Intellettuale di origine ebraica, viveva tra l’Italia e il Canton Ticino. Partecipò alle proteste del Sessantotto con Virgilio Gilardoni e Sandro Bianconi
Alberto Saibene
È agosto il più crudele dei mesi. I figli Vera, Emanuele e Lia informano che il loro amatissimo papà, così abituato a risorgere, questa volta non ce l’ha fatta. Avevo visto per l’ultima volta Bruno a luglio, e pur malconcio, chiacchierammo a lungo e ridemmo insieme. Il saper cogliere il lato umoristico delle situazioni, anche le più complicate, era una sua caratteristica spiccata.
Non associo Bruno all’idea di morte, piuttosto a quella di rinascita. Lo aveva fatto molte volte in vita sua. Nel 1938, espulso in quanto ebreo dalle scuole del Regno, seppe adattarsi a una condizione di invisibile. Nel 1941, superò il trauma della morte improvvisa del padre e fu a fianco della madre e della sorella in tante peripezie durante la Seconda guerra mondiale. Trascorsero i mesi dopo l’8 settembre nascosti in un casolare dell’ascolano e solo la solidarietà dei contadini del posto gli permise di non morire di fame. Dopo la Liberazione tornarono a Milano su un camion che trasportava mele. La madre Kate, di origine irlandese, e la sorella sedute accanto all’autista, Bruno dietro a osservare il paesaggio di un’Italia sconvolta dalla guerra. Così anche gli apparve Milano bombardata, pericolosa di notte per gli sbandati che si aggiravano armati, mentre nella casa di famiglia di via Donizetti trovarono una soubrette allora famosa con cui cominciarono una faticosa convivenza. Ognuno aveva avuto la sua dose di guai durante la guerra e così al Parini, poi nella facoltà di filosofia, Bruno stette zitto e imparò a guardare avanti piuttosto che indietro. Dopo la laurea con Antonio Banfi e una serie di lavori da precario della cultura d’epoca fu affascinato dal progetto di mondo nuovo che Adriano Olivetti propugnava col Movimento Comunità.
Si trasferì a Ivrea nel ’55, appena sposato con Matilde, torinese, di famiglia non ebraica. Si occupò di temi sociali e poi politici, senza mai entrare in azienda, ma respirò l’aria di quella Ivrea oggi mitizzata, fino a che il tracollo delle elezioni politiche del 1958 gli fece cambiare aria. Un viaggio in Israele nel 1961 lo entusiasmò: davanti ai suoi occhi stava nascendo un mondo nuovo, senza classi sociali, con un senso di comunità fortissimo. Non si trasferì in Israele perché nel frattempo stavano nascendo i figli. Lasciò invece l’Italia del boom economico per trasferirsi in un Canton Ticino ancora rurale.
Per una scuola più giusta
Era il 1964 e il Cantone cercava docenti di lingua italiana. Insegnò alla Scuola Magistrale di Locarno dove, allo scoccare del fatidico ’68, solidarizzò (di fatto incoraggiò) gli studenti che protestavano per una scuola più giusta. Era insieme agli amici Sandro Bianconi e Virgilio Gilardoni. Li affiancava Libero Casagrande. Ricominciò all’ufficio pubblicità della Olivetti. Fu in rapporti con Franco Fortini, allora esterno, ed ebbe a scontrarsi con Renzo Zorzi. Lo conobbi in quegli anni perché divenni compagno di classe del figlio Emanuele, poi chitarrista di fama internazionale. Ricordo la casa piena di libri di via Lupetta e quella piena di giornali di Camignolo, in Canton Ticino. A pensarci fu il primo intellettuale (a parte mio padre, che era uno scienziato) che incontrai sul mio cammino. Dopo una serie di altri lavori, tra cui quello di stretto collaboratore del sindaco Tognoli (gli scriveva i discorsi), raggiunta l’età della pensione, cominciò una nuova fase della sua vita. Per un caso divenne responsabile dell’associazione Amici di Neve Shalom/Wahat as-Salam, un progetto di convivenza in un villaggio israeliano tra ebrei e palestinesi. “Una goccia nell’oceano” rilevai. “Però esiste” fu la sua risposta.
Avevo ripreso la sua frequentazione tra 2014 e 2015. Ne sono nati due libri-intervista: ‘Che razza di ebreo sono io’ (Casagrande, 2016) e ‘Il funerale negato’ (Una città, 2020). Il mio compito fu soprattutto stimolarlo. Bruno aveva la capacità di riflettere e raccontare nello stesso tempo. Pur completamente laico, sapeva di provenire da una storia molto antica, con implicazioni sociali e politiche che si riverberano sul presente. Come ho detto, più che il passato però, gli interessava il futuro. Era un attento osservatore dello scenario politico internazionale, preoccupatissimo dalla deriva confessionale e autoritaria di Israele, ma attento a cogliere ogni segnale di speranza. Pur pessimista, non si rassegnò mai. La colonna della sua vita fu Matilde, un porto sicuro delle sue inquietudini. Era sempre pronto a partire per luoghi lontanissimi per discutere e ragionare anche con chi la pensava in maniera molto diversa da lui. Col tempo era diventato un saggio e un punto di riferimento per molti di noi, attratti dalla sua leggerezza, dal suo spirito lieve.
Mancherà a molti, ma sono certo che il suo ricordo e il suo esempio ci verranno in soccorso nelle ore dell’affanno.
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