Torah sia il frutto del montaggio di diversi documenti, perché gli studiosi dell’“Ipotesi Documentaria” attribuiscono tutta questa parte del testo alla stessa fonte E (come si rileva per esempio nell’“appendice” di Friedman 1987). L’interpretazione ebraica è ben consapevole del problema. Rashi 1998, ad loc. spiega che il verso “va inteso come lo traduce il Targum, cioè il Signore parlava con se stesso mentre Mosè era presente”. Seguendo la tradizione talmudica, Obadia Sforno (commentatore ebraico, Cesena 1470- Bologna 1550 circa) nel suo commento (trad. inglese 1997) sostiene che il punto stia nel fatto che Dio non appariva a Mosè in estasi, ma mentre egli manteneva le sue facoltà. Maimonide (1186-90, 1: 37) svolge un discorso articolato e complesso che lega le due ricorrenze:
“Faccia” è un termine che [fra l’altro] indica la presenza e il fermarsi di un individuo. […] Secondo questo significato si dice “il Signore parlò a Mosè faccia a faccia”, ossia lui presente a Mosè presente, senza intermediari [… Ciò] designa il parlare di Dio in forma di discorso rivolto a qualcuno […] è chiaro che l’ascolto della voce senza l’intermediazione di un angelo è designato come “faccia a faccia” e con questo significato si dice “il mio volto non si può vedere”.
Di seguito Maimonide cita però anche il Targum cioè la traduzione aramaica di Onkelos (circa 110 EC, che dà un’altra spiegazione ancora all’impossibilità di vedere la faccia, molto diversa dall’altra, perché in termini tratti dalla metafisica di Aristotele. E’ interessante riportare assieme queste due interpretazioni accettate da Maimonide, perché si tratta di una dimostrazione importante del principio della pluralità ermeneutica caratteristica del pensiero ebraico:
“Faccia” è anche avverbio di luogo […] Secondo questo significato anche “il mio volto non si può vedere”, nell’interpretazione di Onkelos è: “Coloro che stanno davanti a me non saranno visti”, alludendo al fatto che vi sono creature altrettanto importanti che l’uomo non è in grado di percepire per quello che sono, ossia gli intelletti separati, la cui relazione con Dio comporta che essi siano sempre in sua presenza e nelle sue mani […] Per quanto riguarda ciò che secondo Onkelos viene percepito nella sua realtà, si tratta delle cose che sono al di sotto di queste nel grado della loro esistenza, ossia delle cose dotate di materia e di forma, delle quali Dio dice “tu vedrai ciò che è dietro di me”, ossia gli enti che ho tralasciato e ai quali ho volto la schiena, in termini metaforici, perché sono troppo remoti dall’esistenza di Dio.
L’interpretazione di Onkelos deriva dalla possibile traduzione di “la mia faccia” come “davanti a me”, secondo quel che ho accennato nel secondo paragrafo, interpretata da Maimonide secondo categorie filosofiche aristoteliche. Naturalmente è un’interpretazione discutibile alla luce del contesto, anche se grammaticalmente accettabile soprattutto in una scrittura non vocalizzata. E però essa ci mostra la complessità delle risonanze intellettuali dell’ebraico פנים panim, che comprende il senso attivo di vedere (da cui viene l’italiano “viso”) e quello passivo (da cui “faccia”).
Alla tensione relativa alla visibilità del volto divino contribuisce anche l’interdizione alla rappresentazione della divinità, che vige nell’Ebraismo e di qui nell’Islam, e che il Cristianesimo ha annullato in maniera non facile e storicamente tortuosa, con crisi come quella dell’iconoclastia e della Riforma. Che Dio non sia rappresentabile e nemmeno visibile fa parte della contrapposizione originaria del monoteismo ebraico ai politeismi antichi. Si può continuare a pensare forse che in queste affermazioni della Scrittura, come nelle altre che ho citato, vi sia una dimensione essenzialmente metaforica. Questo non è difficile per noi, e anche per fonti molto tradizionali come Maimonide, che secondo quel che si è accennato (1186-90,1:54) sostiene che Mosè aveva chiesto di conoscere la divinità “come essa è per essenza” e che la risposta in sostanza che non si può cogliere l’essenza divina in questo mondo. Più in là (2:35), Maimonide allude all’idea che la relazione “faccia a faccia” di Mosè con la divinità fosse un’espressione del singolare e distinto livello di profezia che Mosè raggiunse: egli non fu messo in uno stato di incapacità fisica quando comunicava con Dio, al contrario di tutti gli altri profeti che non potevano parlare con Dio mentre avevano il controllo delle loro facoltà fisiche.
Il lavoro ermeneutico su questo passo si è prolungato nei secoli, anche perché in esso alla questione della visibilità del divino, che ho isolata un po’ artificialmente ritagliando nel testo le espressioni che vi si riferiscono, si intreccia quella delle conseguenze dell’episodio del Vitello d’oro rispetto alla presenza divina al popolo ebraico, che preme di più ai commentatori per le sue conseguenze soteriologiche, rispetto alla tematica puramente teologica del volto. Certamente anch’essa suscita molte discussioni, e certamente la dimensione metaforica suggerita da Maimonide presenta un ostacolo importante, qui come altrove, per una lettura integralista delle Scritture. Il commento ebraico, a partire dalla Mishnà e dal Talmud (Volli, 2020) e forse dall’autointerpretazione della Torà stessa (Volli 2019, cap. 1) è attentissimo ai dettagli della lettera del testo, ma non è integralista nel senso di voler leggere il testo per forza solo al primo e più evidente (talvolta più banale) livello di interpretazione. Così, per fare solo un esempio, già Rashi (1995, ad loc.), sulla base di alcuni dettagli lessicali e grammaticali, rifiuta la lettura cronologica semplice del racconto della creazione.
Che qualcuno possa incontrare Dio faccia a faccia, e vedere il volto divino (o riceva la proibizione di vederlo) oggi non sembra quasi più strano per un mondo cristiano che spesso non si rende più quasi conto dell’aspetto paradossale della pretesa dell’Incarnazione, per cui una Persona della Trinità ha letteralmente un volto, che si può vedere ritratto infinite volte in ogni chiesa e luogo religioso. Ma rispetto al mondo ebraico (e anche a quello musulmano) lo scandalo c’è, è grande. I tentativi per disinnescare questo linguaggio antropomorfo sono stati frequenti, anche prima di Maimonide Per esempio Rabbi Ishmael, grande maestro del II secolo, in polemica con Rabbi Akivà, presenta il seguente principio: דברה תורה כלשון בני אדם, “la Torah parla nella lingua degli uomini” (Sifre, Num. 112), il che significa che esprime verità comprensibili solo attraverso un filtro linguistico che traduce le verità metafisiche e teologiche per la limitata intelligenza umana, dunque le materializza. È il caso di tutti gli antropomorfismi.
Ma anche senza questa operazione di disinnesco degli aspetti antropomorfi del testo biblico, resta il problema dell’enorme difficoltà di un confronto visivo fra l’occhio del fedele e la presenze divine nelle teofanie bibliche, tanto che la Torah stessa tiene a precisare, a proposito della rivelazione del Sinai:
וַיְדַבֵּר יְהוָה אֲלֵיכֶם, מִתּוֹךְ הָאֵשׁ: קוֹל דְּבָרִים אַתֶּם שֹׁמְעִים, וּתְמוּנָה אֵינְכֶם רֹאִים זוּלָתִי קוֹל.
Dal fuoco il Signore vi ha rivolto le sue parole: voi avete ascoltato, ma non avete visto niente; si sentiva solo la voce! (Deuteronomio 4: 12)
Inoltre nel corso della Bibbia troviamo numerosi dispositivi di filtro ottico attivo e passivo che letteralmente impediscono la visione della divinità, analogamente alla mano del passo che abbiamo visto (Volli 2019, cap. VII). Per esempio Mosè distoglie lo sguardo dal roveto ardente, quando si accorge che si tratta di una teofania (Es. 3: 4) Ed egli stesso, essendo diventato il suo volto “luminoso” dopo l’incontro divino della rivelazione del Sinai, si copre per non ferire con la sua luce i suoi compagni (ma i raggi di luce diventano “corna” nella traduzione dei LXX, dando vita a una tradizione iconografica di Mosè cornuto che dura fino a Michelangelo e oltre)
Insomma, il volto è un accesso importante alla vera essenza di qualcuno, anche di Dio, secondo una modalità che può essere intesa anche letteralmente. Ed è anche il luogo da cui qualcuno (o Qualcuno) guarda gli altri e li accetta. Così per esempio l’obbligo delle tre feste di pellegrinaggio a Gerusalemme (Pesach, Shavuot, Sukkot) viene stabilito con queste parole (Es 23: 17 ripetute quasi uguali in Dt. 16: 16)):
שָׁלֹשׁ פְּעָמִים, בַּשָּׁנָה–יֵרָאֶה, כָּל-זְכוּרְךָ, אֶת-פְּנֵי הָאָדֹן יְהוָה, אֱלֹהֵי יִשְׂרָאֵל.
che normalmente si rendono con “Tre volte all’anno ogni tuo maschio comparirà al cospetto del Sovrano, il Signore” (così A.S. Toaff in Di Segni 1985); ma letteralmente si prescrive che ogni uomo sia visto dalla faccia divina. Tant’è vero che il distoglimento del volto divino è un evento tragico, minacciato molte volte nel testo biblico Molto ragionevolmente, nel linguaggio della Bibbia “vedere la faccia” di qualcuno significa incontrarlo (Gen. 32: 20), “distogliere la faccia” vuol dire essere in collera (Sal. 13: 1, 27:9). La conseguenza è il “nascondimento del volto” (הֶסֵתֵר פנים) hester panim, punizione radicale che viene minacciata per esempio in Dt.31:17
In quel giorno, la mia ira si accenderà contro di loro; io li abbandonerò, nasconderò loro il mio volto e saranno divorati. Molti mali e molte calamità cadranno loro addosso; e in quel giorno diranno: “Questi mali non ci hanno forse colpito perché il nostro Dio non è più in mezzo a noi?”
Questa figura del volto nascosto è diffusa in tutta la Bibbia ebraica, per esempio in Sal 44: 24-25 (“Svegliati, perché dormi, Signore? /Destati, non ci respingere per sempre. / Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione?”) E in Isaia 8:17 dove dice che ha “fiducia nel Signore, che ha nascosto il volto”. Questa figura, richiamata nelle letture tradizionali della storia della regina Ester, per una similitudine del significante linguistico che è presa molto sul serio (Ester – hester panim), soprattutto nelle persecuzioni che costringevano gli ebrei alla clandestinità come quelle dell’Inquisizione, è tornata d’attualità nella teologia della Shoà (Wolpe 1997).
Siamo arrivati alla fine di questo percorso. E’ proibito (o forse è impossibile) vedere il volto divino, ma è importate che esso ci sia e che ci guardi. La potenza di quest’immagine dello sguardo di Dio, forse metaforica forse da prendere alla lettera, resta presente come poche altre nella nostra cultura, anche ben al di là dell’ebraismo. Senza dubbio per esempio da questo percorso viene la riflessione di Lèvinas (per esempio 1972) sulla priorità etica del “volto” d’“altri” (quell’autrui, che scritto con la maiuscola viene a designare la divinità). Ma esso determina anche il fatto che il viso di Dio (padre) sia assai raramente rappresentato nell’iconografia cristiana, sostituito dal “santo volto” di Gesù, che nella sua raffigurazione “acheropita” o “non fatta da mano umana” sarebbe l’archetipo dell’iconismo cristiano (Kuryluk 1991). Ne segue l’idea che Dio sia soprattutto sguardo (occhio), comune anche nel mondo massonico e perfino nei dollari. Resta al lettore della Bibbia il problema (e in qualche modo il disagio) di una faccia temibile, non rappresentabile e però necessaria, che al di là delle complesse interpretazioni ebraiche sta alla base della rappresentazione occidentale della Divinità.
Ugo Volli
Università di Torino
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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[1] C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.